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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
12.06.2012 Siria, Assad manda l'aviazione contro la popolazione
commento di Daniele Raineri, intervista di Maurizio Molinari a Joshua Landis, cronaca di Francesca Paci

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: Daniele Raineri - Maurizio Molinari - Francesca Paci
Titolo: «La Faz tedesca dice che 'il massacro di civili a Houla è opera dei ribelli' - Assad segue l’esempio di Milosevic in Kosovo - Il regime spara con gli elicotteri. Su Homs un razzo al minuto»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/06/2012, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " La Faz tedesca dice che 'il massacro di civili a Houla è opera dei ribelli' ". Dalla STAMPA, a pag. 15, l'intervista di Maurizio Molinari a Joshua Landis dal titolo " Assad segue l’esempio di Milosevic in Kosovo ", l'articolo di Francesca Paci dal titolo "Il regime spara con gli elicotteri. Su Homs un razzo al minuto".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " La Faz tedesca dice che 'il massacro di civili a Houla è opera dei ribelli' "


Daniele Raineri

Roma. Secondo uno dei principali e più rispettati quotidiani tedeschi, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), il massacro di Houla del 25 maggio, in Siria, è stato compiuto dai ribelli e non invece dalle milizie paramilitari al servizio del regime di Damasco. A Houla novanta civili furono uccisi a sangue freddo nelle loro case – inclusi donne e bambini. Dopo un bombardamento di artiglieria dell’esercito regolare le squadracce dei cosiddetti shabiha – in arabo gli “spettri” – fecero irruzione nel villaggio e massacrarono gli abitanti con fucili, garrote e coltelli. Il regime di Damasco ha dato la colpa a non meglio precisate “gang di assassini” legate ad al Qaida. L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha risposto che è una “menzogna evidente” e il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha ufficialmente condannato il regime siriano con una risoluzione. Dopo la strage, tredici nazioni, Italia inclusa, hanno espulso gli ambasciatori della Siria come protesta diplomatica. Rainer Hermann è il 56enne corrispondente della Faz e firma il pezzo da Damasco (quindi ha un’autorizzazione del governo per lavorare). Scrive che quel giorno i ribelli hanno attaccato tre posti di blocco dell’esercito messi a protezione della popolazione in maggioranza alawita di Houla (i ribelli appartengono in misura predominante ai sunniti, maggioranza oppressa dal regime; gli alawiti sono invece la minoranza dominante). L’attacco ha provocato la reazione dell’esercito, l’arrivo di rinforzi e una battaglia di circa 90 minuti, in cui “dozzine di ribelli e di soldati sono stati uccisi”. “Secondo testimoni oculari, il massacro è avvenuto in quell’intervallo di tempo. Gli ammazzati appartengono quasi esclusivamente a famiglie alawite e sciite. Alcune dozzine di vittime sono di una stessa famiglia un tempo sunnita ma ora convertita alla professione sciita. E’ stata uccisa anche la famiglia Shomaliyah, alawita, e quella di un sunnita eletto in Parlamento e per questo considerato un collaborazionista. Subito dopo il massacro, si ritiene che i carnefici abbiano filmato i morti e li abbiano presentati al mondo come vittime del regime nei video caricati su Internet”. Le fonti oculari di Hermann, che parla arabo, non vogliono che i loro nomi siano citati per paura di vendette (è il secondo scoop della stampa tedesca a gettare pessima luce sui ribelli; ad aprile lo Spiegel intervistò uno dei killer che uccide i prigionieri della guerriglia). Il pezzo di Hermann, “Abermals Massaker in Syrien” del 7 giugno, non rende più leggero lo sterminato dossier d’accusa contro gli Assad: le forze di sicurezza del regime bombardano i quartieri delle città, uccidono i civili per strada, sequestrano e torturano i bambini per convincere alla resa le famiglie di chi protesta. Le prove a carico del presidente Bashar sono ampie e inconfutabili. Ma al sedicesimo mese di rivoluzione un velo di nebbia si leva a impastare e rendere indecifrabili i fatti su uno scenario da cui giornalisti e testimoni indipendenti sono deliberatamente tenuti lontani. C’è una guerra incrociata di propaganda inverificabile. Ad aprile il sito (in francese) del monastero di San Giacomo di Qara raccontava il massacro di famiglie cristiane e alawite nel quartiere di Khalidiya a Homs, commesso dai ribelli del Jaish al Hur (“l’Esercito libero”) e addossato al regime. Subito dopo la strage di Houla, la Bbc pubblicò per sciatteria la foto indimenticabile delle vittime di un’autobomba in Iraq nel 2003 (un ragazzo scavalca con un balzo una fila di corpi fasciati da lenzuola adagiati su un pavimento; attorno altre file infinite di corpi). Quattro giorni fa i soldati siriani hanno sparato agli osservatori Onu che tentavano di avvicinarsi a Qubayr, luogo di un secondo massacro mercoledì scorso. Non ci sono corpi, “ma gli abitanti sono scomparsi”, dicono i Caschi blu. Domenica al Arabiya ha citato un giornale del Kuwait per sostenere che gruppi di volontari islamici da Kuwait, Arabia Saudita, Algeria e Pakistan entrano in Siria per combattere contro il regime, ma ieri l’Esercito libero ha smentito seccamente. Il curdo eletto capo dell’opposizione Sabato e domenica i ribelli hanno attaccato e hanno combattuto per ore dentro il perimetro della capitale Damasco, una dimostrazione di forza a cui i media non hanno nemmeno accennato. Da fuori, intanto, arriva la notizia dell’elezione a capo del Consiglio nazionale siriano, l’organismo politico che aspira a rappresentare i ribelli, di un curdo, Abdelbasset Sieda. I curdi in Siria sono un milione e per ora non si sono mossi: il loro intervento cambierebbe l’equilibrio della guerra civile.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Assad segue l’esempio di Milosevic in Kosovo "


Maurizio Molinari, Joshua Landis

La scelta di Assad di bombardare i civili ricorda quella compiuta da Milosevic in Kosovo»: Joshua Landis, direttore del Centro di studi mediorientali dell’Università dell’Oklahoma e autore della newsletter «Syria Comment» traccia un parallelo fra i due dittatori per spiegare l’escalation di violenza di Damasco.

Perché Assad ha deciso di usare gli elicotteri contro i civili?

«L’artiglieria non gli basta più. Sono troppe le città sunnite in rivolta. Ha bisogno di intervenire più rapidamente, in più luoghi e l’arma che ritiene più efficiente sono gli elicotteri».

Cosa vuole ottenere?

«Vuole convincere queste città a non consegnarsi ai ribelli. Vuole impedire ai rivoltosi di impossessarsi di ampie zone urbane».

Il risultato sono attacchi militari dal cielo contro i civili come facevano le forze di Slobodan Milosevic in Kosovo...

«Esatto, se Assad segue questa strada è perché scommette sul fatto che l’Europa è troppo distratta e preoccupata dalla crisi del debito per gettarsi in un intervento militare simile a quelli condotti nel Balcani negli Anni Novanta».

C’è un collegamento fra la crisi dell’euro e l’escalation della vicenda siriana?

«Sono i fatti a suggerirlo. Assad ha accelerato l’uso di mezzi pesanti in coincidenza con la crisi spagnola. Ritiene che la minaccia di un crac di un grande Paese come la Spagna immobilizza l’Europa e senza gli europei l’America non interverrà da sola».

Perché l’esercito subisce un crescente numero di perdite?

«Per la crescente forza dei ribelli. Dispongono di ingenti quantitativi di armi e dimostrano una notevole capacità tattica di azione».

Da dove arrivano le armi?

«Strategicamente è il lungo confine turco che consente di far avere rifornimenti ai ribelli ma le armi probabilmente arrivano dai Paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita. Un’altra ipotesi è che i sauditi, o altri Paesi arabi, paghino le armi turche che poi Ankara fa arrivare ai ribelli».

Cosa pensa del nuovo leader curdo del Consiglio nazionale siriano?

«Sono due gli aspetti importanti. Anzitutto è un curdo e dunque lascia intendere la volontà di coinvolgere nella rivolta la più numerosa minoranza siriana, finora rimasta alla finestra. In secondo luogo Abdelbasset Seida non ha alcun tipo di potere e questo giova ai Fratelli musulmani, che sono la forza politica più organizzata dell’opposizione».

Dunque il cambio della guardia avvenuto alla guida dell’opposizione favorisce i Fratelli musulmani?

«L’assenza di un leader forte alla testa del Consiglio nazionale siriano è il migliore risultato possibile per i Fratelli musulmani, che sapevano di non poter ambire a quel posto».

Che legame c’è fra i Fratelli musulmani siriani ed egiziani?

«Sono entità diverse perché si separarono a causa di una scissione ma ideologicamente hanno una matrice comune. Non c’è un’unica cabina di comando che distribuisce gli ordini a tutti ma vi sono piattaforme e idee comuni».

La STAMPA - Francesca Paci : " Il regime spara con gli elicotteri. Su Homs un razzo al minuto "


Bashar al Assad

Spirali di fumo nero danzano sulle raffiche, ta-ta-ta-ta. «Dov’è Kofi Annan?». Un’esplosione potente rimbomba nel microfono. «Allah uakbar» (Allah è grande). Silenzio. Colpi secchi, ripetuti, fiamme alte tra le antenne paraboliche di un palazzo bersagliato. «La Siria muore». La voce del cameraman senza volto spezza sporadicamente il rumore sinistro e magnetico della guerra sotto casa. Di tanto in tanto un uccello attraversa l’inquadratura.

Quando ieri è apparso in Rete il video del bombardamento in diretta di Homs (o dovremmo dire il presunto video giacché, come al solito, la verifica è affidata a testimonianze incrociate e a loro volta non di prima mano), non c’erano ancora informazioni certe su cosa stesse accadendo in una delle città simbolo della rivolta contro il regime siriano. Trasmesse in tempo reale da qualcuno posizionato in cima a un edificio di media altezza, le immagini del vecchio centro martellato dai mortai sono arrivate prima che gli osservatori dell’Onu confermassero la notizia dei civili intrappolati sotto il tiro degli elicotteri dell’aviazione di Damasco. Mentre l’inviato della «Bbc» Paul Danahar contava un razzo ogni minuto e riferiva dell’uso di droni da parte dell’esercito governativo, lo spettacolo live dell’assedio di Homs, rilanciato dalla «Cnn» ad «Al Jazeera» al circuito di Twitter, faceva il giro del mondo. Impossibile staccare lo sguardo.

Nel giro di poche settimane la crisi siriana è lievitata. Il numero dei morti è arrivato a 14 mila, la frequenza dei massacri è diventata pressoché quotidiana, le organizzazioni umanitarie internazionali parlano ormai di un milione e mezzo di persone (il 7% della popolazione) bisognose di aiuto urgente, il presidente Assad è sempre più determinato nell’attribuire la responsabilità a «terroristi stranieri» e l’opposizione appare definitivamente spaccata tra chi continua a manifestare a mani nude (ci sono decine di video) e chi, capitanato dal Libero Esercito Siriano, è deciso ad abbattere il regime anche a costo di farsi sponsorizzare dal Golfo (o da chiunque offra armi e intelligence).

Il bombardamento in tempo reale di Homs sembra la metafora del tracollo del Paese davanti agli occhi del mondo, la cronaca visiva di una morte annunciata che, come metteva lucidamente a fuoco l’ultimo libro di Susan Sontag «Regarding the Pain of Others» (Guardando il dolore degli altri), può suscitare al tempo stesso dissenso, rabbia violenta, apatia.

«Avevo vent’anni nell’82; sebbene Hama si trovi ad appena un’ottantina di chilometri da qui seppi della carneficina solo molto tempo dopo, Assad padre poté contare sull’assenza di testimoni» ci raccontava poco più di un anno fa l’ingegnere Hassan nella Homs ancora parzialmente sfiorata dalla rivolta. Il suo telefono squilla a vuoto da settimane, un suono di spaventosa normalità come le raffiche in sottofondo nel video che immortala l’interruzione della vita nei palazzi e sotto i minareti della moschea Khaled ibn Alwalid.

«A questo punto qualcosa deve succedere, Assad non colpisce più per spaventare l’opposizione che ormai è oltre la soglia della paura ma per serrare i ranghi dei suoi» ci dice al telefono un attivista di Damasco. Qualcosa succederà. Washington ripete d’essere «profondamente allarmata» e denuncia il rischio di un nuovo massacro nella roccaforte ribelle al Haffa, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu prepara le consultazioni per una nuova risoluzione, il capo della diplomazia russa Lavrov è diretto a Teheran intenzionato a discutere di nucleare ma soprattutto di Assad.

Tramonta il sole sulla Siria ferita e il numero delle vittime quotidiane è già a quota 74. A Homs le ombre della sera si confondo con il fumo dei bombardamenti. L’uomo della telecamera filma ancora: non teme di diventare complice del delitto per il solo fatto di riprenderlo in diretta come nel film di Rémy Belvaux «Il cameraman e l’assassino», quel rischio, suggerisce tenendo fisso l’obiettivo, lo corriamo noi.

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