Come fiamma che brucia Bella Chagall
Traduzione di Lilia Grieco
Donzelli Euro 20
E’ così che l’abbiamo sempre vista, immaginata, invidiata: un abito carminio, gli occhi sgranati, i capelli sospesi nella brezza insieme a tutto il resto. E una specie di lieve beatitudine che emana da ogni tratto del pennello: è Bella Chagall ne“La promenade”, dipinto da Marc intorno al 1917. Lui è lui, inconfondibile, nell’abito nero, nel colletto, nel sorriso fra l’ironico e l’estasiato. Il quadro raffigura, anzi rievoca o per dirla ancor meglio sogna, una passeggiata dei fidanzati appena fuori dalla cittadina di Vitebsk, dov’erano nati entrambi. E’, senza tema di smentite, uno dei quadri più belli del mondo. Lo è perché racconta di un amore unico, che nasce a Vitebsk fra un povero ma spensierato ragazzo e la figlia di un ricco negoziante, si corona nelle nozze e poi attraversa quasi tutto il mondo, sospinto dalle vicissitudini del tempo. Bella e Marc vivranno a Parigi, nel Sud della Francia e poi a New York. Sono sempre più innamorati l’uno dell’altra, lui la dipinge tante e tante volte. Dall’esilio americano seguono il dramma della guerra e del nazismo finché, il 26 agosto 1944 la “città santa” di Chagall, la ville lumière, è finalmente liberata. Festeggiano con il progetto di tornarvi prima possibile, ma neanche una settimana dopo Bella muore per una stupida e implacabile infezione – la guerra infesta l’America, in ospedale non si trova neanche della stupida penicillina. Ma Bella Chagall non è stata soltanto la moglie e la musa di un grande pittore. Nel 1939, mentre la coppia si nasconde nel Sud della Francia e assiste sgomenta all’avanzata di Hitler, Bella si mette a scrivere. E lo fa in quella mameloschen che non significa “lingua madre” ma, in un’accezione tanto più ampia e infinitamente più affettiva, si può tradurre solo come “lingua mamma”: è lo yiddish ascoltato e masticato da bambina a Vitebsk, l’unica lingua in cui si sarebbe mai potuto scrivere un libro quale “Come fiamma che brucia. Io, la mia vita e Marc Chagall”. Ed è proprio fra queste struggenti, lievi e malinconiche pagine che ritroviamo la passeggiata dei fidanzati. Senza colori, ma con le parole: “Il nostro ponte, per noi, è il paradiso. Dalle nostre case molto piccole, con i soffitti bassi, scappiamo verso il ponte per gettare uno sguardo al cielo. Nelle viuzze troppo strette il cielo non si vede. Chiese e tetti svettano. E là, sotto il ponte, scorre il fiume. L’aria filtra tra cielo e acqua. La brezza porta con sé profumo di fiori…”. Bella ha conosciuto Marc tramite Thea, un’amica comune (che gli fa anche da modella). E’ un ragazzo strano, fa il pittore, ha un sorriso aperto eppure c’è in lui qualcosa di misterioso: “Ha i capelli scompigliati. I suoi ricci ricadono giù, si arrotolano, si incollano alla fronte, nascondono occhi e sopracciglia. Ma quando gli occhi si aprono un varco sono blu, venuti dal cielo. Occhi stranieri, non come quelli di tutti, lunghi, a mandorla”. Questo ragazzo non è certo il buon partito che la famiglia di lei auspicava, viene da una famiglia povera e poi fa un mestiere improbabile, ma tanto all’amore non si comanda: il 25 luglio del 1915 si sposano sotto la huppà, il baldacchino nuziale. Questo mémoir, illustrato quasi passo a passo dai disegni di Marc, non è però soltanto una rievocazione del loro amore. E’ una specie di tributo a quel mondo ormai lontano che, in virtù di un mesto e veritiero presagio, nel 1939 stava morendo. Bella racconta la vita ebraica a Vitebsk in tutte le sue sfaccettature: le festività, le confidenze di famiglia, il negozio con il personale e i clienti, la natura intorno alla città: “pensavo che con la nostra città terminasse il mondo: alla stazione di Vitebsk tutti i treni arrivano a un binario e ripartono dall’altro”. L’io narrante è un po’ bambina e un po’ ragazza, ha intorno a sé una famiglia calda, con una madre indimenticabile sia quando recita la benedizione sabbatica sia quando sgrida Bella e i suoi fratelli. C’è anche Chaja, una cuoca tuttofare dalle mani leste e buone. Ci sono scene meravigliose, come la preparazione della Pasqua o le ore trascorse con il povero e tartassato precettore che veniva a casa per i bambini. Insomma, al di là del suo valore documentario, dell’essere testimonianza di due vite così straordinarie e offrire al lettore un ritratto ravvicinato dell’artista, questo libro vale, e tanto, per quello che è. Una commemorazione affettuosa e disperata a un tempo di quel passato che già nel 1939 non esisteva più. Del resto, come scrisse suo marito nel 1947, presentando queste pagine: “Lei scriveva come viveva, come amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi sono una patina di colore sulla tela”. E così, grazie a lui e alle sue figure sospese dentro uno spazio fantastico che altro non è se non il rifugio della memoria, grazie a lei e ai suoi ritratti di parole, quel mondo non è proprio scomparso del tutto: è rimasto a noi quel tanto che basta per destare una nostalgia strana, che è un po’ come perdersi laggiù, senza esserci mai stati.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa