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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia 28/05/2012

Il ghetto di Varsavia                             Marek Edelman
Giuntina                                                   Euro 12

Non un racconto epico, ma una storia su come un gruppo di ragazzi e ragazze ebrei abbia riscattato la dignità di un’intera città e di un popolo che fu condannato a morte e all’ignominia. Scomparso due anni fa Marek Edelman è stato uno dei grandi insorti del XX secolo. L’ultimo dei capi della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia. Giuntina manda in libreria questo splendido libretto curato da Vlodek Goldkorn e che è la prima testimonianza di Edelman dopo la guerra. Bisognava raccontare, come si viveva, nonostante il ghetto, nel ghetto. Edelman fa rivivere un mondo che ci appare irreale, in cui la morte seriale coesisteva con la voglia di vivere. Amore e pietà tengono assieme i ricordi i ricordi di questa icona del Novecento che nel libro scava nel proprio bagaglio di ricordi. Forse di tante memorie ha preferito non fare parola. L’insurrezione, ebbe modo di ricordare lo stesso Edelman, fu condotta da “220 ragazzi male armati” contro l’esercito del Terzo Reich, ma durò comunque tre settimane. Fu la prima azione armata su vasta scala nella storia delle occupazioni naziste. Il libro di edema non parla del coraggio e dell’eroismo. Racconta le piccole gesta, le nutre di misericordia e di una pietà che trasmette un’impresa che del sovrumano conservava intatto il suo valore. Lo stesso Bronislaw Geremek, altro sopravvissuto al ghetto, di Edelman diceva che è “un eroe che non ama l’eroismo”. Il libro parla di esseri umani soli e impauriti che si abbracciano, si tengono compagnia, sparano e scappano, mentre viene loro scavata la fossa. In cielo “Nonostante la nostra grande impotenza, non fatevi catturare, difendetevi con le unghie e con i denti”, incitava alla rivolta il bollettino del ghetto. Il libro di Edelman è un omaggio al bundismo, il partito socialista dei lavoratori ebrei. È lì che aveva imparato a fare resistenza: le squadre di autodifesa sorte a inizio secolo per contrastare i massacri difendevano le sinagoghe, pur essendo formate dai militanti atei dichiarati. Nel libro scrive crudo e asciutto Edelman da “guardiano delle tombe” come amava definirsi, uno che voleva ancora bene all’uomo, nonostante Varsavia, Auschwitz e Treblinka. Immortale, la descrizione che Edelman traccia dell’Umschlagplaz, il centro di raccolta ai confini del ghetto, da dove la gente partiva per le camere a gas. “Capitano giornate in cui centinaia di persone vengano addirittura respinte dall’Umschlagplaz. E ci sono casi in cui per giornate intere la gente fa la fila per essere deportata”.  Spesso c’era più gente di quanto richiesto perfino per un contingente di quattro giorni, ci sono “riserve” umane. Si racconta di Sonia Nowogrodzka, attivista del partito, leader di organizzazioni scolastiche e di mutuo soccorso. Catturata dai tedeschi nell’estate 1942, aveva detto ad Edelman due giorni prima: “Tutto il proletariato va in fila per quattro verso l’ Umschlagplaz. Io devo andare con loro. Quando sarò con loro, perfino negli ultimi momenti nei vagoni e anche dopo si sentiranno come degli esseri umani”. Edelman parla del presidente del Consiglio ebraico, l’ingegnere Adam Czerniakow, che si suicidò perché sapeva che l’evacuazione a est significava la morte nelle camere a gas di centinaia di migliaia di persone e non voleva esserne il responsabile. “Allora noi eravamo del parere che non avesse il diritto di agire in questo modo “, scrive Edelman. Bisognava stare lì, al fianco degli altri, fino all’ultimo. I tedeschi rimasero impressionati di fronte a questa dignità. E rimasero ancor più stupefatti che un manipolo di ragazzi fossero riusciti a tenere loro banco per settimane. “Coloro che sono caduti hanno compiuto il loro dovere fino all’ultima goccia di sangue. Sangue che è stato assorbito dal selciato del ghetto di Varsavia”.

Giulio Meotti
Il Foglio


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