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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.05.2012 Siria, i massacri riprenderanno appena gli osservatori se ne saranno andati
cronaca di Viviana Mazza

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 maggio 2012
Pagina: 23
Autore: Viviana Mazza
Titolo: «Il grido dei ribelli agli osservatori Onu: Qui ci ammazzano tutti»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/05/2012, a pag. 23, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " Il grido dei ribelli agli osservatori Onu: Qui ci ammazzano tutti ".


Bashar al Assad

ZABADANI (Siria) — «Quando voi ve ne andrete, verranno a prenderci, ci arresteranno tutti», dice una vecchia col velo bianco intorno al volto all'osservatore Onu in giubbotto antiproiettile. È uno dei membri del team che dovrebbe assicurare il cessate il fuoco tra esercito e ribelli in Siria dopo 9.000 morti in 14 mesi, come prevede il piano di pace di Kofi Annan approvato il 12 aprile. Settanta dei 300 osservatori sono arrivati. E alle 10, ieri mattina, tre auto bianche con la scritta «UN» sono partite sfrecciando seguite da uno stuolo di macchine cariche di giornalisti, siriani e stranieri, dirette a Zabadani e ai villaggi vicini. Zabadani è un centro per lo più sunnita di 35 mila abitanti a 30 chilometri da Damasco, appena prima del confine col Libano. I buchi di kalashnikov nelle saracinesche e i fori di granate in alcuni edifici testimoniano la battaglia tra ribelli e soldati avvenuta a gennaio. Faris Muhammad, che si definisce un attivista politico, consegna all'Onu un foglio di carta con l'immagine ricostruita su Google Earth dei punti dove si troverebbero i checkpoint e i tank dell'esercito, una decina tutt'intorno al villaggio. Il piano di pace di Annan prevede il ritiro dei mezzi pesanti dai centri abitati e l'inizio della rimozione delle concentrazioni militari intorno; ai ribelli si chiede di cessare i combattimenti. Molte perplessità sono state espresse: gli Stati Uniti giovedì hanno accusato il presidente siriano Bashar Assad di non fare «alcun tentativo di rispettare» il piano. L'Onu invece dichiara che «sta avendo un effetto calmante sugli scontri». Piccoli passi, ma pur sempre passi. Un osservatore fa l'esempio di tre tank rimossi da Hama, dove presidiavano una scuola. La riduzione del numero di morti non tranquillizza tutti: sia Amnesty che Human Rights Watch hanno denunciato un'escalation di uccisioni prima del cessate il fuoco e che gli arresti continuano. Venerdì oltre 20 manifestanti sono morti durante proteste nel Paese, il giorno prima 5 studenti ad Aleppo. Dopo la visita degli osservatori, ieri, secondo l'Associated Press i soldati hanno sparato sulla gente a Dael: tre feriti.
Il piano di Annan prevede anche l'ingresso libero dei giornalisti: 40 visti a media stranieri sono stati concessi l'altro ieri secondo il governo, anche se per pochi giorni. Ed è prevista la fine delle detenzioni arbitrarie: Mohammed Ibrahim, un magistrato egiziano, in giacca e cravatta faceva colazione ieri nell'hotel degli osservatori vicino a tre yemeniti in camouflage: è appena arrivato per fornire la consulenza legale. A Zabadani e dintorni, gli osservatori trovano una mezza dozzina di tank e blindati, alcuni coperti da plaid a quadretti o teli di plastica. Uno è circondato da un forte odore di polvere da sparo. Un altro ha il cannone puntato verso l'entrata del villaggio di Seghaya. «Dov'è il caricatore?», chiede l'osservatore ad un soldato. «Rimosso il 12 aprile», è la risposta. «Quanto tempo ci vorrebbe per rimetterlo in funzione?», chiede una giornalista al casco blu, che risponde: «Buona domanda». La propaganda è da ambo i lati. A Zabadani, più d'un giovane dalla lunga barba assicura: «Qui siamo tutti civili, nessun miliziano». «Sono estremisti finanziati dai sauditi e dal Qatar», urla un funzionario governativo a Seghaya. L'altro ieri due ordigni sono esplosi al mattino e uno la sera a Damasco, senza vittime; un altro ad Aleppo con tre morti. L'opposizione addita l'intelligence siriana, ma la comunità internazionale teme l'infiltrazione di jihadisti, seppure in minoranza tra i ribelli. Un uomo dai baffi neri e la kefia in testa dice al Corriere che il figlio è stato arrestato 9 mesi fa a Deir El-Zor, nell'Est dove ieri c'erano nuovi scontri. L'uomo, che dice di chiamarsi Abid, giura che il figlio aveva un fucile, «solo per andare a caccia». Oggi in Siria ci sono le elezioni parlamentari, le prime multipartitiche, presentate dal regime come segno di riforma, mentre gli oppositori le definiscono una farsa. Damasco è tappezzata di poster elettorali, ma a Zabadani sui muri ci sono le facce dei martiri, non dei candidati.

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