Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria, Bashar al Assad continua indisturbato con repressione, torture e omicidi cronache di Susan Dabbous, Daniele Raineri, Cecilia Zecchinelli
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Susan Dabbous - Daniele Raineri - Cecilia Zecchinelli Titolo: «Via da Damasco - Che cosa sta progettando il direttore della Cia in un albergo di Ankara? - Siria, ecco il catalogo degli orrori. Tutti i sistemi di tortura di Assad»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/03/2012, a pag. 1-4, l'articolo di Susan Dabbous dal titolo " Via da Damasco ", l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Che cosa sta progettando il direttore della Cia in un albergo di Ankara? ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Siria, ecco il catalogo degli orrori. Tutti i sistemi di tortura di Assad ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Susan Dabbous : " Via da Damasco"
Bashar al Assad
Beirut. Ritirarsi sulle montagne di Latakia, restaurare il fortino alawita là dove questa minoranza religiosa rappresentata dal presidente siriano, Bashar el Assad, ha le sue radici, e da lì gestire la propria sopravvivenza attraverso l’esercito. E’ questa un’alternativa che a Damasco stanno prendendo in considerazione con sempre più attenzione. Non da ieri, ovviamente: da tempo si parla della ridotta alawita di Assad, ma ora ci sono elementi che rendono l’ipotesi più credibile. La crisi economica interna, le pressioni internazionali, i patti che forse anche gli alleati iraniani stanno siglando con “i nemici” per salvare il possibile a Damasco stanno convincendo Assad che tornare da dove tutto era partito – Hafez proveniva da una famiglia povera, scese dai monti e s’arruolò nell’esercito, unico modo allora per non morire di fame –, in quell’area nota come Jabal al Alawiyeen che s’affaccia sul Mediterraneo. Le montagne in passato servivano a proteggere la minoranza alawita dagli attacchi frequenti da parte della maggioranza sunnita sia turca sia araba (sono tantissime le differenze con gli ortodossi dell’islam, tanto che gli alawiti sono definiti una setta, tra queste c’è anche il credo degli alawiti nella reincarnazione). Oggi l’affaccio al mare e il dominio dei porti commerciali e militari di Latakia e Tartous (colonizzato dai russi, nonché base strategica per le manovre di Mosca in tutta l’area) permetterebbero agli Assad di mantenere una parte rilevante del potere economico e politico del paese, nonché la via per l’esportazione del petrolio. Intorno all’isola alawita, gli approvvigionamenti idrici sarebbero garantiti dalle dighe che Hafez Assad fece costruire sull’Oronte. Questa ipotesi, condivisa da molti opinionisti arabi su vari blog ospitati dal sito del canale panarabo al Arabiya, combacia anche con quanto sostenuto dalle persone fuggite dal massacro a Homs di lunedì scorso. Il luogo dove è successo, Karm az Zaytun, è un quartiere a maggioranza sunnita che confina con i rioni alawiti di Nuzha e Karm al Loz. L’accanimento dell’esercito e delle milizie in quest’area nord-occidentale, che tocca l’ipotetico “stato alawita”, è confermato dal numero delle vittime fornito dal Centro di documentazione delle violazioni in Siria: delle 9.000 contate finora, la regione più colpita è quella di Homs con 3.552 uccisi, segue quella di Hama con 1.178 e quella di Idlib con 1.171. “In Siria si rincorrono voci sullo spostamento delle riserve di oro e valute straniere dalla Banca centrale di Damasco al villaggio nativo di Hafez Assad, al Qurdaha, vicino Latakia”, dice un giovane profugo siriano in Libano che preferisce non rivelare la sua identità. La notizia non è ovviamente verificabile, ma la teorizzazione di un separatismo su base confessionale vanta una lunga tradizione: tra il 1921 e il 1936, durante il mandato francese, ci fu la realizzazione effettiva di questa separazione, e di nuovo divenne materia di dibattito durante l’attesa per la morte di Hafez Assad, quando si parlò di un ritiro strategico per evitare una sanguinosa lotta di successione. Erano gli anni Novanta, il vecchio presidente aveva il cancro e analisti americani come Daniel Pipes ricordavano quanto fosse plausibile un confinamento volontario che avrebbe messo fine all’anomalia della dittatura della minoranza nel resto della Siria. “Corre voce – scrisse Pipes in un articolo del 1994 – che stiano preparando la regione isolata della Giazira (isola, ndr) nella Siria settentrionale, come rifugio. Qualcuno indica l’insediamento di quarantamila alawiti nella città libanese di Tripoli come primo passo verso uno stato allargato lungo la costa mediterranea”. Al momento il governo di Damasco, per bocca dello sceicco alawita Ali Qaddur, smentisce ogni ipotesi di creazione di uno stato nello stato. Qaddur lo ha fatto dai microfoni della tv libanese filosiriana al Jadid inneggiando all’unità nazionale. Ernest Khoury, giornalista libanese del quotidiano al Akhbar, trova una ragione più pragmatica all’impossibilità di un separatismo alawita: la minoranza è ormai sparsa ovunque, anche nei centri delle grandi città, impossibile tornare alle origini. Ad ammonire sulle gravi conseguenze che una simile strategia potrebbe avere sulle altre minoranze, soprattutto per i cristiani, ci pensa l’editorialista Nagib Aoun della testata l’Orient le jour, invocando un ruolo per la minoranza maronita nella transizione politica necessaria alla pacificazione della Siria. Secondo il cronista libanese è tempo che i cristiani smettano di restare “aggrappati alla gonna di un regime morente”, per avere peso in un futuro minacciato dall’avanzata dei partiti islamisti.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : "Che cosa sta progettando il direttore della Cia in un albergo di Ankara? "
David Petraeus
Roma. Ieri un giornalista di al Jazeera in un albergo di Ankara si è imbattuto nel direttore della Cia, David H. Petraeus. Aspettava l’arrivo in Turchia dell’inviato speciale dell’Onu, Kofi Annan, di ritorno dalla Siria e invece ha visto l’uomo dell’intelligence, che si è incontrato con il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan e con Hakan Fidan, direttore dell’intelligence turca, secondo un comunicato stringato del governo apparso nel pomeriggio quando ormai la notizia era circolata. Scrive il giornale Hurriyet che Petraeus era al secondo giorno di visita. Il faccia a faccia ricorda l’aprile 2011, quando il predecessore di Petraeus alla Cia, Leon Panetta, spese in segreto cinque giorni in Turchia sempre con Erdogan e Fidan per parlare della possibilità di un regime change a Damasco e dell’opportunità di garantire alla famiglia Assad un passaggio sicuro fuori dalla Siria (Fidan fu spedito in missione a parlamentare con il presidente Bashar el Assad). La situazione rimanda anche all’ottobre 1984, quando un aereo militare speciale atterrò a sud di Islamabad, in Pakistan, con a bordo l’allora direttore della Cia, William Casey, che per conto del presidente Reagan aveva il compito di pianificare la guerra segreta contro i sovietici nel vicino Afghanistan assieme ai pachistani. La visita di Casey fu il preludio a una decisione riservatissima dell’Amministrazione americana nel marzo 1985, di cui rimane traccia nella Direttiva sulla sicurezza nazionale 166, che ordinava l’escalation clandestina contro Mosca. Oggi non si sa qual è l’oggetto della due giorni di Petraeus in Turchia. Domenica però il New York Times, il giornalone liberal che si presta volentieri quando l’Amministrazione sente il bisogno di fare circolare un concetto sui grandi media, ha pubblicato un pezzo con molte fonti su quanto sarebbe arduo, secondo i generali del Pentagono, ripetere in Siria una campagna dall’alto come è stata fatta in Libia. La difesa aerea integrata a disposizione di Damasco, ovvero la rete di missili terra-aria, radar, cannoni antiaerei, è molto più avanzata e fitta di quella di Gheddafi – almeno cinque volte di più – ed è piazzata in aree densamente popolate. Lo scenario siriano è differente. “Se colpissimo quelle aree ci sarebbero molti danni collaterali”, dice il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, riferendosi ai civili incolpevoli vittime dei bombardamenti. In Libia c’erano aree definite in mano ai ribelli, cosa che non succede in Siria, dove l’opposizione può vantare al massimo il controllo per poche settimane di qualche quartiere. E c’è la questione della distribuzione demografica, ricordata dal capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey: tra gli insorti libici e le città ancora controllate da Gheddafi c’era la vastità del deserto. Ora “sono tutti mescolati assieme”, ogni angolo di edificio può dividere le forze governative da quelle dell’opposizione e poche ore dopo la situazione cambia. L’articolo del Nyt è scoraggiante anche sull’opzione “safe haven”, la creazione di aree protette – in particolare vicino al confine con la Turchia – dove i civili non sarebbero più esposti alle violenze dell’esercito. “Sarebbe un’operazione così complessa che richiederebbe un contingente numeroso di truppe americane”. In breve: viene fuori dalle interviste con i militari che la sola ipotesi di intervento è prevista in caso di collasso del regime per mettere in sicurezza i depositi di armi chimiche. Eppure, se l’opzione militare per così dire “pubblica” è fuori dall’orizzonte degli eventi, nemmeno la diplomazia sembra essere la soluzione. Il negoziato lampo di Kofi Annan è stato esperito per provare la vuota inutilità delle trattative internazionali: il ghanese ha chiesto la sospensione delle violenze e la creazione di corridoi umanitari per soccorrere la popolazione – l’ultimatum scadeva ieri mattina – il presidente Assad ha risposto con l’annuncio di elezioni parlamentari per il 7 maggio. Da due giorni le sue truppe stanno marciando su Idlib, a nord, seconda roccaforte dell’opposizione dopo Homs, dove una coraggiosa reporter di al Jazeera, Anita McNaught, racconta l’offensiva in tempo reale. Gli abitanti non si fanno troppe illusioni: “Finiremo come a Homs”. I soldati stanno anche minando i confini del paese con il Libano e la Turchia, lungo le stesse strade percorse dai contrabbandieri di armi ma anche dalla gente comune per trovare scampo e dai giornalisti internazionali per entrare e uscire dal paese. E proprio ai giornalisti che tentano di indagare sul campo tra le opacità della rivolta e le stragi di civili ieri il ministro dell’Informazione ha rivolto una minaccia inequivocabile: chi cerca di entrare in Siria sarà considerato “complice dei terroristi” e trattato come tale
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Siria, ecco il catalogo degli orrori. Tutti i sistemi di tortura di Assad "
Amnesty international
Ci sono il bisat al rih (tappeto volante), la kursi almani (sedia tedesca), il dulab (pneumatico). E prima, lunga ed elaborata, la haflet al istiqbal, la festa di ricevimento. Un grottesco kamasutra di tecniche, in tutto 31, usate dalle varie forze di intelligence e di sicurezza siriane per torturare uomini e donne, giovani e anziani, perfino bambini. Un catalogo degli orrori che Amnesty International pubblica oggi, vigilia del primo anniversario della rivolta contro il dittatore Bashar Al Assad, che non cede e anzi si prende gioco del suo Paese e del mondo indicendo per il 7 maggio «libere elezioni parlamentari» in cui nessuno crede. Il 15 marzo 2011 la protesta iniziata nella cittadina di Deraa, al confine giordano nel Sud, si estese ad altre città nel primo, tanto atteso Giorno della Rabbia del popolo di Siria. Una rabbia che non si è ancora spenta, dopo almeno 7.500 civili uccisi (secondo le Nazioni Unite) o 6.500 (secondo le rivelazioni più caute di Amnesty). E dopo decine di migliaia di profughi: l'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr) proprio ieri ne ha stimati 230 mila, tra quelli interni e quelli riusciti a fuggire. Lungo i confini con il Libano e la Turchia — denuncia un'altra organizzazione internazionale, Human Rights Watch (Hrw) — il regime di Damasco ha piazzato intanto mine antiuomo: già molti civili in fuga sono stati ammazzati da quegli ordigni banditi a livello internazionale. «Volevo morire» è il titolo dato da Amnesty al nuovo rapporto con le testimonianze di molti di quei siriani scappati, intervistati in Giordania in febbraio dai suoi attivisti che in Siria non possono entrare. Un titolo che esprime i sentimenti provati da Tareq (il nome è fittizio), imprenditore 27enne di Tartus, arrestato tre volte e per tre volte oggetto di abusi intollerabili al punto di avergli fatto desiderare la morte. «Non ho nemmeno informato i miei aguzzini dei farmaci salvavita che devo prendere ogni giorno», ha raccontato. Una tentazione di farla finita condivisa da Al Shami: «Odiavo la prigione con tutte le mie forze: ho pensato di arrampicarmi sul muro e buttarmi giù», ha ammesso l'ingegnere 40enne detenuto nella capitale per sette settimane. Tareq e Al Shami, come lo studente 18enne Karim, l'insegnante in pensione Najati di 65 anni, il decoratore 40enne Abu Al Najem e gli altri del gruppo, illustrano nei dettagli le torture. A partire dalla «festa di ricevimento» all'arrivo nel centro di detenzione, con pugni, botte, bastonate, colpi di frusta e cavi intrecciati per 24 ore di fila, sul corpo nudo o quasi. Un trattamento standard, che riflette un modello stabilito, sostiene Amnesty. Non solo: «L'esperienza delle tante persone arrestate nel corso dell'ultimo anno è ora molto simile a quella subita dai prigionieri sotto l'ex presidente Hafez Al Assad; un incubo di torture sistematiche», denuncia Ann Harrison, vicedirettrice per il Medio Oriente e il Nord Africa dell'organizzazione. Molte di quelle tecniche erano state infatti accantonate quando nel 2000 il giovane Bashar successe al padre, il terribile e spietato raìs che solo a Hamà sterminò nel febbraio 1982 decine di migliaia di persone. Ma già nel 2004 contro i curdi, e poi nell'ultimo anno, l'ex oftalmologo diventato raìs è tornato ai metodi antichi. Come le varie forme di elettroshock, o lo shabeh («fantasma», con il prigioniero appeso a un gancio in modo che non tocchi terra e quindi picchiato), il dulab (il detenuto infilato in uno pneumatico e seviziato), il tappeto volante (uno strumento di legno che costringe a piegarsi in modo innaturale), la crocefissione. E tutto questo, dicono i testimoni, ormai è una routine collaudata non solo nelle innumerevoli sedi dei tanti servizi segreti ma perfino negli ospedali con gli oppositori feriti. Nell'ultimo anno sono poi diventate comuni le torture sessuali. Tareq ha raccontato che in luglio, prigioniero dei servizi segreti militari a Damasco, fu costretto ad assistere allo stupro di un altro detenuto. «Gli hanno abbassato i pantaloni, era ferito a una coscia. Poi l'ufficiale l'ha violentato mentre lui non poteva far altro che piangere e sbattere la testa sul muro». Quanti sono morti tra le mani dei torturatori? Amnesty dice che finora sono documentati 276 nomi. Ma con i tanti desaparecidos degli ultimi mesi saranno «sicuramente molti di più». Di certo c'è invece che al di là dei numeri «le ultime testimonianze dei sopravvissuti alla tortura costituiscono un'ulteriore prova dei crimini contro l'umanità commessi da Damasco». Crimini per i quali l'organizzazione è tra i tanti a volere che la Siria sia deferita alla Corte penale internazionale e finché questo non sarà possibile, viste le divisioni tra diplomazie, che almeno la Commissione d'inchiesta Onu continui a indagare e accumulare prove. «Sarà una garanzia che i colpevoli saranno chiamati a rispondere del loro operato».
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