Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Siria a rischio islamismo, l'intervento occidentale potrebbe essere dannoso Intervista di Andrea Malaguti a Julian Lindley-French. Analisi di Maurizio Molinari, Mattia Ferraresi, Pio Pompa
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Andrea Malaguti - Maurizio Molinari - Mattia Ferraresi - Pio Pompa Titolo: «Chi perde muore, è un conflitto totale - A Damasco si combatte una guerra per procura - C’è l’accordo segreto tra Teheran e Washington: Assad ha i giorni contati»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/03/2012, a pag. 14, l'intervista di Andrea Malaguti a Julian Lindley-French dal titolo " Chi perde muore, è un conflitto totale ", a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " A Damasco si combatte una guerra per procura ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Il momento siriano di Obama ", a pag. 4, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " C’è l’accordo segreto tra Teheran e Washington: Assad ha i giorni contati ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
La STAMPA - Andrea Malaguti : " Chi perde muore, è un conflitto totale "
Julian Lindley-French Rudyard Kipling
«Si ricorda che cosa scriveva Kipling?».
Il libro della giungla?
«No, una novella che si intitola Kim. Parla della lotta tra l’Impero Britannico e la Russia per l’Asia centrale».
Che cosa dice?
«Che lo scontro finirà quando saranno morti tutti. Non un istante prima. Frase spaventosa, che per la Siria pare valere ancora». Julian Lindley-French, Eisenhower Professore di strategia della difesa, consulente del governo inglese ed esperto di politica internazionale del think tank Chatham House, è appena rientrato nel suo albergo londinese da Westminster ed è pronto a partire per Roma dove giovedì terrà una conferenza al Defense College della Nato sui meccanismi di protezione collettivi.
Professore, ieri 26 bambini e 21 donne massacrate a Karm el Zaytoun. Come si arriva a questo livello di crudeltà?
«Esiste una spiegazione di carattere storico. Il padre di Assad, 25 anni fa, si comportò allo stesso modo. Molte delle persone che ha attorno, dai consiglieri agli ufficiali anziani, sono le stesse di allora. È una lotta per il controllo del territorio e sarà combattuta fino alla fine. Non importa a quale prezzo».
Da dove trae la sua forza Bashar al Assad?
«Ci sono ancora larghe parti della società civile, soprattutto a Damasco, che supportano il regime. Il partito Baath è seriamente convinto che sia uno scontro con i terroristi. Piccole tribù, gruppi infiltrati da Al Qaeda. Non per tutti è una guerra civile».
Perché Cina e Russia si oppongono all’intervento militare?
«Per ragioni diverse. La Russia considera la Siria l’ultimo bastione contro lo strapotere occidentale».
È una visione sensata?
«No. È una visione antistorica, ma molto putiniana. Di fatto non ha fondamento. Direi che è una questione di percezione, che consente a Putin di spaventare anche l’opposizione interna».
E la Cina?
«Per la Cina è diverso. Pechino ha un problema con la Nato. Non accetta questo interventismo che considera strumentale agli interessi occidentali. L’invio dei soldati in Iraq, in Afghanistan, o in Libia, per i cinesi è una forma sbagliata di ingerenza. Inoltre, e in questo ragionano come i russi, sono contenti di inviare al mondo un messaggio chiaro: senza il nostro consenso non potete più fare come vi pare. Per altro l’Occidente non ha voglia di mettere pressione su Mosca e Pechino».
Perché?
«Perché i governi hanno visto che cosa è successo in Afghanistan, dove hanno portato armi che ora sparano contro di loro. Perché in Libia ci sono già dubbi profondi su chi comanda e in nome di che cosa. Perché ogni volta che arriva un filmato dalla Siria si vedono migliaia di persone che invocano il nome di Allah. Che cosa sarebbe Damasco una volta rimosso Assad?».
L’ex ambasciatore inglese in Siria sostiene che il regime è destinato a cadere entro un anno.
«Vedremo. Non credo sia probabile. Dipende dall’esercito. È vero che alcuni giovani ufficiali cominciano a dare segnali di insoddisfazione, ma quelli anziani sono con Assad»
Internet è invasa dai video dei massacri. Quanto sono affidabili?
«I video mostrano cose reali. I morti ci sono. Molti. Quotidianamente. Certo è difficile capire se quei filmati fanno riferimento al giorno in cui vengono messi in circolazione oppure a momenti e circostanze diverse. È ovvio che sia il regime sia l’opposizione cercano di influenzare i media internazionali».
Paddy Ashdown, ex alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, e con lui numerosi premi Nobel, sostengono che la cautela occidentale è la licenza di uccidere consegnata al governo siriano.
«La licenza di uccidere il governo siriano se l’è presa da solo. È appunto il grande gioco di potere di cui parlava Kipling. Damasco è da sempre indifferente alle pressioni esterne. Il futuro del popolo è buio. I siriani sono soli e il mondo non ha davvero molta voglia di aiutarli».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " A Damasco si combatte una guerra per procura "
A un anno dall’inizio della rivolta popolare in Siria Bashar Assad continua a resistere, con il risultato di trasformare il conflitto armato fra regime e opposizione in una guerra per procura fra le maggiori potenze in Medio Oriente mentre per la prima volta, negli Stati Uniti come negli Emirtati del Golfo, si prende in esame l’ipotesi di un intervento militare «indiretto».
Il regime resiste Dalle dimostrazioni di piazza che il 15 marzo 2011 segnano in più città l’inizio della rivolta popolare le vittime stimate degli scontri sono, secondo il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, circa 8000 ovvero il quintuplo di quelle libiche alla vigilia dell’attacco Nato contro il regime di Muammar Gheddafi. A differenza del colonnello libico, il Raiss di Damasco può contare su un apparato statale che continua a essergli fedele. Oltre l’80 per cento degli ufficiali militari e il 60 per cento dei diplomatici appartengono, come gli Assad, alla minoranza alawita che gode anche del sostegno di drusi, cristiani e circassi accomunati dal timore che la rivolta possa portare al potere la maggioranza sunnita. Per un recente rapporto di intelligence Usa «i vertici degli apparati militari di sicurezza restano saldi a fianco di Assad» consentendogli di resistere «per diversi mesi se non più a lungo». A sostenere il Raiss ci sono anche i suoi alleati vicini e lontani: l’Iran gli fornisce unità paramilitari e armi per evitare la caduta dell’unico alleato regionale, la Russia lo difende con il veto all’Onu per non perdere le ultime basi navali e di intelligence nel Mediterraneo, la Cina si accoda al Cremlino per difendere il principio di non ingerenza internazionale che teme possa essere usato contro di lei.
L’opposizione divisa A fronte di un regime del partito Baath che rimane compatto, l’opposizione è lacerata. Il Consiglio nazionale siriano di Burhan Ghalioun è un’organizzazione-ombrello che gode del sostegno di Washington, Riad, Parigi, Doha e Londra ma è segnata dalle divisioni interne fra Fratelli Musulmani e gruppi laici oltre al fatto di essere contestata dal Coordinamento nazionale per il cambiamento democratico, che riunisce molti gruppi di protesta interna. A ciò bisogna aggiungere che l’Esercito di liberazione siriano del colonnello Riyah al-Assad afferma di avere nei ranghi 15 mila disertori ma non è ancora chiaro se abbia o meno raggiunto un accordo con Ghalioun. Militare è anche l’opposizione dei gruppi salafiti jihadisti, emanazione di Al Qaeda, che operano a cavallo del confine con l’Iraq lungo le stesse rotte che fra il 2005 e il 2007 alimentavano, in senso inverso, l’insurrezione del Trangolo sunnita contro gli americani. Ultimi, ma non per importanza, i gruppi della guerriglia curda, ben addestrati e armati ma che restano per il momento alla finestra.
Guerra per procura
Deponendo di fronte al Senato di Washington il generale Martin Demspey, capo degli Stati Maggiori Congiunti Usa, ha detto che «la Siria si è trasformata in una crisi dove tutte le potenze regionali hanno un loro interesse». Lo scontro è fra due grandi schieramenti, guidati da Riad e Teheran. L’Arabia Saudita considera l’alawita Assad uno sciita mascherato, responsabile di aver consegnato il Libano all’Iran e colpevole di assecondare in Medio Oriente il disegno egemonico degli ayatollah sciiti sui sunniti. Riad, che ha inviato i tank in Bahrein per reprimere la rivolta popolare, sostiene la primavera siriana con due strumenti: l’elargizione di ingenti fondi a gruppi sunniti e l’impegno diplomatico in seno alla Lega Araba per favorire una transizione a Damasco che porti alla caduta degli Assad. I sauditi, sostenuti da Tunisia e Qatar, hanno un alleato importante nella Turchia di Erdogan la cui ostilità nei confronti di Assad nasce dal sospetto dei generali di Ankara che Bashar, come il padre Hafez, abbia usato spesso i curdi per fomentare instabilità oltre-confine. Teheran difende Damasco per ragioni strategiche opposte a quelle di Riad: è l’unica capitale araba alleata, le offre i porti sul Mediterraneo, le garantisce attraverso gli Hezbollah mano libera in Libano e, grazie al Golan e al Sud Libano una frontiera per minacciare direttamente lo Stato ebraico.
L’impasse all’Onu Il veto opposto da Russia e Cina alla risoluzione arabo-occidentale anti-Assad nasce dalla volontà del Cremlino di mantenere Damasco nella propria sfera di influenza. Mosca difende Assad perché vuole evitare un cambio di regime simile a quello avvenuto in Libia che avrebbe l’effetto di privarla dell’accesso al porto di Tartus, ultimo approdo amico della propria flotta nel Mediterraneo. Senza contare che Damasco ospita i maggiori centri di ascolto dell’ex Kgb in Medio Oriente ed è fra i più importanti clienti dell’industria militare russa. Se il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha avuto contatti con l’opposizione è perché ciò che conta per Mosca è restare l’alleato più importante di Damasco anche nel dopo-Assad. Il contrasto con Washington è sulla transizione perché Mosca vuole guidarla per evitare brutte sorprese ma finora Assad si è opposto anche ai tentativi russi di risoluzione della crisi. Per rompere l’impasse il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon, ha inviato a Damasco il predecessore Kofi Annan ma il suo tentativo di ottenere un immediato e totale cessate il fuoco è fallito.
L’opzione militare Il senatore repubblicano John McCain è l’unico finora ad auspicare blitz aerei contro le forze siriane ma il Pentagono, opponendosi a tale ipotesi, ha svelato che i piani di attacco esistono: si tratterebbe di una campagna aerea di più settimane contro difese aeree cinque volte maggiori di quelle di Gheddafi per imporre una no-fly zone a difesa dei civili, con le forze aree Usa impegnate a condurre il blitz iniziale grazie al sostegno politico di Lega Araba, Nato e Unione Europea. L’altra ipotesi, di cui si discute in ambienti militari a Washington e nel Golfo, è l’intervento militare «indiretto» sul modello di quanto fatto in Afghanistan contro l’Urss e in Europa contro i nazisti al fine di creare, con aiuti economici e di intelligence, una «resistenza siriana» in grado di assumere il controllo di «aree liberate» su modello di quanto venne fatto in Bosnia-Erzegovina a metà degli anni Novanta. I primi territori della «Siria libera» potrebbero nascere lungo i confini turchi.
Le armi proibite La prudenza dell’amministrazione Obama sull’intervento militare, diretto o indiretto, nasce dalla convinzione della Cia che Assad possieda grandi quantità di armi chimiche e batteriologiche che potrebbero essere facilmente lanciate, adoperando gli aerei o l’artiglieria, contro i centri civili epicentro della rivolta in maniera analoga a quanto fece il dittatore iracheno Saddam contro i curdi a Halabja nel 1988.
Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Il momento siriano di Obama"
Mattia Ferraresi, Barack Obama, Bashar al Assad
New York. Le famiglie barbaramente sgozzate o torturate a morte nei modi più crudeli nella città di Homs dai lealisti di Bashar el Assad – con tanto di brutale ricorso ai filmati: alcuni mostrano resti di bambini bruciati vivi – portano la repressione siriana a un livello ulteriore in termini umanitari e politici. L’Amministrazione americana sta monitorando con un misto di disgusto e preoccupazione le notizie di un nuovo attacco delle truppe governative a Idlib, ennesima estensione delle operazioni di repressione che sono ormai la regola a Hama, Homs e Rastan. All’incontro del Quartetto per il medio oriente il segretario di stato americano, Hillary Clinton, ha detto che la comunità internazionale “non può rimanere silenziosa di fronte a un regime che massacra il suo popolo” ed è arrivato il momento in cui tutte le nazioni, “anche quelle che hanno bloccato finora i nostri sforzi” – Russia e Cina, ma Clinton non li ha citati – “si uniscano all’approccio politico e umanitario dettato dalla Lega araba”. Il segretario di stato ha ricordato anche il “cinismo” di Assad, che dava ordine alle sue truppe di massacrare civili anche mentre l’inviato di Onu e Lega araba, Kofi Annan, gli chiedeva di persona di fermare la carneficina. Gli oltre cinquanta cadaveri trovati nelle fosse di Homs dai ribelli – una dozzina di corpi sono stati identificati, fanno sapere – sono l’ultima propaggine di uno scontro che ha fatto almeno 8.000 morti in poco meno di un anno e l’Amministrazione Obama si trova a dover gestire una crisi senza fondo. L’indicazione che arriva dai ranghi diplomatici e militari di Washington è quella di stare fuori dal conflitto – l’intervento aereo proposto dal senatore John McCain è fuori dal radar politico di Obama – e di non armare i ribelli, ma di continuare sulla via, finora improduttiva, della pressione internazionale. La situazione in Siria aggiunge un’ombra all’immagine e alla sostanza del commander in chief Obama, stretto fra conflitti incipienti e pericolose manovre di ritiro. La serie di incidenti che sta accompagnando la graduale ritirata dei soldati dall’Afghanistan, dal rogo dei corani ai rapporti impossibili con l’esercito di Hamid Karzai fino alla strage di civili compiuta da un solitario sergente accompagnato soltanto dall’ubriachezza e da chissà quali altri pensieri, è un nodo irrisolto per il presidente. Eppure a Obama la diminuzione della presenza americana nel mondo appariva come la più sicura e popolare delle agende politiche, tanto che la Casa Bianca ha fatto di tutto per presentare la strategia obamiana come il giusto ritorno alla sobrietà dopo la sbornia bushiana e neocon. La realtà è più complicata di così. I nemici sono ringalluzziti da una presenza americana che porta la data di scadenza e la diminutio economica e morale decretata dai tagli al budget del Pentagono ha scosso le catene di comando; il senso, popolarmente diffuso, secondo cui i militari non sono l’avamposto dei valori bensì il freno dello sviluppo domestico non contribuisce a dare sicurezza all’Obama di guerra. E anche quello di pace ha le sue preoccupazioni.
Il FOGLIO - Pio Pompa : " C’è l’accordo segreto tra Teheran e Washington: Assad ha i giorni contati "
Pio Pompa
Di solito le analisi di Pio Pompa sono affidabili. Se anche questa lo fosse, però, avrebbe dell'incredibile. Secondo Pompa : " L’Amministrazione americana avrebbe confermato il proprio impegno a proseguire sulla strada della diplomazia in riferimento alla questione del nucleare iraniano, garantendo la propria opposizione a eventuali iniziative militari da parte israeliana. In cambio, la Repubblica islamica rinuncerà a difendere il rais siriano, favorendone di conseguenza l’isolamento e la destituzione". Fare patti con la teocrazia iraniana per destituire il dittatore siriano laico e favorire (visti i precedenti in Tunisia, Egitto, Libia) l'arrivo degli islamisti sarebbe un comportamento responsabile da parte della più grande democrazia occidentale? Ecco il pezzo:
Il regime di Bashar el Assad avrebbe ormai i giorni contati, spiegano al Foglio fonti d’intelligence. Il suo destino sarebbe stato deciso in una serie di colloqui segreti intercorsi negli ultimi mesi tra Washington e Teheran. L’Amministrazione americana avrebbe confermato il proprio impegno a proseguire sulla strada della diplomazia in riferimento alla questione del nucleare iraniano, garantendo la propria opposizione a eventuali iniziative militari da parte israeliana. In cambio, la Repubblica islamica rinuncerà a difendere il rais siriano, favorendone di conseguenza l’isolamento e la destituzione. L’unica condizione posta da Teheran per abbandonare Assad è la richiesta che la rimozione del presidente siriano e dei suoi fedelissimi avvenga sulla falsariga di quanto verificatosi in Egitto con Hosni Mubarak, assicurando il passaggio del potere nelle mani di una ben individuata troika militare che, riferiscono le nostre fonti, avrebbe accettato di tradire e rovesciare il regime di Damasco. Il tutto nell’ambito di un’operazione, denominata “Dba” (Destroy Bashar el Assad), che sarebbe stata perfezionata a livello logistico e organizzativo nel quartiere generale di Doha. Fondamentale sarebbe ancora una volta il ruolo del Qatar che, insieme all’Arabia Saudita, continua a sostenere la necessità di intervenire militarmente a sostegno dell’opposizione e del Consiglio nazionale siriano. Si spiegano così i continui viaggi nella capitale qatariota di esponenti di spicco di Hezbollah e Hamas che, dopo svariati incontri con emissari iraniani, avrebbero acconsentito alla messa in pratica della nuova linea tattica e strategica adottata da Teheran nei confronti di Assad. Nel frattempo, diversi segnali indicano che l’operazione Dba sta entrando nella sua fase cruciale. Innanzitutto, gli Stati Uniti hanno espressamente dichiarato la volontà di escludere categoricamente un intervento armato in Siria, e in secondo luogo assume particolare rilevanza la defezione dal governo e dal partito Baath del viceministro del Petrolio, Abdo Hussameddin. Da non trascurare, infine, le dichiarazioni rese dall’inviato delle Nazioni Unite e della Lega araba, Kofi Annan, al termine degli incontri con Assad e con esponenti dell’opposizione più inclini al dialogo, secondo cui la soluzione della crisi può essere ottenuta seguendo “la strada della diplomazia attraverso un accordo politico” gestito e diretto dagli stessi siriani. Un ulteriore segnale di quanto sta maturando a Damasco sotto la regia statunitense e qatariota è dato dal fatto che Pechino starebbe evacuando dal paese migliaia di cinesi, impiegati nella locale industria militare e petrolifera. La scelta strategica alla base dell’operazione Dba appare l’unica sostenibile, specie alla luce delle reazioni e dello sdegno che stanno montando tra gli oppositori del rais dopo il massacro compiuto domenica da uno o più soldati americani nel distretto di Kandahar, in Afghanistan. Esponenti di spicco del Consiglio nazionale siriano si sarebbero espressi contro qualsiasi presenza di forze di Washington in Siria. Il quadro che ne deriva è estremamente delicato e gli esiti della crisi sono al momento imprevedibili, se si considera la possibilità che nell’ambito degli accordi segreti tra Stati Uniti e Iran sia stato di fatto sacrificato Israele, lasciato solo a fronteggiare la minaccia di Teheran.
Per inviare la propria opinione a Stampa e Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti