Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 09/03/2012, a pag. 17, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Cacciare via Assad? Non riusciamo a sbatterlo fuori manco dall’Unesco ". Dal FOGLIO, a pag. I, gli articoli di Daniele Raineri, Rolla Scolari e Paola Peduzzi titolati "Due piani per cacciare Assad ", " Anche nelle strade del Libano Bashar el Assad ti guarda sorridente. Ma i guai stanno già passando il confine " e " Unisci le dichiarazioni dell’America sulla Siria, ti apparirà la politica del tentennamento ". Dalla STAMPA, a pag. 20, l'articolo di Giordano Stabile dal titolo " Siria, defezioni nel regime. Via viceministro e generali ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : "Cacciare via Assad? Non riusciamo a sbatterlo fuori manco dall’Unesco "


Fiamma Nirenstein
Forse l’intervento armato necessario per far cessare l’immensa strage di Bashar Assad? Ma per carità.Se chiedete all’Unesco, la raffinata istituzione dell’Onu «per l’educazione, la cultura e la scienza»avreteun’immaginemagnificatadell’impotenzadelleistituzioni internazionali. Assad non si tocca nemmeno con un fiore. IerilarisoluzionesullaSiriaincalendario, nonostante gli sforzi americani e inglesi, ha mantenuto la Siria nel comitato per i diritti umani: cosìfraunassassinioel’altro,compresi i bambini, Assad aiuterà il mondo a difendere i deboli e i discriminati. Nel novembre l’UnescoavevaelettolaSirianelcomitato, e UN Watch aveva lanciato una campagna per rovesciare la folle scelta. Ma fino a ieri non era riuscita a ottenere un dibattito. Ora ce l’ha fatta con l’aiuto americano e inglese, ma si è dovuto constatare che la richiesta di cacciare il regime dal gruppo per i diritti umani era stata cassata dalla risoluzione, restava solo una blanda condanna. Ecco un ulteriore segnale del marciocheregnainun’organizzazione che non ha mai condannato la cancellazione della cultura cristiana in Armenia a opera della Turchia e dell’Azerbaijan, che ha cooptatounilateralmentela «Palestina », che ha tenuto una conferenza su Gerusalemme invitando tutti Paesi arabi ed escludendo Israele, che ha rifiutato di menzionare la Shoah per il cinquantenario dell’Onu, che ha dichiarato beni islamici la tomba di Rachel e la tomba dei patriarchi di Hevron… sichiamapregiudizio, odio, politicastra che ora copre un dittatore di cui tutto il mondo, fuorchè l’Iran, non sa più che fare.Si chiama Unesco, protettore della cultura mondiale.
www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Due piani per cacciare Assad "


Daniele Raineri, Bashar al Assad
Ci sono due modelli di intervento internazionale per cacciare Bashar el Assad. Uno è quello “come il Qatar in Libia”. Fare leva da fuori sull’insurrezione interna dei siriani. E se questa leva è ancora troppo debole e non riesce a sollevare il regime dal suo posto, occorre irrobustirla, farla crescere fino a misure gigantesche. E’ stato fatto in Libia negli otto mesi tra la rivolta iniziale di Bengasi e la fuga disperata di Muammar Gheddafi da Sirte. Di questo modello Libia fanno parte i carichi di armi leggere arrivati via charter dall’Egitto, i missili controcarro – i temibili Milan francesi – le squadre speciali di istruttori americani, inglesi, francesi e italiani che addestravano i libici senza esperienza militare (perché l’esercito di Tripoli è rimasto di lato senza intervenire), i commando e i blindati dal Qatar che si sono gettati in combattimento fino ai cancelli del compound di Tripoli, i finanziamenti quasi illimitati, il fondo di garanzia acceso anche quello dal Qatar per convincere i paesi Nato con le economie gracili a protrarre la guerra fino a quando fosse necessario – “fate decollare i caccia, ché se dura più del previsto i soldi ce li mettiamo noi”, la no fly zone e dopo i bombardamenti, prima in chiave puramente difensiva e poi – con sempre maggiore evidenza – per stanare la famiglia Gheddafi, fino all’epilogo, quando un drone americano ha bloccato il convoglio del colonnello in fuga da Sirte e lo ha lasciato in mano ai ribelli impazziti dalla voglia di vendetta (e la vista di Gheddafi sanguinante che ammoniva, haram aleikum, state peccando, mentre era trascinato come un pupazzo dagli adolescenti delle brigate ribelli ha convinto Mosca di essere stata giocata, avere sbagliato ad avere concesso il suo consenso alla risoluzione Onu, e le conseguenze si sono viste quando è arrivato il Consiglio di sicurezza sulla Siria: veto russo). Non che questo modello libico sia replicabile in Siria, ma la bozza è quella, con ovvie differenze. Non ci sarebbe la no fly zone, perché “le difese aeree della Siria sono cinque volte più pericolose di quanto lo fossero quelle libiche”, come ha testimoniato mercoledì davanti al Congresso il capo di stato maggiore americano Martin Dempsey, ma ci sarebbe il flusso di armi e uomini per trasformare i disertori dell’Esercito libero di Siria in una forza credibile. La Libia ha appena promesso cento milioni di dollari da destinare ai ribelli, e la maggioranza dei non molti volontari stranieri che stanno andando ad aiutare gli insorti contro Assad sarebbero libici, “durante la difesa perdente del quartiere di Bab al Amr a Homs ne sono caduti cinque”, dice l’opposizione. Il ministro degli Esteri saudita ha detto che armare i ribelli perché possano proteggersi è “un’idea eccellente”, anche se la Lega araba ha frenato. Secondo al Arabiya, le armi starebbero già arrivando, anche se l’unico indicatore affidabile di cosa accade realmente è il prezzo delle armi al mercato nero nei paesi confinanti, e per ora è così alto che il traffico dev’essere ben poca cosa. Il Qatar ha proposto una forza di peacekeeping, che finirebbe per giocare a tutto vantaggio dei ribelli, impendendo alle truppe di Assad la libertà di circolazione che permette loro di muoversi per il paese e di concentrarsi dove serve, schiacciando le rivolte nelle aree che alzano la testa (prima Homs, ora Deraa nel sud e poi a stretto giro sarà Idlib, nel nord). Circolano rumors su squadre speciali inglesi, francesi, turche e del Qatar già presenti sul campo, dalla parte dei ribelli. A pompare la notizia è soprattutto Russia Today, il canale all news russo in lingua inglese che vuole dimostrare che anche in Siria, come in Libia, ci sono inconfessabili manovre egemoniche occidentali. Tre giorni fa titolava su “120 militari francesi catturati nell’ospedale di Homs” dalle truppe del governo. Altre fonti meno fragorose fissano il numero dei francesi a 13 e parlano anche di agenti turchi arrestati. Questo modello di intervento con armi e infiltrati però è troppo poco sottile e apre la strada a conseguenze troppo brutali, una guerra civile tignosa e prolungata fra minoranze religiose, pronta a tracimare nel vicino Libano (come spiega Rolla Scolari da Beirut in questa pagina). Una guerriglia armata di mitra contro le divisioni corazzate meglio equipaggiate del medio oriente. Così, nelle analisi dei commentatori inglesi e americani il termine che ricorre con più frequenza è “bloodbath”, bagno di sangue. Per non smarrirsi in congetture sulla presenza degli estremisti di al Qaida, sempre pronti a inserirsi fra i tempi lunghi della diplomazia internazionale: mentre quelli aspettano, noi arriviamo dall’Iraq, agiamo, annunciamo la nascita di almeno un fronte inequivocabilmente jihadista, mandiamo autobomba contro i palazzi governativi, produciamo video di propaganda. L’altro modello d’azione per cacciare Assad è più sottile, penetrante. Si tratta di convincere l’establishment siriano che quasi tutto può rimanere così come ora, a patto che gli Assad siano estromessi dal potere. Per brevità e con le dovute differenze potrebbe essere definito una via “all’egiziana”. Al Cairo gli americani hanno lasciato che fossero il capo dei servizi segreti, Omar Suleiman (che ieri ha rinunciato a candidarsi alle presidenziali del 24 maggio), e gli alti generali comandanti da Mohamed Hussein Tantawi ad abbandonare il presidente Hosni Mubarak e a evitare così un bagno di sangue in piazza Tahrir. Altri analisti fanno l’esempio della caduta di Baghdad nel 2003: il superaccordo con i generali iracheni che lasciarono Saddam Hussein da solo e risparmiarono agli americani la temuta battaglia urbana per prendere la capitale e i suoi sette milioni di abitanti, già circondati dalle nuvole di fumo del greggio in fiamme. La battaglia non ci fu. Certo che parlare di modello Baghdad non ispira sentimenti positivi. Qua si entra nel campo dei rumors. Sarebbe in corso una sistematica operazione di aggancio dei generali siriani, con tutti i mezzi possibili, dalle chiamate a sorpresa sui telefonini personali, alle lettere fatte trovare nelle case fino all’intercessione discreta – nel caso degli ufficiali cristiani – di uomini di chiesa siriani, che in questo caso sono diventati messaggeri e quasi mediatori. Basterebbe anche soltanto un generale con 400 carri armati a montare un golpe efficace nella capitale Damasco. Gli elementi certi sono questi. L’intelligence americana, secondo un articolo del Washington Post di ieri, tiene d’occhio gli spostamenti di denaro fatti dai membri dell’establishment verso il Libano e Dubai, per capire chi sono gli anelli deboli. Per ora, dicono, “il senso che ne ricaviamo è che lo facciano per precauzione. Stanno puntando su ogni casella della schedina”. James R. Clapper, direttore della National Intelligence, in un’audizione davanti al Senato a febbraio ha detto che alcuni uomini di regime stanno facendo piani d’evacuazione, per mettere in salvo le famiglie e spostare i capitali, ma per ora non ci sono segni di cedimento. Non sono per forza finiti: la risoluzione della Lega araba non parla di spazzare via il regime, ma soltanto di deporre il presidente Bashar el Assad. Il dipartimento di stato americano ha già fatto sapere che nei suoi auspici non c’è nessuna “debaathificazione”, come fu in Iraq sotto Paul Bremer. L’esercito non sarebbe dissolto e resterebbe al suo posto, il resto sarebbe questione di elezioni aperte e di riconciliazione nazionale (è molto vago e speranzoso il piano per il dopo: dopo quello che hanno subito, i ribelli non porteranno mazzi di fiori). Anche i russi hanno proposto che Assad ceda semplicemente il potere al suo vicepresidente, purché la loro base militare nel Mediterraneo rimanga gattopardescamente come prima. C’è chi nota che Assad potrebbe non essere la chiave di volta del regime, ma soltanto il volto e che la situazione in realtà potrebbe essere a rovescio, lui debole in ostaggio di una cricca di generali e uomini d’affari determinatissimi a resistere. Altri, al contrario, fanno la conta delle defezioni: sempre più di alto livello, come quella ieri del viceministro del Petrolio, Abdo Hussameddin, che però è sunnita e quindi naturalmente portato a una minore lealtà per il presidente. Non sono ancora sufficienti e il governo è ancora troppo forte. Sabato notte 50 reclute hanno convinto il loro capitano a una fuga di massa. Lui li ha traditi, sono stati fucilati prima dell’alba.
Il FOGLIO - Rolla Scolari : " Anche nelle strade del Libano Bashar el Assad ti guarda sorridente. Ma i guai stanno già passando il confine "


Rolla Scolari Hassan Nasrallah con Bashar al Assad
Beirut. Da settimane ormai il venerdì mattina a Tripoli si manifesta contro il regime di Bashar el Assad. La cittadina, sulla costa settentrionale del Libano, a pochi chilometri dal confine con la Siria e da Homs, è diventata meta e rifugio per centinaia di siriani feriti, trasportati con mezzi di fortuna attraverso la frontiera e accolti nelle case e negli ospedali locali. Secondo le Nazioni Unite, sono circa settemila i rifugiati registrati, che si trovano nelle aree lungo il confine. Ma nei villaggi sulle montagne, da molti secoli sicuro rifugio per fuggiaschi di ogni etnia e confessione – drusi, cristiani, musulmani – ci sarebbero centinaia di persone, assenti dalle liste delle organizzazioni umanitarie e delle autorità, ospitati nelle case private da una popolazione con forti legami oltreconfine. Non è ancora chiaro l’effetto che gli eventi siriani e la presenza di rifugiati avranno sulla stabilità di un paese troppo spesso trascinato nel caos dagli eventi regionali. A differenza della Turchia e della Giordania, che con la Siria condividono confini lungo i quali si combatte, il Libano – dove una parte delle forze al potere è da sempre alleata con Damasco – non ha creato campi profughi e parla malvolentieri di rifugiati: “Il flusso nel paese di alcune famiglie siriane a causa delle turbolenze non rappresenta un grande problema, perché possono stare con i loro parenti”, ha detto recentemente il presidente Michel Suleiman. L’esercito libanese dall’inizio di febbraio blocca l’accesso e le vie d’uscita delle zone frontaliere in cui sono presenti sia rifugiati sia disertori. Anche le organizzazioni non governative e le associazioni umanitarie fanno fatica a raggiungere quelle aree, muovendosi con circospezione. Le autorità richiedono a chiunque permessi specifici. Gli eventi al di là del confine, le manifestazioni, il flusso di siriani, hanno riacceso in Libano frizioni – lungo linee confessionali – che da decenni dividono il paese sui legami con Damasco. A metà febbraio, pochi giorni dopo aver dispiegato le truppe lungo il confine, il governo ha chiesto ai militari di intervenire a Tripoli per mettere fine agli scontri armati tra la minoranza alauita (che appoggia il regime siriano) e i sunniti, maggioranza nella città e sostenitori della rivolta. In due giorni, tre persone sono rimaste uccise. A innescare le violenze sarebbe stato uno striscione contro Assad appeso a un balcone, in un paese dove per tradizione su ogni palo della luce ogni quartiere mette in mostra la sua fede religiosa e politica: nelle aree cristiane il volto dell’ex presidente Bashir Gemayel si alterna a quello di Michel Aoun; nei sobborghi meridionali di Beirut, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah compare sorridente vicino al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e al rais siriano Bashar el Assad, le cui immagini abbondano anche nei villaggi della valle della Bekaa. Da febbraio, Tripoli vive in uno stato di tensione, percepita anche nel resto del paese. Il nuovo patriarca maronita, Beshara al Rai, sostenendo il dialogo, ha detto che nel mondo arabo il regime siriano “è la cosa più vicina alla democrazia”. Con questa frase, Bkerké, sede del patriarcato sulle colline che dominano la baia di Jounieh, si è alienata una parte dei politici cristiani del blocco anti siriano “14 marzo”, protagonista delle manifestazioni che nel 2005 portarono al ritiro delle truppe di Damasco dal paese. “Temo che gli eventi siriani possano far esplodere la situazione qui”, ammette un giovane attivista libanese, vicino all’opposizione siriana, pensando alla frontiera settentrionale. Ma sono molti i libanesi che guardano altrove, al sud. Le loro preoccupazioni arrivano dalla linea di confine con Israele. “I problemi ci saranno se Hezbollah deciderà di muoversi”, dice una fonte vicina al “14 marzo”. A intimorire, non è soltanto la strada che il Partito di Dio deciderà di intraprendere nei confronti dell’alleato siriano, ma soprattutto un possibile attacco israeliano alle infastrutture nucleari iraniane e le conseguenze che questo avrebbe sui fragili equilibri nella parte meridionale del paese. Per ora, però, le incessanti notizie di bombardamenti ed esplosioni continuano ad arrivare dal nord. Ieri, secondo gli attivisti siriani, dieci persone sarebbero rimaste uccise in Siria. La presunta diserzione del viceministro del Petrolio, Abdo Hussameddin, comunicata tramite un video su Internet, non ha fermato le violenze. Le dimissioni e la presa di posizione di un unico uomo, poco noto e con grande probabilità un semplice tecnico, non intaccano ancora le sorti del regime di Bashar el Assad.
Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " Unisci le dichiarazioni dell’America sulla Siria, ti apparirà la politica del tentennamento "



Paola Peduzzi, Hillary Clinton, Barack Obama
Che cosa vuol fare l’Amministrazione americana in Siria? Sicuramente vuole cacciare Bashar el Assad: l’ha detto il presidente, Barack Obama, e l’hanno ripetuto gli altri, soprattutto Hillary Clinton, segretario di stato. Fin qui, tutto bene. Ma poi i regime change – espressione che nessuno usa più perché fa troppo guerra in Iraq – non si compiono per semplice inerzia e una qualche strategia va abbracciata. E cominciano i problemi, perché una strategia dichiarata da parte di Washington non c’è. Gli esperti ci hanno spiegato che la dottrina Obama è estremamente efficace sul terreno (uccisione di Bin Laden, uccisione di Gheddafi, campagna di droni di intensità devastante su Pakistan soprattutto, ma anche in Yemen e Somalia) ma non ha contorni definiti sulla carta. Il cosiddetto “Leading from behind”, se questa poi è la sintesi che sarà consegnata alla storia, non prevede chiarezza né espositiva né morale, deve funzionare e basta (e lo fa). In Siria, come è noto, la faccenda è più complicata: non c’è una risoluzione Onu a sancire un intervento umanitario internazionale e non c’è un moto interno sufficientemente destabilizzante da portare all’allontamento di Assad. Eppure la tragedia siriana è ben più imponente di qualsiasi altra nella regione: un anno di proteste e di repressioni, 8.500 morti, l’assedio di Homs ininterrotto da mesi, con il regime che impedisce l’arrivo di convogli umanitari. E l’America che fa? Tentenna. Elliot Abrams, un neoconservatore devoto alla “freedom agenda” bushiana, ha messo in fila le dichiarazioni della Clinton sulla Siria e, al netto dell’antipatia che Abrams prova per la signora, il risultato è comunque deprimente. Hillary prima ha spiegato perché armare i ribelli sarebbe pericoloso: “Conosciamo al Qaida. Zawahiri sostiene l’opposizione in Siria. Vogliamo sostenere al Qaida in Siria? Pure Hamas sostiene l’opposizione. Vogliamo sostenere Hamas in Siria?”. Armare i ribelli è anche inutile, per due motivi. Primo: “La probabilità che ci sia una guerra civile è altissima. Un intervento esterno non potrebbe prevenirla, anzi forse può solo accelerarla”. Secondo: “Anche se i ribelli hanno armi automatiche, contro l’artiglieria pesante non servirebbero, la strage continuerebbe”. Nota Abrams: “Non possiamo aiutare i ribelli perché la nostra assistenza sarebbe limitata. Meglio che muoiano, sostiene questa tesi, piuttosto che provino a reagire”. Conclusione: “Arrangiatevi, gente: è questa l’unica logica che si può trarre da questa politica”. Abrams è antipatizzante, ma la politica obamiana in Siria non è chiara. Ci vorrebbe meno behind e più leading.
La STAMPA - Giordano Stabile : " Siria, defezioni nel regime. Via viceministro e generali "
«Io, ingegnere Abdo Hussameddin, viceministro del Petrolio, annuncio le mie dimissioni. Mi unisco alla rivoluzione». Un breve filmato su YouTube, ieri, ha certificato la prima defezione importante nel governo di Bashar al Assad. A un anno dall’inizio delle manifestazioni di massa a Homs e Daraa che hanno dato il via all’insurrezione, è la prima crepa significativa. Rafforzata dalle incrinature nell’esercito, fin qui compatto: secondo la tv saudita Al Arabiya, sempre ieri tre generali hanno disertato e sono fuggiti in Turchia.
Una brutta notizia per il raiss, proprio mentre la strategia di soffocamento delle sacche di resistenza sta dando i risultati sperati. Homs dove mercoledì è potuta entrare Valerie Amos, responsabile Onu per gli aiuti umanitari, che si è detta «devastata da ciò che ho visto a Bab Amr» - è quasi del tutto in mano ai regolari. Al confine con il Libano sono concluse le operazioni di minamento della frontiera, che renderanno difficile l’ingresso di aiuti e volontari per gli insorti. Resta ancora un punto debole nello schieramento difensivo del regime: la zona a nord vicino alla Turchia, in particolare la città di Idlib.
La battaglia è continuata anche ieri. Gli attivisti hanno contato 56 vittime, 44 a Homs, gli altri nel Nord. Ora l’obiettivo del regime è neutralizzare Idlid, la città all’imboccatura di una valle che sale verso il confine turco, l’ultima arteria vitale degli insorti. La pressione dell’esercito ha già provocato un nuovo afflusso di profughi, come la scorsa estate: sono almeno 12 mila nelle tendopoli appena oltre la frontiera.
E con l’aggravarsi della situazione umanitaria, torna sul tavolo delle cancellerie l’ipotesi di un intervento. Il capo del Pentagono Leon Panetta ha ipotizzato l’invio di «mezzi non letali» (satellitari, radio) per permettere agli insorti di difendersi. Il presidente turco Abdullah Gul ha invece escluso «un intervento in Siria partendo dall’esterno dell’area». Un circonlocuzione che segnala forse la disponibilità di Ankara ad aprire «un corridoio umanitario» per aiutare la popolazione, e gli insorti, perlomeno nella zona di Idlib, senza coinvolgimento di potenze occidentali.
Un scenario imprevedibile, osteggiato dalla Russia con Vladimir Putin nuovamente comandante in capo, e mal visto anche dall’Onu, che crede ancora in una mediazione. L’inviato speciale Kofi Annan, già segretario generale, ha dichiarato dal Cairo che «una militarizzazione renderà la situazione in Siria ancora peggiore». E soprattutto non aiuterebbe la popolazione civile, con un bisogno «disperato» di aiuto. In queste condizioni ieri a Damasco si celebrava il 49esimo anniversario della salita al potere del partito Baath, da due settimane non più «unico», in base alla riforma approvata per referendum. Ma ancora tenacemente al potere.
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