Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 07/03/2012, a pag. 4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Ecco chi pagherà (e quanto) nell’effetto domino della rivoluzione di Siria ". Dall'UNITA', a pag. 34, l'articolo di Alberto Tetta dal titolo " Io, regista curda, in cella per un documentario. A Il giro di vite in Turchia ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
L'UNITA' - Alberto Tetta : " Io, regista curda, in cella per un documentario. A Il giro di vite in Turchia "


Recep Erdogan
Processi ai giornalisti in Turchia, altro che libertà d'opinione. L'ultimo rapporto di Human Rights Watch denuncia il regime di Erdogan per la totale mancanza di libertà d'espressione in Turchia e i processi a scrittori e giornalisti 'ostili'.
Consigliamo la lettura di questo articolo a Carlo Panella, qualora gli fosse sfuggito, in modo che possa rendersi conto che i suoi giudizi lusinghieri sulla Turchia modello di 'islam democratico' sono totalmente fuori luogo.
Ecco il pezzo:
Alle cinque del mattino la polizia ha bussato alla porta di casa mia, sei accusata di essere la responsabile culturale del Partito dei lavoratori del Kurdistan mi hanno detto, poi mi hanno portata via» Müjde Arslan, giovane regista curda, dopo giorni di interrogatori sul suo ultimo documentario, il16 gennaio è stata rilasciata, ma ora ha paura. «Dopo le indagini non è stato aperto nessun procedimento penale nei miei confronti, però non riesco più a dormire, appena sento un rumore penso che sia la polizia che torna a prendermi. Sapevo che il documentario che ho appena terminato, “Io sono volato via, tu sei rimasto qui”, sarebbe stato oggetto di critiche perché parla di un tema caldo come il conflitto turco-curdo, ma non mi sarei mai aspettata l’arresto». Quello di Arslan non è un caso isolato. Sono 105 i giornalisti in carcere secondo gli ultimi dati pubblicati dal TgS, il sindacato dei giornalisti turchi, una cifra tre volte superiore rispetto al 2010. Il numero crescente di operatori dell’informazione in carcere sta mettendo a rischio il già accidentato percorso di adesione di Ankara all’Ue. La Turchia deve affrontare «urgentemente » il problema dei giornalisti in carcere modificando «un codice penale e una legislazione anti-terrorismoche non garantiscono adeguatamente la libertà d’espressione dando spazio ad abusi» ha dichiarato il Commissario per l’allargamento Stefan Füle. Secondo Human Rights Watch: «In Turchia i giudici iniziano processi contro individui solo per articoli o discorsi non-violenti e gli arresti avvengono senza tenere nella giusta considerazione l’obbligo di garantire la libertà d’espressione» scrive l’organizzazione internazionale nel suo ultimo rapporto pubblicato il 22 gennaio. Severa anche Reporter senza frontiere che ha declassato la Turchia dal 138˚ al 148˚ posto della sua classifica mondiale sulla libertà di stampa. Dal canto suo il primoministro turco Erdogan ha rispedito al mittente le critiche, sarebbero molto pochi, infatti, secondo il premier, gli operatori della comunicazione sotto processo per reati d’opinione e la maggior parte dei giornalisti avrebbe commesso reati comunio legati al terrorismo. «È in corso una campagna denigratoria contro la Turchia alimentata dall’opposizione, i paesi occidentalinon ci capiscono perché lì i giornalisti non partecipano a piani golpisti» ha dichiarato Erdogan. Nel frattempo il ministro della Giustizia turco Sadullah Ergin, dopo le critiche arrivate dell’Europa, è corso ai ripari preparando una proposta di legge che il Parlamento discuterà entro marzo. La nuova normativa prevede pene ridotte per i reati commessi a mezzo stampa e la sospensione automatica dellacondanna se l’imputato non reitera il reato. È un timido passo avanti, che non rimuove però l’ostacolo principale all’esercizio della libertà di stampa, la legislazione anti-terrorismo. «Secondo i principi contenuti nella Legge anti-terrorismo, approvata nel 1991, i giornalisti possono essere facilmente arrestati e processati con l’accusa di fare propaganda o sostenere un’organizzazione illegale – spiega Emel Gülcan, giornalista e autrice dei rapporti sulla libertà di stampa dell’associazione turca Bianet – il problema principale è che nella legge non vengono tracciati in modo chiaro i limiti entro i quali il lavoro dei giornalisti deve rimanere per non essere considerato “propaganda terrorista” e questo rende chi scrive di temi scomodi come la questione curda o critica il governo un facile bersaglio». Il 3marzo il Sindacato dei giornalisti ha indetto una manifestazione a Taksim per chiedere l’abrogazione delle leggi anti-terrorismo e la liberazione di Nedim Sener e Ahmet Sik nel primo anniversario del loro arresto. I due giornalisti, che sono diventati, in questi mesi, il simbolo della lotta per la libertà d’espressione in Turchia, prima di essere fermati, stavano indagando sulla crescente influenza delle organizzazioni islamiste nella polizia. «Sener e Sik sono accusati di aver “generato supporto morale” verso Ergenekon, una rete segreta ultranazionalista che voleva rovesciare, con la violenza, il governo islamista moderato di Recep Tayyip Erdogan, simile alla vostra Gladio» - spiega a l’Unità Can Atalay avvocato di Ahmet Sik – «tuttavia le uniche prove che confermerebbero, secondo i Pm, che Sener e Sik sono membridi Ergenekon sono gli articoli che hanno scritto e la bozza di un libro che non è mai stato pubblicato ».
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Ecco chi pagherà (e quanto) nell’effetto domino della rivoluzione di Siria "


Carlo Panella, Bashar al Assad
La rivoluzione siriana, di carattere marcatamente sunnita, provocherà rilevanti mutamenti negli equilibri regionali. Quando cadrà il regime di Bashar el Assad, perché cadrà, l’Iran non si troverà soltanto azzoppato nella sua area geopolitica di potenza, privo del raccordo strategico con Hezbollah e con Hamas, senza più un partner indispensabile per i suoi traffici di armi e per le triangolazioni commerciali per aggirare le sanzioni. La fine dell’alleato siriano innescherà anche e soprattutto un complesso effetto domino che porterà a un netto rafforzamento dell’inedito asse tra partiti sunniti e curdi che oggi costituisce in Iraq il più forte contrappeso all’influenza iraniana. Inoltre, grazie all’influenza dei due forti partiti curdi iracheni, l’eventuale autonomia del Kurdistan siriano rafforzerà sensibilmente la ribellione nel Kurdistan iraniano, attualmente la maggiore fonte di instabilità per il regime degli ayatollah.
Il Kurdistan fattore di stabilità regionale
Il Kurdistan iracheno, anziché trasformarsi nella variabile capace di destabilizzare l’intera regione, proprio grazie alla saggia rinuncia all’indipendenza da parte dei due leader Jalal Talabani e Massoud Barzani, è diventato il baricentro di una forte alleanza politica con gli avversari di sempre: i partiti sunniti iracheni che hanno abbandonato, a loro volta, la rigida concezione di stato centralista. Fonte di stabilità e sviluppo economico, anche grazie alla notevole statura politica di Talabani e Barzani, il Kurdistan iracheno può agire da moderatore per quella “trincea sunnita” che è la sola a potersi opporre all’espansionismo di Teheran, soprattutto nel caso di una grave crisi successiva a un intervento militare contro le centrali atomiche iraniane. Con l’espansione alla Siria, questa area può diventare determinate nel calmierare le turbolenze iraniane e soprattutto disinnescare la vera minaccia che l’Iran oggi rappresenta: una guerra contro Israele a partire dal Libano, scatenata in reazione all’assedio dell’occidente sul nucleare. Questo scenario, seppur da non escludere, sembra difficilmente realizzabile. L’emorragia di disertori, lo sfinimento e le sanzioni dovrebbero ormai avere annullato qualsiasi capacità di iniziativa delle Forze armate siriane verso l’esterno, togliendo così a Hezbollah quella copertura indispensabile sia per un nuovo attacco contro Israele sia per mantenere il controllo sul governo di Beirut. Il quadro è ancora incerto, le dinamiche sono aperte, ed è sempre più evidente l’impegno diretto dell’Iran al fianco di Assad. E’ nota e riscontrata la partecipazione in Siria di squadre di pasdaran iraniani in funzione antisommossa, ma ancora più illuminante è stato l’invio, deciso dall’ayatollah Ali Khamenei, del cacciatorpediniere Shahid Qandi e della nave di supporto Kharg, attraccate nel porto siriano di Tartous il 17 febbraio scorso. Una dimostrazione di forza, ma anche un sostanziale supporto tecnico, perché le due navi hanno subito dispiegato le loro potenti attrezzature di oscuramento delle telecomunicazioni dell’esercito dei disertori siriani, gestite direttamente dalle Forze armate di Ankara. Una intensa guerra dell’etere, strategicamente vitale, in cui gli iraniani hanno già dimostrato tutta la loro capacità (fu questo uno dei segreti della quasi sconfitta di Israele in Libano nel 2006), a cui partecipano anche i russi. Le due navi iraniane sono infatti attraccate nel porto militare siriano di Tartous a poca distanza dalla portaerei Kuznetsov e da due cacciatorpedinieri del Cremlino che operano attivamente nella stessa direzione di guerra informatica.
Il futuro incerto per la comunità cristiana
Non sarà facile la vita per la minoranza cristiana in Siria quando cadrà il regime di Bashar el Assad. Non soltanto a causa del fanatismo delle frange qaidiste e del fondamentalismo anticristiano della componente jihadista, ma anche della aperta complicità col regime dell’intera comunità cristiana siriana nei lunghi mesi della mattanza baathista. E’ la ripetizione dell’errore già compiuto dalla comunità cristiana irachena, complice sino alla fine dei crimini (ma anche degli eccellenti profitti economici) del regime di Saddam Hussein. Complicità per cui ha poi pagato un prezzo altissimo. Rileggere oggi le parole del più alto esponente del clero cattolico (in Siria vi sono undici chiese cristiane, sette delle quali riconoscono il magistero del Pontefice di Roma) datate 11 maggio 2011, quindi dopo che già erano stati uccisi duemila dimostranti, è risolutivo: “Il presidente Bashar el Assad sta facendo bene, cerca di difendere il paese, gran parte del popolo sta con lui, i cristiani lo sostengono e la repressione delle manifestazioni di protesta messa in atto dal regime nelle ultime settimane è questione di autodifesa. Fino a oggi non avevano attaccato nessuno, ma dopo aver sopportato per un mese l’assassinio di poliziotti e soldati e l’aggressione a istituzioni ufficiali, credo che la polizia avesse il diritto di entrare in azione unicamente come autodifesa, non mossa dall’intento di attaccare o uccidere persone. Possiamo affermarlo con obiettività. Qui i cristiani sono il dieci per cento della popolazione e stanno tutti dalla parte del presidente Assad. Quelli che manifestano vengono da fuori. Sono prezzolati e asserviti a interessi stranieri. Il 90 per cento della popolazione ama il nostro presidente e sta con il governo, come ha sempre fatto negli ultimi 20-40 anni. In definitiva il giudizio sulla Siria può essere positivo: abbiamo università e un buon sistema di istruzione. Certo, il gran numero di giovani laureati in cerca di un’occupazione è un problema reale, ma di ordine economico. Credo che nei prossimi mesi ci lasceremo questo momento di crisi alle spalle. Il presidente Assad è un uomo molto amato, giovane e istruito, che lavora nell’interesse della Siria. Il nostro non è un paese perfetto e come tutti gli altri siamo stati messi in difficoltà dalla situazione economica internazionale. Ma penso – conclude mons. Audo – che lui stia facendo molto bene e difenda il nostro paese con grande dignità”. Queste parole fanno ben comprendere come mai Assad abbia sostituito il suo ministro della Difesa alawita Ali Habib (si dice che fosse contrario all’eccesso nelle stragi di civili) con il generale cristiano Davoud Rajha. Solo il 12 dicembre 2011, i tre patriarchi di Antiochia con sede a Damasco (il siro-ortodosso, il greco-melchita cattolico e il grecoortodosso) e l’Assemblea della gerarchia cattolica in Siria hanno espresso la loro profonda preoccupazione per la situazione in Siria con toni diversi, anche se sempre in sostegno al regime, con la richiesta di revocare le sanzioni internazionali. Lo stesso monsignor Audo ha smesso di lodare Assad e di definire “prezzolati dagli stranieri” i manifestanti, ma le chiese cristiane (tranne qualche rara eccezione) rimangono ancorate a una posizione mediana, di condanna delle violenze di tutte le parti. Una posizione politicamente cieca (quando non apertamente cinica) che avrà pessime conseguenze in un futuro non troppo lontano.
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