Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 29/02/2012, a pag. 20, l'articolo di Alix Van Buren dal titolo "Il nunzio del Vaticano in Siria: fucilato un bimbo di 10 mesi " , preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 55, l'articolo di Bernard-Henry Lévy dal titolo " È ora di fermare i cannoni di Assad. Le nazioni civili non hanno più alibi ". Dalla STAMPA, a pag. 15, l'articolo di Giordano Stabile dal titolo " Reporter feriti in Siria giallo sui soccorsi: lui è in salvo, lei no ".
Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Alix Van Buren : " Il nunzio del Vaticano in Siria: fucilato un bimbo di 10 mesi "

Boutheina Shaaban, addetta stampa di Bashar al Assad e amica di Alix Van Buren
Alix Van Buren, dopo qualche giorno di assenza dalle pagine di Repubblica, è tornata a scrivere di Siria, come se lo scandalo del suo scambio di email e regali con l'addetta stampa del dittatore Bashar al Assad non ci fosse mai stato.
Eppure Il Giornale ne ha scritto (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=9&sez=120&id=43400), dopo che Christian Rocca aveva diffuso la notizia sul suo blog. Anche Ugo Volli ne ha scritto su IC (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=43414, http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=43506) chiedendosi, tra le altre cose, il ruolo di Gad Lerner, che Alix Van Buren ha tentato inutilmente di raccomandare alla sua amica Boutheina perchè Assad gli concedesse un visto per un viaggio in Siria. Un visto, che, ovviamente, non è mai stato concesso, Gad Lerner, pur essendo sufficientemente critico con Israele, è pur sempre un ebreo e, come tale, mal tollerato dal satrapo siriano.
Oggi Alix Van Buren scrive delle violenze del regime e dei ribelli in Siria. Che siano finiti i regali di Boutheina? Come mai si lascia intendere che ci sia una repressione in atto in Siria? Forse ora Van Buren ha legami con qualche portavoce dei ribelli?
Invitiamo i lettori di IC a scrivere a Repubblica per chiedere se i pezzi di Alix Van Buren, visti i suoi precedenti, siano credibili e spiegazioni circa il suo coinvolgimento con la portavoce del dittatore siriano: rubrica.lettere@repubblica.it
«Tanti, troppi innocenti muoiono in Siria, presi dentro la bolgia infernale in certe città: anche un bimbo di 10 mesi è stato ucciso assieme a 17 persone della sua famiglia allargata». L´appello a «interrompere la spirale di violenza», assieme alla richiesta di «una tregua umanitaria per curare i feriti e portare generi di prima necessità» nei centri dove infuriano i combattimenti, stavolta arriva dal nunzio apostolico a Damasco. Questo mentre si accavallano notizie di scontri più intensi a Homs, di almeno 60 vittime dichiarate dagli attivisti, e della sorte incerta dei giornalisti evacuati da quella città.
Monsignore Mario Zenari, al telefono da Damasco si dice «profondamente rattristato per la morte di tanti innocenti», in particolare i bambini, che in quel Paese «popolano le strade. L´Unicef ne ha già contati più di 500: a volte falcidiati, o perché si trovano in situazioni di pericolo o perché, in casi estremi, vengono giustiziati. Mi ha impressionato il caso di quel bebé di 10 mesi, di cui conservo la fotografia, e sto guardandola adesso mentre parlo, fucilato a Hama assieme alla famiglia, un caso di vendetta, in una spirale di odio da cui a volte è impossibile restare fuori».
Chi siano i mandanti di quella che il monsignore definisce una «vendetta», a suo avviso non è dato di sapere. È una violenza cieca, spiega, «motivata a volte dal fatto che una famiglia è stata costretta a far entrare in casa ora l´esercito, ora i ribelli, perciò viene punita». L´inviato del Vaticano dipinge un «quadro infernale» di alcune aree di Homs, «dove i civili sono presi nel fuoco incrociato: alle spalle l´esercito, a 300 metri i ribelli, ed è impossibile scendere nelle strade, fra cadaveri, feriti e cecchini che spara dai tetti, ma nessuno può dire con precisione chi siano perché bisogna essere molto prudenti, la situazione è complessa, non è tutto bianco e nero come si può pensare».
Il nunzio segue anche la «difficile mediazione» per il recupero dei corpi dei morti a Baba Amr, «impressionato che non si riesca a tirarli fuori, probabilmente perché ciascuna parte vuole trarre il massimo profitto. La mamma di uno dei morti mi ha chiesto di occuparmene», dice il Monsignore, tacendo il nome della madre straniera. «Ma è una cosa complicata: per evacuare una vittima si rischia di farne altre dieci».
Proprio ieri l´organizzazione Avaaz fa sapere d´avere coordinato un´operazione per evacuare da Homs i giornalisti feriti: un gruppo ha portato in salvo il britannico Paul Conroy, ora in Libano, l´altro è rimasto bloccato sotto le bombe con la giornalista ferita del Figaro, Edith Bouvier. Intanto a Ginevra il Consiglio dei diritti umani dell´Onu denuncia «le atrocità contro i civili». Il ministro degli Esteri francese Juppé chiede al Consiglio di riferire il caso siriano alla Corte penale internazionale dell´Aja.
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " È ora di fermare i cannoni di Assad. Le nazioni civili non hanno più alibi "

Bernard-Henri Lévy
I l prossimo 19 marzo sarà passato un anno esatto da quando squadriglie di aerei francesi e poi, in un secondo tempo, inglesi, americani, arabi, salvarono Bengasi da una prevedibile distruzione.
Ebbene, stando così le cose, e se la comunità internazionale, non solo la Francia, non riprendono l'iniziativa, questo anniversario rischia di avere un cattivo odore di cenere e fallimento.
Infatti, oggi esiste una nuova Bengasi. C'è un'altra città, nella regione, che si trova nella medesima situazione in cui si trovava a suo tempo Bengasi. Per essere più precisi, in una situazione quasi peggiore, poiché i carri armati, collocati allo stesso modo, alla stessa distanza dalle popolazioni civili disarmate, stavolta sono passati, e da mesi, all'azione. Questa città è Homs. È la capitale siriana del dolore, dove si prendono di mira i giornalisti e si massacrano, indistintamente, i civili.
Il fatto è che quello che abbiamo attuato in Libia non lo attuiamo in Siria; gli stessi carri armati che i nostri piloti hanno inchiodato al suolo in Libia poche ore prima che si scatenassero entrando in azione, in Siria operano nella più totale impunità.
Certo, sappiamo che le situazioni non sono del tutto identiche. E nessuno può ignorare che la geografia del Paese, il fatto che non disponga della vasta zona d'appoggio che era la Cirenaica liberata, o il fatto che il Paese disponga di due alleati di peso che Gheddafi non aveva — Iran e Russia — rendono l'intervento complicato.
Ma c'è un momento in cui il troppo è troppo. C'è un momento in cui, di fronte alla carneficina, di fronte all'inezia degli 8.000 morti provocati dai carri armati di Bashar Al-Assad, di fronte alla lugubre farsa del referendum che si è preteso organizzare, oltre tutto, sotto i tiri dei cecchini e sotto le bombe, bisogna avere l'elementare dignità di dire basta. C'è un momento, sì, in cui una comunità internazionale, che ha votato con schiacciante maggioranza (137 voti a favore, il 16 febbraio, all'Assemblea generale delle Nazioni Unite) la condanna dell'assassino, non può più lasciarsi prendere in ostaggio, e lasciarsi paralizzare, da due Stati canaglia che, nella circostanza, sono la Cina e la Russia (davanti a una minaccia che, ripeto, era solo all'inizio della sua esecuzione, il presidente Sarkozy non aveva forse confidato ai rappresentanti del Consiglio nazionale di transizione libico — giunti il 10 marzo 2011 all'Eliseo a chiedergli un intervento — che avrebbe fatto di tutto, naturalmente, per ottenere l'avallo delle Nazioni Unite ma che, se per caso non l'avesse avuto, si sarebbe accontentato, vista l'urgenza, di una istanza di legittimità di formato più ridotto e si sarebbe appoggiato all'Unione Europea, alla Nato e alla Lega Araba?).
Infine, il pretesto della geografia, l'idea secondo cui un intervento in zona urbana sarebbe più problematico di un intervento nel deserto, è un'altra scusa che non regge: perché anche a Homs, come a Idlib o a Banias, ci sono carri armati collocati a pochi chilometri dalla città e quindi neutralizzabili; e soprattutto perché gli Amici della Siria hanno a disposizione una gamma di interventi che non sarebbero la semplice replica di quello che in Libia ha funzionato, ma si adatterebbero, necessariamente, al territorio.
Per esempio, possono — sulla scia di quanto ha proposto, la settimana scorsa, a Washington, il ministro degli Esteri del Qatar — instaurare perimetri di sicurezza, garantiti da una forza di mantenimento della pace araba, alle frontiere della Giordania, della Turchia e, forse, del Libano. Possono — sulla scia di quanto ha avanzato, nello stesso periodo, il ministro degli Esteri turco — imporre nel cuore del Paese, vere e proprie no kill zone protette da elementi dell'esercito siriano libero che verrebbero dotati di armi difensive. Possono, al di fuori di queste zone, far passare ai siriani liberi le armi necessarie per metterli in condizione di distruggere essi stessi i pezzi di artiglieria che l'esercito di Damasco ha posizionato vicino alle scuole o agli ospedali. Possono decidere di creare zone, nel cielo, vietate agli elicotteri e agli aerei della morte e, su terra, ai convogli blindati che trasportano truppe e materiale. Possono, con l'appoggio di un esercito turco che, davanti alla minaccia iraniana, ha da tempo scelto il suo campo e dispone delle due basi Nato di Smirne e Adana-Incirlik, badare al rispetto di tali zone e, se necessario, imporlo.
Né sarebbe inutile che gli stessi Amici della Siria suggerissero ai «fratelli» egiziani di chiudere lo stretto di Suez a tutte le navi iraniane come quella che, ancora la settimana scorsa, scaricava armi e istruttori sulla base russa di Tartus.
È rischioso tutto questo? Certamente. Ma è meno rischioso della guerra civile cui lavora Assad e che trasformerebbe la Siria in un nuovo Iraq. Meno rischioso del rafforzamento — se Assad avesse la meglio — dell'asse sciita che sognano a Teheran e che minaccia la pace del mondo. E meno rischioso del disastro morale cui andremmo incontro se la «responsabilità di proteggere», superbamente assunta in Libia, dovesse, in Siria, ritornare nell'inferno degli ideali traditi.
La STAMPA - Giordano Stabile : " Reporter feriti in Siria giallo sui soccorsi: lui è in salvo, lei no "

Edith Bouvier
Paul Conroy ce l’ha fatta, Edith Bouvier no. Le sorti del fotoreporter britannico e dell’inviata francese del Figaro si sono divise ieri. Erano stati feriti a Homs il 22 febbraio, dallo stesso razzo che ha ucciso Marie Colvin e Rémi Ochlik. Dopo una settimana di attesa e trattative ieri pomeriggio erano stati dati per liberi, tutte e due, già al sicuro in Libano. Notizia confermata dallo stesso presidente francese Nicolas Sarkozy. Troppo presto.
Smentite e conferme si sono accavallate per ore. Poi arriva la buona notizia per i Conroy. La moglie, Kate, dice al telefono: «È stato trasportato all’alba in Libano. Ho parlato con lui». La Bouvier sarebbe invece ancora in Siria, probabilmente a Homs. Non si capisce il perché del diverso trattamento. Altre fonti libanesi sostengono che sono gli insorti a impedire l’accesso ai mezzi della Croce rossa. Circostanza ribadita da Hala Jaber, corrispondente del Sunday Times, collega e amica dei reporter, su Twitter. Jaber spiega sostanzialmente che il problema «è la mancanza di fiducia», la paura di cadere in una trappola da parte dei combattenti.
Conroy, racconta ancora Jaber, ha ferite da schegge alle gambe e all’addome, Bouvier fratture multiple alle gambe. Ma evidentemente non sono arrivati i permessi per tutte le ambulanze, quattro, perché bisognava portar via anche le salme della Colvin e di Ochlik. Sembra che l’inatteso comportamento degli insorti, o di una parte di loro, sia dovuto anche al timore che senza la presenza di giornalisti occidentali si scateni l’offensiva finale. Ieri i governativi hanno ricevuto rinforzi dalla IV brigata.
Le forze di sicurezza di Bashar al Assad hanno martellato il quartiere di Bab Amr a Homs, la città di Hama, altra roccaforte degli insorti, Daara, Idlib, nel Nord, e un quartiere di Aleppo, seconda metropoli del Paese. Il bilancio, secondo l’opposizione, è di almeno 102 morti. In linea con quanto stimato dalle Nazioni Unite, che hanno aggiornato il bilancio complessivo di un anno di insurrezione: 7500 vittime, con una media di «cento al giorno» nelle ultime settimane. L’Unicef parla a sua volta di 500 bambini uccisi.
Un disastro umanitario denunciato dal nunzio cattolico a Damasco, monsignor Mario Zenari: «A Homs ha detto a Radio Vaticana - scarseggiano i viveri, le medicine, è difficile curare e soccorrere i feriti, seppellire i morti. Ci sono migliaia di sfollati». Il nunzio parla di atrocità senza limiti: «Una famiglia, 17 persone, è stata messa al muro e mitragliata, compreso un bambino di 10 mesi».
A Ginevra si è riunito d'urgenza il Consiglio dell’Onu per i Diritti umani (Unhrc). L’alto commissario Navi Pillay ha puntato il dito contro «una massiccia campagna di arresti« nei confronti degli oppositori. Il ministro degli Esteri francesi è tornato a chiedere che il Consiglio si muova per denunciare Assad e il suo regime al Tribunale internazionale dell’Aja.
Uno sviluppo improbabile. Oggi i 47 Paesi membri dovranno pronunciarsi su un progetto di risoluzione di condanna della «grave situazione dei diritti umani e sul deterioramento di quella umanitaria». E più plausibile che il Consiglio faccia pressione su Russia e Cina che finora, con il loro potere di veto, hanno impedito ogni azione incisiva dell’Onu. In stile libico, per inteso. Ieri, il leader del Cnt della Libia, Mustafa Abdel Jalil, ha espresso la sua solidarietà agli insorti siriani e promesso che provvederà a fornire «ai fratelli siriani qualsiasi cosa di cui abbiano bisogno».
L’ennesima «ingerenza», secondo Damasco, che ha nuovamente attaccato gli Stati «che incitano la violenza». I media locali plaudono ai risultati del referendum: 89,4% di sì con una affluenza del 57,4%. Un successo che «apre la strada a un’era di consenso politico». O forse l’ultima vittoria per Assad.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, Corriere della Sera, Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti