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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
23.02.2012 Siria: la repressione continua. Che cosa fa l'Occidente ?
cronache di Redazione del Foglio, Guido Olimpio. Commenti di André Glucksmann, Lucia Annunziata

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Redazione del Foglio - Guido Olimpio - André Glucksmann - Lucia Annunziata
Titolo: «Sull’intervento contro Assad pesano gli spettri di dieci anni di guerre - Gli amici della Siria - Americani e russi, qaedisti e pasdaran. A Damasco è guerra di spie - L'Europa ritrovi lo spirito di Havel per difendere il diritto in Siria - Tempo scaduto,»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/02/2012, in prima pagina, gli articoli titolati "  Sull’intervento contro Assad pesano gli spettri di dieci anni di guerre" e " Gli amici della Siria ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Americani e russi, qaedisti e pasdaran. A Damasco è guerra di spie ", a pag. 49, l'articolo di André Glucksmann dal titolo " L'Europa ritrovi lo spirito di Havel per difendere il diritto in Siria ". Dalla STAMPA, a pag. 1-16, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo "Tempo scaduto, è l'ora di intervenire ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - "Sull’intervento contro Assad pesano gli spettri di dieci anni di guerre"


Bashar al Assad

Milano. Homs è la capitale del terrore siriano, ieri sono stati uccisi giornalisti, ma da mesi muoiono i ribelli, i disertori, i cittadini, mentre il regime di Bashar el Assad nega, dice che è tutta una montatura dei rivoltosi fanatici. In un anno, la repressione ha fatto più di settemila morti, ci sono state quarantamila diserzioni nell’esercito regolare (così dice il Free Syrian Army, uno splendido racconto sul Christian Science Monitor testimonia la trasformazione di un soldato di Assad in un soldato ribelle, l’impossibilità di sparare sul proprio popolo), le proteste sono partite da sud, si sono localizzate in alcune città e si sono negli ultimi giorni intensificate ad Aleppo e nella blindatissima Damasco. I siriani resistono, il regime pure, mentre tutti gli spettri delle guerre recenti si sono riuniti nelle sale dove la comunità internazionale cerca di stabilire una strategia per fermare – ribaltare – Assad. C’è il precedente libico: un attacco deciso in pochissimo tempo, con l’accordo dell’Onu e il comando della Nato, nato con intenti umanitari e trasformatosi in una caccia all’uomo (Gheddafi), con contestuale appoggio ai ribelli, molti ex del regime, che ancora regolano conti passati, sono vicini ad al Qaida e si sparano tra loro. C’è il precedente iracheno: una missione non condivisa, una guerra che sembrava leggera e che invece è appena finita solo perché così ha deciso Washington, l’ascesa a Baghdad di un minidittatore, Nouri al Maliki, che più è libero di fare più diventa spaventoso. C’è il precedente afghano: dieci anni di battaglie e la necessità ora di negoziare con i talebani, ché con la forza sono stati domati, non certo battuti. In Siria, c’è un mix di tutto questo (soprattutto c’è un dittatore feroce che da mesi spara e tortura): un’opposizione divisa, non rassicurante, senza un piano condiviso; un’alternativa che sa di Fratellanza musulmana e di avanzata islamica in un regime considerato laico. In più c’è un alleato, l’Iran, che è pronto a scatenarsi se un cambio a Damasco è deciso da qualcuno che non abita a Teheran. Eppure la comunità internazionale non può più stare a guardare, e per ora opta per un altro mix: l’intervento indiretto (cioè armare i ribelli) e altre sanzioni. Russia e Cina permettendo.

Il FOGLIO - "Gli amici della Siria"

Roma. Domani a Tunisi si riuniscono gli “Amici della Siria”, l’iniziativa diplomatica, forte della presenza di 76 paesi, voluta da Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Turchia, Unione europea e Lega araba. Non ci sarà la Russia, che assieme alla Cina ha posto il veto su una risoluzione dell’Onu che chiedeva al presidente siriano Bashar el Assad di farsi da parte. A Tunisi ci sarà il Consiglio nazionale siriano, che raccoglie quasi tutta l’opposizione siriana. Per preparare il summit, a Villa Madama il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, si è incontrato con il collega francese, Alain Juppé, duro nel chiedere un cambio di regime a Damasco. Era presente il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola. Sono due le incognite: il sostegno armato ai ribelli e i corridoi umanitari per la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa. Il Wall Street Journal spiega che la coalizione è divisa sull’idea di armare i ribelli. “C’è consenso sul fatto che senza un intervento esterno l’unico modo è darci i mezzi”, dice Bassma Kodmani dell’opposizione siriana. Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha escluso “un’ulteriore militarizzazione” della Siria, ma ribadendo che Assad se ne deve andare ha detto che l’opposizione sarà sostenuta. I senatori John McCain e Lindsey Graham hanno proposto un piano “covert” per armare i ribelli. Il Times scrive che il Pentagono avrebbe un piano per la fornitura di armi (che secondo i russi è già cominciata da tempo). Arabia Saudita e Qatar starebbero già armando i ribelli. A Iskenderun, in Turchia, c’è un comando congiunto di americani, britannici, francesi, qatarioti e sauditi. Gli inglesi sarebbero già a Homs. Ma Salman Shaikh del Brookings Doha Center in Qatar dice che è più realistico il “duplice piano”: i paesi occidentali che fanno pressione diplomatica e forniscono aiuti umanitari, i paesi regionali che intervengono con armi e logistica a sostegno dei ribelli.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Americani e russi, qaedisti e pasdaran. A Damasco è guerra di spie "

WASHINGTON — Gli Stati Uniti considerano «passi ulteriori» nei confronti della Siria, frase che viene interpretata da molti con il possibile invio di armi ai ribelli. Decisione non facile. Il Pentagono sembra contrario e non si fida degli insorti. Altri dubbi sono stati evocati da ascoltati consiglieri della Casa Bianca: attenti a non alimentare altra violenza, meglio una pressione mirata sul regime. Ma se le stragi dovessero proseguire sarebbe inevitabile per gli Usa muovere in soccorso degli insorti. Magari in modo indiretto, appoggiando iniziative alleate.
In attesa di quel momento, il lavoro «sporco» tocca all'intelligence. Gli americani — secondo indiscrezioni — si muovono su più fronti. Il primo riguarda l'uso dei droni. I «Global Hawk», che decollano forse da Sigonella o da Incirlik (Turchia), e magari la «Bestia», un velivolo sofisticato identico a quello precipitato in Iran. Possono seguire i movimenti siriani, intercettare comunicazioni, procurare prove visive di quanto sta accadendo. Al loro fianco — come segnala l'esperto David Cenciotti — gli U2, gli aerei spia veterani della Guerra fredda.
Il secondo fronte coinvolge la leadership di Damasco. Gli 007 sono a caccia di informazioni su alti gradi e personalità, magari alla ricerca di divisioni interne. La Cia si interessa poi al livello di efficienza dell'esercito siriano. Per ora tiene, anche se c'è qualche fessura. Non meno intensa è la ricerca di dati sulla presenza di Al Qaeda. L'intelligence statunitense è convinta che alcuni gravi attentati siano stati compiuti da jihadisti venuti dall'Iraq. In caso dovesse scattare un programma d'aiuto ai ribelli, Washington vuole evitare di armare gli estremisti. Ma forse è troppo tardi. Molte fonti sostengono che britannici, francesi e uomini del Qatar — utilizzando come avamposto Iskenderun (Turchia) — sono già impegnati nel favorire l'afflusso di volontari (libici in particolare) e di carichi di armi.
Gli israeliani, per parte loro, usano agenti sul terreno e le postazioni per la guerra elettronica sul monte Hermon, sul Golan. A Gerusalemme i guai di Bashar Assad sono come la manna dal cielo — perché Teheran rischia di perdere il miglior alleato — ma al tempo stesso lo Stato ebraico non sarebbe contento di vedere il potere nelle mani dei Fratelli musulmani.
Più appariscente il lavoro del Mit, il servizio turco. Ankara ospita molti disertori siriani e ha infiltrato uomini in diverse province. Notizie non confermate sostengono che alcune decine di agenti turchi o loro informatori sarebbero stati catturati dal Mukhabarat di Damasco. E ora sarebbero in corso negoziati sul loro destino. Missioni complicate, dove non mancano sorprese. Un funzionario dei servizi è stato arrestato dai suoi colleghi. Lo hanno accusato di aver rapito e consegnato alla Siria un alto ufficiale che aveva cercato asilo oltre confine. La Turchia, inoltre, tiene d'occhio i separatisti curdi del Pkk che hanno ripreso la collaborazione con la Siria. I guerriglieri possono agire da quinta colonna con attentati nelle principali città turche.
Al fianco di Damasco i russi, presenti in gran numero e in grado di suggerire tattiche antiguerriglia in stile ceceno, e gli iraniani. I pasdaran assistono il regime per le intercettazioni, affiancano le unità incaricate della repressione, collaborano alla sorveglianza degli esuli siriani in Turchia e in Libano, regione dalla quale arrivano rifornimenti per gli insorti. Per Teheran è una battaglia decisiva in difesa di un amico.

CORRIERE della SERA - André Glucksmann : " L'Europa ritrovi lo spirito di Havel per difendere il diritto in Siria "


André Glucksmann

«In casa propria ciascuno è re». Il non intervento è brandito come un principio intangibile che protegge i governanti qualunque cosa essi facciano. Torture, uccisioni, repressioni di massa, guerra civile, poco importa, Bashar al-Assad è sicuro della propria immunità poiché due grandi potenze bloccano con il loro veto il Consiglio di sicurezza. Eppure, né la Russia né la Cina sono così pignole quando sono in gioco i loro interventi: la Georgia indipendente non è forse amputata del 20 per cento del suo territorio internazionalmente riconosciuto? E il Tibet colonizzato con brutalità illustra la candida purezza dei padroni di Pechino. È giocoforza chiedersi quali siano i motivi nascosti dei veti successivi che equivalgono a un permesso di uccidere a Damasco e dintorni.
Ho sorpreso alla televisione un diplomatico di buona volontà stupirsi, o fingere di stupirsi, di tanto accanimento. La notte precedente il voto di una risoluzione (lenitiva a forza di compromessi) al Consiglio di sicurezza, Assad aveva accumulato altri 230 cadaveri a Homs, perché l'ambasciatore russo restava ben saldo sul suo veto? Come poteva sostenere ancora l'assassino? Non bastava il cedimento alle sue esigenze di moderazione? Non era commosso da tanto dolore? Non era agitato da alcuna reticenza? Ma andiamo! Il Cremlino ha massacrato 250.000 ceceni, di cui 40.000 bambini (su una popolazione di circa un milione). Basta con i piagnistei! Bashar il dilettante è lontano da quelle cifre, il carnivoro deve quindi continuare il proprio lavoro. Né bisogna turbare gli esperti comunisti di Pechino che ancora non si pentono di aver lanciato i carri armati contro gli studenti sulla piazza Tienanmen.
Non date la colpa al ritardo con cui si accendono i buoni sentimenti: la verità è che i sostenitori del boia di Damasco lo proteggono e si proteggono con cognizione di causa. Non insinuate che siano mossi soltanto da motivi bassamente mercantilistici (vendita d'armi) o tattici (base militare marittima nel Mediterraneo). L'asse Pechino-Mosca-Teheran-Damasco trascende i calcoli meschini, è un'alleanza per la sopravvivenza. «Vattene via!». Di fronte a dispotismi diversi, l'insurrezione democratica iraniana del 2009, le primavere arabe del 2011, le gigantesche manifestazioni di piazza a Mosca dell'inverno 2011-2012 protestano tutte allo stesso modo contro la dominazione «degli imbroglioni e dei bugiardi». Esprimono la stessa voglia di libertà, lo stesso rifiuto di una corruzione onnipresente e onnipotente. I Padrini che paralizzano l'Onu mirano giusto, Assad ha l'incarico di bloccare di netto, aiutandosi con i bagni di sangue, il contagio mondialista delle rivolte contro i dispotismi. Che faccia presto! Che colpisca forte, prima che le maggioranze dell'Onu, che oggi lo condannano, trovino domani, aiutate dall'indignazione, un mezzo per farlo cadere.
Da un lato, potenze «d'ordine», ossessionate dalla sorte poco brillante di Gheddafi, Ben Ali, Mubarak. Dall'altro, maggioranze inquiete ed esasperate che reclamano la fine dei massacri e la protezione internazionale delle popolazioni civili. Da che lato penderà la bilancia? Assad riuscirà a mantenersi al potere annientando una dopo l'altra le città del proprio Paese? La teocrazia sempre più nucleare dell'Iran riuscirà a controllare l'ostilità dei cittadini? Putin riuscirà nella falsificazione amministrativa delle elezioni presidenziali? Dovrà fomentare un'epidemia di attentati da attribuire a immaginari nemici, per poi reprimere meglio i contestatari? Oppure, perché no, lancerà una spedizione militare, simile alla seconda guerra in Georgia, per imporsi come uomo forte e inaffondabile della Russia? Last but not least (infine, ma non ultimo, ndr), i padreterni cinesi, in preda alla loro segreta guerra di successione, risolveranno le loro liti domando i contadini indocili, gli operai asserviti, i blogger insolenti e gli intellettuali dissidenti?
L'Europa ha torto ad aspettare con le braccia conserte che tutto si decida senza di lei. Non basta redigere faticosamente vane risoluzioni per un Consiglio di sicurezza sottomesso all'interdizione dei russi e dei cinesi. L'Unione Europea ha creduto che la caduta del Muro aprisse le porte a un Eden della fine della storia, a un'era di prosperità senza guerre e senza crisi: ed eccola col suo piattino a implorare l'elemosina degli oligarchi di Pechino e Mosca. Dovrà pur trovare l'energia di affrontare con i propri mezzi le sfide della mondializzazione, che non sono soltanto una questione di soldi. Bisognerà ricordarsi di un'altra Europa, quella di Vaclav Havel, che in mezzo secolo si è risollevata dalle sue rovine e ha saputo congiungere dinamica democratica e propagazione di un'abbondanza generale anche se relativa. Quando a sud del Mediterraneo i cittadini si ribellano, ritrovano lo slancio delle «rivoluzioni di velluto» che emanciparono l'Est del continente. Quando coraggiosi internauti e intellettuali contestatari firmano pubblicamente la Charta 08 in Cina, si ricollegano esplicitamente alla Charta 77 dei liberatori di Praga. Durante il terribile XX secolo, l'Europa ha cominciato con l'inventare due mali supremi: la guerra totale e le rivoluzioni totalitarie. Poi, dopo il 1945, quella stessa Europa ha elaborato l'antidoto: il pensiero dissidente e le sommosse democratiche. Alla chetichella, ha creduto infine di poter sistemare gli uni e gli altri sotto il suo morbido guanciale. È giunto il momento, per l'Europa, di ravvedersi e di andare in soccorso dei popoli che seguono oggi l'esempio che essa ha dato ieri.
Come aiutare? E come aiutarci? Cominciando a parlare a voce alta, svelando i falsi pretesti che nascondono quel che di decisivo è in gioco. C'è un paradosso: ad armare fino ai denti il despota, ci pensano i suoi amici. Mentre agli oppressi vengono rifiutati i mezzi per difendersi. Come si può accettare che la loro protezione sia sottoposta al veto della non ingerenza? Mercato libero per gli assassini, abbandono in aperta campagna per le loro vittime? Diciamo con calma che i due Grandi, che a loro piacimento garantiscono la sopravvivenza dei dispotismi, sotterrano la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e di conseguenza sotterrano l'Onu che l'ha elevata a primo principio dopo gli abomini della Seconda guerra mondiale.
Queste modeste considerazioni, stimolate dalla più scottante e minacciosa attualità internazionale, resteranno definitivamente estranee ai grandi dibattiti franco-francesi delle elezioni presidenziali?

La STAMPA - Lucia Annunziata : " Tempo scaduto, è l'ora di intervenire "


Lucia Annunziata

Siria, sono stati assassinati due giornalisti occidentali. Per questo le pagine dei quotidiani di oggi sono piene di cronache su quanto sta succedendo con la repressione di Bashar al Assad.
I morti degli scorsi mesi contavano molto meno, non suscitano la pietà di Annunziata, non tanto da prevedere un'accelerazione della caduta del regime di Damasco. Evidentemente i carri armati che sparano contro le persone non sono un'immagine abbastanza forte da richiedere un intervento contro la Siria, mentre la morte di due giornalisti sì.
Ecco l'articolo:

Non sarebbe la prima volta che la morte di un giornalista è la miccia che accende un conflitto. In Nicaragua nel ’79 fu l’uccisione (faccia a terra e colpo di fucile alla tempia) davanti alle telecamere di Bill Strewart della Abc a fornire alla rivoluzione il vantaggio finale. Mettetela come volete, che noi ci svegliamo solo quando uno dei nostri viene ucciso, ma è un dato di fatto che tre giornalisti morti in una sola settimana in Siria è troppo. Per la nostra pubblica opinione, e per i governi che solo attraverso lo specchio di questa opinione pubblica a volte riescono a decidere. Le tre vittime, l’americana Marie Colvin e il fotoreporter francese Remi Ochlik uccisi ieri, e quattro giorni fa Anthony Shadid ucciso da un attacco d’asma non curato mentre lavorava clandestinamente in Siria, erano per altro tutti grandi nomi, star riconosciute e seguite, veterani esperti i cui servizi hanno sempre fatto la differenza.

Non è dunque impossibile a questo punto immaginare che queste morti accelerino una situazione che tende già ad inclinare verso un intervento. Forse non un intervento militare diretto, tipo Libia, ma già si parla di un sostegno «attivo» (armi e logistica) dell’opposizione. Ieri gli Stati Uniti hanno fatto capire di «aver perso la pazienza». Poche ore prima della notizia della morte dei due giornalisti, il Pentagono aveva fatto trapelare la notizia di avere «allo studio» piani di intervento, sia pur in maniera puramente teorica al momento. Hillary Clinton, il segretario di Stato, sta per raggiungere Tunisi dove domani si riuniranno 70 Paesi che aderiscono a una nuova organizzazione, «Amici della Siria», nata dopo il veto di Russia e Cina a ogni mozione anti-Assad. La riunione convocata da tempo, diventa ora, sotto i bombardamenti di Assad, molto più rilevante. L’Europa per ora non sa, ancora una volta, dove stare. Sta moltiplicando gli «sforzi diplomatici», soprattutto con la Russia – anche se Putin non intende fare altre mosse fino a che non ci saranno le presidenziali a Mosca. E in una sorta di eco delle vicende pre-invasione della Libia, dalla Francia un Sarkozy in campagna elettorale ha ieri già tracciato un’ideale linea di confine della sopportabilità con un «quel che è troppo è troppo».

Lo spettro che si aggira oggi su tutte queste mosse è quello – infame – di Srebrenica, un nome non a caso pronunciato proprio da Marie Colvin nel suo ultimo intervento alla Bbc il giorno prima di morire. A Srebrenica in Bosnia nel luglio del 1995 ottomila civili, musulmani, vennero uccisi dal generale Ratko Mladic, sotto gli occhi delle forze Onu che non mossero un dito perché non avevano un mandato. Ad Homs oggi, come nei Balcani prima, l’immobilismo dell’Occidente, specie dopo la Libia, appare incomprensibile. Da ieri, dopo la morte di due testimoni di peso, diventa sempre più difficile guardare dall’altra parte.

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