Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria: è l'islam il vero pericolo analisi di Pio Pompa, Lucia Annunziata, Lucio Caracciolo. Cronaca di Paolo Mastrolilli. Udg intervista un odiatore di Israele
Testata:Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - L'Unità Autore: Pio Pompa - Paolo Mastrolilli - Lucia Annunziata - Lucio Caracciolo - Umberto De Giovannangeli Titolo: «Obama affida a Petraeus la missione di fare cadere Assad - L’assemblea Onu contro Damasco - Valzer diplomatici: nemici a Baghdad, alleati in Siria - La polveriera mediorientale - L’incubo della Siria ha un nome in codice: Opzione Sansone»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/02/2012, a pag. 3, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Obama affida a Petraeus la missione di fare cadere Assad ". Dalla STAMPA, a pag. 22, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " L’assemblea Onu contro Damasco ", a pag. 37, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo " Valzer diplomatici: nemici a Baghdad, alleati in Siria ", preceduto dal nostro commento. Da REPUBBLICA, a pag. 32, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo " La polveriera mediorientale ". Dall'UNITA', a pag. 32, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " L’incubo della Siria ha un nome in codice: Opzione Sansone ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Pio Pompa - " Obama affida a Petraeus la missione di fare cadere Assad "
Pio Pompa David Petraeus
Ancora una volta potrebbe essere l’attuale direttore della Cia, David Petraeus, a svolgere un ruolo cruciale nella sempre più intricata crisi siro-iraniana. Secondo fonti d’intelligence interpellate dal Foglio, è a lui che l’Amministrazione Obama avrebbe affidato il compito di replicare in Siria quanto sperimentato con successo contro al Qaida in Iraq. Il vantaggio dell’operazione contro il regime di Damasco consiste nella possibilità di dispiegare sul territorio siriano militanti sunniti provenienti dai Consigli del risveglio iracheni, dall’Arabia Saudita, dal Libano, dalla Tunisia e dalla Libia. Si tratta di combattenti perfettamente addestrati alla guerriglia urbana e all’uso di esplosivi. “E’ questa – affermano le nostre fonti – la guerra nascosta lanciata dagli Stati Uniti per destabilizzare il regime siriano e costringere Bashar el Assad a lasciare il potere al più presto. L’obiettivo dichiarato è di evitare qualsiasi coinvolgimento in iniziative militari sul modello libico, rese impraticabili dalla netta opposizione e ostilità del temibile asse russo-siro-iraniano”. Non a caso, Petraeus e gli strateghi militari di Washington considerano del tutto velleitario il piano d’intervento militare turco-arabo (con l’appoggio statunitense) proposto dalla Turchia. Inutile, secondo il Pentagono, sarebbe pure l’introduzione di una “no fly zone” sullo spazio aereo di Damasco. La convinzione delle autorità americane è che, a differenza di quanto accaduto in Libia, qualsiasi opzione militare nei confronti della Siria imporrebbe il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti con l’intervento di truppe a terra, scatenando conseguentemente un conflitto di incalcolabile portata. Tale scenario è stato più volte escluso categoricamente da Barack Obama, che ha preferito affidare a Petraeus il compito di fare il possibile per far avvicinare la caduta di Assad. Il direttore della Cia ha nelle ultime settimane ha predisposto in medio oriente un enorme dispositivo di intelligence, con centinaia di agenti impegnati a reclutare gruppi di miliziani sunniti da infiltrare in Siria (la Fratellanza musulmana giordana ha già invitato a combattere Assad con ogni mezzo). Sul New York Times del 12 febbraio, Tim Arango ha raccontato come un flusso crescente di armi stia giungendo in Siria dalla provincia irachena di Anbar e dalle aree circostanti Mosul, città situata a pochi chilometri dalla frontiera. Nel deserto occidentale dell’Iraq, spiega Arango, gli arabi sunniti si stanno organizzando per partecipare alla lotta dell’opposizione siriana, sfruttando i legami secolari tra le tribù dei due paesi. “Fornire le armi ai ribelli siriani è un dovere, Assad è un macellaio”, spiega lo sceicco Ali Hatem al Suleiman, tra i leader principali del Consiglio sunnita di Anbar. Petraeus sarebbe riuscito anche a coinvolgere nei suoi piani vari gruppi organizzati di militanti libanesi il cui odio per il rais di Damasco deriva dall’uccisione di Rafiq Hariri a Beirut nel febbraio 2005. Queste cellule sono disposte a tutto, e già si troverebbero in Siria con l’obiettivo di eliminare Bashar el Assad.
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " L’assemblea Onu contro Damasco "
Onu Bashar al Assad
L’Assemblea Generale dell’Onu ha condannato ieri a grande maggioranza il regime di Assad, approvando la risoluzione della Lega Araba che chiede le dimissioni del presidente siriano. Sul terreno, però, continua la repressione. Le forze fedeli al governo hanno bombardato Homs e altre città, mentre la polizia ha arrestato la blogger Razan Ghazzawi, diventata una delle icone della protesta. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha accusato Damasco di commettere crimini contro l’umanità.
La risoluzione è stata approvata con 137 voti favorevoli, 17 astenuti e solo 12 contrari, tra cui Russia, Cina, Corea del Nord, Iran, Cuba e Venezuela. Il testo riprende il documento bocciato il 4 febbraio scorso dal Consiglio di Sicurezza a causa del veto di Mosca e Pechino. Appoggia il piano della Lega Araba per risolvere la crisi, chiede la fine delle violenze, domanda l’avvio di una transizione democratica del potere da Assad ad un governo di unità nazionale. A questo scopo, sollecita Ban a nominare un inviato per la Siria. Le risoluzioni dell’Assemblea Generale non hanno il potere coercitivo di quelle del Consiglio di Sicurezza, ma sul piano politico il messaggio è netto: senza veti, la comunità internazionale è compatta nel condannare il regime di Assad. Se il Consiglio non ha approvato il testo del 4 febbraio, ciò è successo solo per la resistenza della Russia, che ha grandi interessi strategici in Siria dove vende armi per una cifra tra 2 e 3 miliardi di dollari, e l’opposizione della Cina, preoccupata dal fatto che simili provvedimenti possano essere adottati contro di lei per il trattamento delle sue minoranze. La risoluzione dell’Assemblea, quindi, raggiunge il risultato di dimostrare l’ampiezza della condanna internazionale, isolando tanto la Siria, quanto i suoi protettori. Il problema ora è come procedere.
Nei giorni scorsi la Lega Araba aveva chiesto l’invio dei caschi blu dell’Onu, ma per avviare una missione del genere è necessaria l’approvazione del Consiglio di Sicurezza e il consenso di Damasco. La Francia invece sta lavorando ad una risoluzione che consenta l’apertura di un corridoio umanitario, ma anche questa ipotesi richiederebbe l’uso della forza e i russi sono contrari. Parigi e Mosca stanno ancora discutendo, nella speranza di trovare l’accordo su una formula accettabile per tutti, mentre all’Onu gira la voce che il Qatar abbia offerto al Cremlino di investire in Russia un terzo del proprio bilancio dedicato agli armamenti, circa 100 miliardi di dollari, per convincerlo a cambiare posizione.
La Siria accusa i Paesi del Golfo di armare i ribelli, perché hanno interesse a colpire l’Iran favorendo la caduta di Assad, ma questo significa prendere una linea che è stata incoraggiata anche da Al Qaeda. Il dipartimento di Stato, però, ha risposto accusando ancora ieri la Russia e l’Iran di fornire armi ad Assad.
In attesa di sbloccare lo stallo, il 24 febbraio a Tunisi ci sarà la prima riunione degli Amici della Siria. Questa coalizione di Paesi contrari al regime di Assad potrebbe valutare nuove sanzioni, e un sostegno politico, economico e forse anche militare all’opposizione in esilio.
La STAMPA - Lucia Annunziata : " Valzer diplomatici: nemici a Baghdad, alleati in Siria "
Gli analisti occidentali, come Annunziata e Caracciolo, non sanno ancora che posizione prendere di fronte alla presunta primavera araba e alla situazione in Siria. Questo è quanto emerge leggendo i loro pezzi. In realtà, più che concentrarsi sulle alleanze del momento, sarebbe meglio rendersi conto che il vero e unico pericolo è l'islam e la sua espansione. L'islam è un'ideologia che non ha nulla a che vedere con la democrazia e va arginato. Ecco l'articolo:
Lucia Annunziata
Se qualcuno ricorda ancora il conflitto iracheno che solo fino a ieri ci ha lacerato, non avrà sicuramente dimenticato il nome di Falluja, cittadina redolente di sangue e polvere, il posto dove come messaggio agli occidentali vennero squartate quattro guardie del corpo americane, il luogo di imboscate e rapimenti, in altre parole il cuore, insieme a Ramadi, del triangolo sunnita che dopo la caduta di Saddam Hussein è stato il centro della resistenza e del terrorismo antioccidentale, e che l’Occidente ha sprecato sangue e uomini per conquistare. Falluja e Ramadi in apparente sonno da qualche tempo, hanno ora rimesso in moto le proprie strutture militari e militanti, in uno sforzo diretto questa volta non contro gli Usa, ma a favore di quella stessa resistenza contro il regime di Assad in Siria per cui si stanno impegnando Europa, Usa e Onu. Il che fa di noi occidentali, oggi, gli alleati di fatto dei «terroristi» che combattevamo ieri. L’ennesimo paradosso, l’ennesimo scherzo della storia che continua a provare che i nostri interessi in Medioriente sono sempre più forti di ogni nostra convinzione politica, e che le fratture etniche e religiose sono per i mediorientali efficaci strumenti di potere prima ancora che di fede.
Non esattamente una posizione comoda in cui stare, all’inizio di un nuovo capitolo diplomatico. Dopo il veto di Russia e Cina alla risoluzione Onu che chiedeva le dimissioni di Assad, gli Stati Uniti si sono concentrati nel creare un nuovo gruppo, «Amici della Siria», che opera fuori dall’Onu e di cui fanno parte Usa, europei, e le nazioni arabe contrarie agli Assad. Il gruppo si riunirà a Tunisi il 24 prossimo, giovedì, e l’Italia vi farà la sua parte, presiedendo per altro il 20 la riunione euromediterranea.
La storia di Falluja – raccontata due giorni fa sulla prima pagina del «New York Times», con il contributo di quasi tutti i suoi corrispondenti dai Paesi dell’area - segnala l’avvio di uno sviluppo molto pericoloso. Come scrivono molti analisti americani in merito alla crescente mobilitazione in Iraq, Libano e Giordania, intorno alla opposizione anti-Assad: «E’ sempre più chiaro che la guerra siriana sta diventando un conflitto regionale». Le indicazioni sono tante le bombe di Aleppo e Damasco, un’ondata di violenza nel Nord del Libano direttamente legata alle tensioni in Siria, e, non ultimi, i recenti appelli fatti sia dai leader di al Qaeda che da quelli dei Fratelli Musulmani della Giordania, ai jihadisti di tutto il mondo perché si mobilitino a favore dei resistenti siriani. Gli analisti americani avvertono che questo è appena l’inizio: «Come l’Iraq e l’Afghanistan prima, la Siria è destinata a diventare il terreno di addestramento di una nuova era di conflitto internazionale».
Noi occidentali appoggiamo dunque ora una rivolta che consideriamo una lotta di liberazione popolare a un tiranno, e ci ritroviamo al fianco dei sunniti pro Saddam, dei Fratelli Musulmani nonché di Al Qaeda. Ma quello che sembra un paradosso è solo l’ultimo illogico giro di valzer di un logicissimo giro di alleanze storiche. Se si segue infatti il profilo delle identità religiose, l’attuale linea di opposizione alla famiglia Assad non è affatto una sorpresa. Anzi. Quando si dice che la Siria è il potenziale gorgo mediorientale, si intende indicare proprio il fatto che al suo interno si ritrovano quasi tutti i frammenti del più grande quadro regionale.
Basta seguire le linee di scorrimento dei rapporti fra sunniti e sciiti nella regione. Val la pena di iniziare ricordando la composizione della Siria: i musulmani sunniti sono il 74 per cento dei 22 milioni di cittadini, seguono gli alawiti con il 12 per cento, i cristiani con il 10 per cento e i drusi con il 3. Gli Assad sono alawiti, una minoranza religiosa considerate eretica dai sunniti, senza essere davvero parte degli sciiti dalla cui tradizione gli alawiti si sono separati molto tempo fa.
Considerati nei fatti una vera e propria setta segreta nella credenza popolare, gli alawiti hanno costruito intorno a questa loro diversità e minoranza la struttura del potere siriano dopo il golpe che nel 1970 portò al potere Assad padre, costituendo il nucleo di comando dell’esercito e dell’apparto di sicurezza. Bisogna dire che non tutti gli alawiti sono con Assad e non tutti sono parte dell’élite del Paese: ce ne sono molti nelle popolazioni più povere sulle montagne, e ce n’è un nutrito gruppo anche in Turchia.
Gli uomini che da mesi sfidano le armi di Damasco sono dunque sunniti, come i sostenitori del regime di Saddam Hussein, che noi abbiamo combattuto. E infatti nella Prima Guerra del Golfo la Siria faceva parte della coalizione contro Saddam, con cui era sempre stata in competizione. Ma contro la famiglia Assad si schierano oggi anche Fratelli Musulmani e qaedisti in odio alla identità secolare e anti-islam radicale che ha sempre identificato Damasco. Il massacro di circa 20 mila musulmani perpetrato ad Hama nel 1982 dall’esercito guidato dal fratello minore di Hafez al Assad non è stato mai dimenticato dalle organizzazioni radicali islamiche.
Le simpatie per l’opposizione siriana in Libano sono altrettanto chiare, ma nel Paese dei cedri spirano direttamente nelle stanze del premier. Un premier sunnita, come da tradizione.
La Siria è sempre intervenuta nel Paese costiero, direttamente o indirettamente – dopotutto, fino al 1926 il Libano è stato parte della Siria post ottomana. Nel 1976 Hafez al Assad intervenne nella guerra civile libanese a sostegno dei cristiani maroniti, poi fece del Libano la sua base nello scontro con Israele, appoggiando nel Sud del Libano la radicale Hezbollah.
Nel 2005 quando lasciò il Paese l’esercito siriano vi contava ancora 17 mila unità. Negli anni recenti l’influenza di Damasco ha protetto la componente sciita, che costituisce il 28 per cento della popolazione ed è al governo sotto la bandiera politica di Hezbollah. Nella continua frizione interna che continua a tenere sull’orlo della guerra civile il Libano, il Paese è tenuto insieme da un fragile accordo che, in nome delle varie componenti religiose, indica che il capo del Parlamento sia sempre uno sciita e il capo del governo sempre un sunnita (come il 28 per cento della popolazione - ma le statistiche ufficiali in Libano non sono sempre quelle giuste). Il Presidente è cristiano. Ma la Siria se ne è sempre abbastanza disinteressata di questi accordi: l’assassinio del premier libanese Hariri pochi anni fa è stato infatti attribuito a Damasco.
Non è dunque strano che la vicenda siriana abbia di nuovo diviso in due la lealtà libanese, facendo di nuovo salire la fibrillazione interna.
La linea dei nostri alleati contro Assad oggi è dunque abbastanza curiosa – i sunniti al governo in Libano e i reietti sunniti pro-Saddam in Iraq, più Al Qaeda e i Fratelli Musulmani. A tutti loro va aggiunto il potente fronte delle monarchie sunnite del Golfo, con a capo l’Arabia Saudita.
Fatte tutte le analisi sugli schieramenti locali, l’ampiezza e la singolarità di questa catena di solidarietà intorno all’opposizione in Siria si spiega con l’identità del grande avversario che si staglia sullo sfondo di questa partita, l’Iran. Il Paese degli Ayatollah è il vero alleato di Assad e il vero nemico da sconfiggere intaccando il potere di Damasco. Quell’Iran che è uscito, senza volerlo, vero vincitore dalla Seconda Guerra del Golfo, grazie alla caduta di Saddam, e che oggi può cavalcare molte delle rivolte arabe. Le stesse cui intendono rivolgersi anche Al Qaeda e Fratelli Musulmani, entrati per questo essi stessi in aperta competizione con la eccessiva influenza iraniana.
Dopo un lungo giro, cosi, l’Occidente torna po’ alle vecchie alleanze sunnite (perciò a lungo Saddam era stato nostro alleato contro l’Iran) ma acquisisce anche alleati molto difficili da gestire. Mentre la Russia e la Cina restano paradossalmente ferme alla loro posizione di sempre, accanto all’ex regime socialista siriano e al più potente Stato petrolifero dopo l’Arabia Saudita, l’Iran.
La strada verso una nuova deflagrazione regionale sembra segnata.
La REPUBBLICA - Lucio Caracciolo : " La polveriera mediorientale "
Lucio Caracciolo
È opinione diffusa che l´Iran stia per dotarsi dell´atomica: conquista irrinunciabile, per cui Teheran è pronta a sfidare la coppia Usa-Israele con ogni mezzo. Posta così la partita, resta l´alternativa secca: Bomba iraniana o bombardare l´Iran. A uno sguardo più attento, però, il quadro appare assai sfumato. Il cuore della disputa non è l´atomica iraniana, ma l´egemonia dell´Iran in Medio Oriente: area dominata alla fine della prima guerra mondiale dalle potenze coloniali europee, dopo il 1945 dagli Stati Uniti e loro consociati arabi. Con la mal tollerata "entità sionista" come avamposto di Washington e il risorgente espansionismo turco alle porte. Per le ambiziose élite persiane, un mare di nemici e una fonte di frustrazione. Perché l´Iran ha da sempre una vocazione imperiale e mai vi abdicherà. Gli fa però difetto quell´arma nucleare di cui sono dotati tutti i primattori asiatici: Pakistan, India, Russia, Cina, Turchia (via Nato), Israele, Arabia Saudita (di fatto contitolare della Bomba di Islamabad) e Stati Uniti. Se l´atomica favorirà le aspirazioni di Teheran, dipenderà però molto dall´esito della guerra civile siriana: se al-Asad sarà travolto e a Damasco si affermerà una leadership assai meno filo-iraniana, Teheran perderà il corridoio diretto verso Libano, palestinesi e Mediterraneo. A ciò si aggiunge la lotta per il potere interna all´Iran, collegata alla depressione economica e al rischio di impazzimento della maionese etnica iraniana. Israele, intanto, si divide tra fautori di un attacco preventivo ai siti nucleari iraniani (il premier Binyamin Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barak) e quanti, a cominciare dal direttore del Mossad, Tamir Pardo, reputano tale attacco "un´idea folle". Non già per ragioni morali, bensì strategiche: i siti atomici persiani sono troppi e troppo ben protetti per essere annientati dall´aviazione. I danni di un attacco sarebbero riparabili in un anno, forse due. Dopo di che il programma nucleare riprenderebbe più forte e legittimato di prima, mentre Israele si esporrebbe alla rappresaglia iraniana. Quanto agli Stati Uniti, se non capiamo che la loro priorità è evitare il sorpasso cinese, ci sfugge l´essenziale. La mobilitazione dell´élite strategica americana nel contenimento della Cina implica il ridimensionamento dell´impegno su altri scacchieri. Europa, anzitutto. Ma anche Medio Oriente. Tuttavia, Obama non intende rassegnarsi ad allentare la presa su un´area doppiamente strategica, per difendere l´approvvigionamento energetico nazionale e per garantire la sicurezza di Israele (questioni assai sensibili nell´anno elettorale). Di qui le pressioni su Gerusalemme perché non esasperi la tensione con Teheran e l´inasprimento delle sanzioni, inteso non come preparazione alla guerra, ma come alternativa ad essa. Nonché la discreta riattivazione dei canali di comunicazione con Khamenei, tesa forse a indicare che l´America non esclude un accordo. Missione non impossibile, considerato che le batoste nella "guerra al terrorismo" e la sorpresa della "primavera araba" hanno indotto Washington a trattare con taliban e Fratelli musulmani. Comunque, se quarta guerra del Golfo sarà, difficilmente si esaurirà in breve tempo. Le tre precedenti (Iran-Iraq, Iraq-Kuwait-Stati Uniti e Stati Uniti-Iraq-insorti) furono lunghe e sanguinose. E un Israele convinto di essere alle corde potrebbe scatenare un conflitto dagli esiti imprevedibili. "Talvolta la follia spinge ad abbracciare il disastro per sfuggire all´ansia", osservò in piena guerra fredda Dean G. Acheson, uno dei saggi architetti del containment. In questo mondo, gli Acheson rischierebbero il manicomio.
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : "L’incubo della Siria ha un nome in codice: Opzione Sansone"
Rami Khouri
Rami Khouri, giornalista americano-libanese, ama definirsi 'palestinese'. E' noto per le sue posizioni anti israeliane. Per maggiori informazioni, invitiamo a leggere l'articolo di Giovanni Quer del 29/11/2010 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=350&id=37437. Khouri sarebbe un commentatore autorevole per le vicende del Medio Oriente? Per quale motivo è stato scelto da Udg come analista per la situazione in Siria? Forse per la sua ostilità a Israele? Per informazioni aggiuntive su Rami Khouri, invitiamo i lettori a scrivere il suo nome nella casella 'cerca nel sito' in alto a sinistra sulla home page di IC. Ecco il pezzo:
Nel vivo di una tragedia che ci consegna ogni giorno orrore e morte, la comunità internazionale, divisa al proprio interno, s’interroga sugli sviluppi della guerra civile in atto da undici mesi in Siria (oltre 6mila morti, tra cui centinaia di bambini).Adaiutarci nell’individuare i possibili scenari futuri è uno dei più autorevoli analisti mediorientali: Rami G. Khouri, direttore del quotidiano libanese Daily Star. Cinque scenari per una dramma senza fine. «Lo scenario più comune che ho sentito formulare - annota Khouri - è quello secondo cui le tensioni e le violenze continueranno per tutto l’anno fino a quando il collasso economico del Paese farà sì che alcune figure influenti all’interno del regime guidato dal presidente Bashar al-Assad compiranno un colpo di Stato, dopo aver perso la speranza che Assad possa trovare unasoluzione politica alla crisi. Tale colpo di stato sarebbe condotto da ufficiali militari alawiti e sunniti resisi conto della necessità di giungere a un accordo con i manifestanti e di avviare la Siria verso un percorso di democratizzazione politica seria, allo stesso tempo risparmiando agli alawiti una dura punizione dopo la caduta della famiglia Assad». Una variante di questo scenario - spiega il direttore del Daily Star - «vede un complotto interno per assassinare i leader del regime e porre immediatamente fine alla crisi». Unaltroscenario, ormai sempre menoprobabile, è che i russi riconoscano che l’approccio di Assad è destinato a fallire e rinuncino a utilizzare il diritto di veto per impedire che il Consiglio di sicurezza eserciti pressioni su Damasco». Secondo questo copione, la Russia convincerebbe Assad a dimettersi e a lasciare il Paese insieme ai membri del suo clan e alle loro ricchezze. «Una variante di questo scenario vede una combinazione di capi alawiti, ufficiali militari e grandi uomini d’affari decidere collettivamente che sarebbero tutti condannati a un tragico destino se le cose dovessero continuare così, e lavorare insieme per fare una delle due cose seguenti: progettare un colpo di Stato per imporre l’uscita di scena di Assad, o sedersi a un tavolo con lui e mettere in chiaro che essi, i pilastri che sostengono il suo regime, presagiscono la catastrofe, e perciò egli deve cedere il potere auna leadership democratica transitoria prima cheun crollo totale travolga il Paese». Ma tra gli scenari futuri c’è anche quello di una regionalizzazione del conflitto. Riflette in proposito Khouri: «Un’eventualità più drammatica è, secondo alcuni, che un certo numero di potenze regionali e globali imponga una no-fly zone e zone-cuscinetto lungo i confini settentrionali e meridionali della Siria. Questo potrebbe accelerare la defezione di decine di migliaia di soldati e civili, affrettando il crollo del regime dall’interno». «Questo processo potrebbe essere favorito ancor di più da un ulteriore deterioramento economico che colpirebbe tutti i settori della società, mentre più severe sanzioni internazionali - tra cui il blocco dei voli e delle transazioni bancarie con la Siria - determinerebbero una penuria di beni di prima necessità e un’inflazione galoppante che renderebbero impossibile la vita alla maggior parte dei siriani. Ciò consentirebbe anche di scatenare imponenti manifestazioni contro il regime nelle città di Damasco e Aleppo, che segnerebbero il destino degli Assad ». «Una possibilità ancora più drastica è che la polarizzazione della società siriana secondo le divisioni etniche e settarie, e una guerra civile totale, facciano giungere lo Stato unitario al punto di collasso, e che gli alawiti si ritirino sulle loro montagne per formare un proprio Stato nelle regioni alawite nord-occidentali». «Alcuni suggeriscono che sarebbe stato questo l’obiettivo della crisi fin dall’inizio, con attori esterni determinati a provocare conflitti interni tali da dividere la Siria in diversi staterelli, tra alawiti, drusi, curdi e sunniti. Ciò avverrebbe proprio mentre l’Iraq deve far fronte a un’analoga disgregazione con la possibilità che il Paese unitario lasci dietro di sé entità sunnite, sciite e curde». «A fomentare questo scenario vi sarebbero, naturalmente, Israele e l’America, il cui desiderio di egemonia sul Medio Oriente sarebbe grandemente facilitato dalla presenza di deboli staterelli su base etnica al posto degli attuali Stati arabi, certamente più grandi e più forti. In un simile scenario, Israele potrebbe rapidamente venire in aiuto di alcuni di questi staterelli di natura etnica - come già cercò di fare con alcuni gruppi libanesi negli anni 80 del secolo scorso - e quindi consolidare sia la frammentazione del Levante che il predominio israeliano su di esso». L’incubo più inquietante si cela nell’ultimo scenario: «Lo scenario più terribile - rileva Khouri - è quello secondo cui il deterioramento della situazione in Siria porterebbe il regime di Assad ad attuare la cosiddetta “opzione Sansone”, in base alla quale esso cercherebbe di fomentare conflitti e di creare il caos in tutta la regione, al fine di far precipitare l’intero Levante in una conflagrazione regionale». Questa opzione sarebbe basata sulla decisione degli Assad che, se essi non possono governare una Siria unificata, nessun altro nella regione riuscirà a vivere in pace e sicurezza. «Un tale scenario comporterebbe il tentativo di suscitare conflitti in Libano, Israele, Giordania, Turchia e Iraq, e potrebbe avere come esito l’uso di armi chimiche o addirittura nucleari». Una escalation che investirebbe anche l’Iran, grande alleato di Bashar al-Assad.
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