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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Corriere della Sera-Il Giornale Rassegna Stampa
04.02.2012 Tra realtà e indiscrezioni, l'unica cosa certa è l'arma nucleare
Articoli di Maurizio Molinari, Guido Olimpio, Vittorio Dan Segre

Testata:La Stampa-Corriere della Sera-Il Giornale
Autore: Murizio Molinari-Guido Olimpio.Vittori Dan Segre
Titolo: «Israele attaccherà l'Iran in primavera- L'attacco all'Iran già in primavera- E spunta l'incubo di una nuova Pearl Harbor»

La Stampa-Maurizio Molinari: " Israele attaccherà l'Iran in primavera "


Maurizio Molinari        Ahmadinejad scherza col fuoco

Il capo del Pentagono Leon Panetta prevede che Israele attaccherà l’Iran fra aprile, maggio e giugno, innescando da Teheran la replica di Ali Khamenei: «Se verremo aggrediti vi saranno conseguenze negative per gli Stati Uniti».

A rivelare il pensiero di Panetta è David Ignatius. L’editorialista del Washington Post è a Bruxelles a seguito del ministro della Difesa Usa e in un suo articolo scrive: «Panetta ritiene che sia molto probabile un attacco di Israele contro l’Iran in aprile, maggio o giugno, prima che l’Iran entri in quella che gli israeliani definiscono una "zona di immunità" dove poter cominciare a costruire la bomba nucleare». Tale «zona di immunità», spiega Ignatius citando Panetta, è legata al fatto che per Israele «gli iraniani avranno presto immagazzinato sufficiente uranio arricchito a grande profondità sotterranea per poter costruire la bomba ed a quel punto solo gli Stati Uniti potranno fermarli militarmente».

Israele teme dunque di perdere la propria deterrenza militare nei confronti dell’Iran e poiché la sua strategia di sicurezza nazionale si basa, dalla fondazione nel 1948, sull’autosufficienza, l’attacco sta per avvenire. Bersagliato di domande dai reporter sull’articolo del Washington Post, Panetta ha evitato di smentirlo limitandosi a dire «non faccio commenti». Aggiungendo però che «Ignatius può scrivere ciò che vuole ma quello che penso e credo rientra in un’area che appartiene solo a me stesso». Non si può escludere che le frasi di Panetta riportate da Ignatius siano frutto della recente visita a Washington di Tamir Pardo, il capo del Mossad. A svelare i colloqui segreti avuti da Pardo è stata Dianne Feinstein, presidente della commissione Intelligence del Senato, affermando durante un’audizione sull’Iran di averlo incontrato così come ha fatto David Petraeus, capo della Cia.

Nel corso di questa audizione, avvenuta mercoledì, il direttore nazionale dell’intelligence James Clapper ha avvalorato l’avvicinamento dell’Iran all’atomica: «I progressi tecnici, soprattutto nell’arricchimento dell’uranio rafforzano la nostra valutazione che l’Iran ha le capacità scientifiche, tecniche e industriali per produrre armi nucleari, dunque la questione centrale è la sua volontà politica di farlo». Proprio tali progressi tecnici sono stati al centro della visita in Israele di Martin Dempsey, capo degli stati maggiori congiunti, per colloqui con Ehud Barak, ministro della Difesa, sugli scenari militari relativi ad un eventuale attacco contro il programma nucleare iraniano. La maggiore preoccupazione di Washington riguarda la possibilità che Teheran reagisca lanciando attacchi, terroristici e missilistici, contro le truppe Usa dispiegate nel Golfo Persico oppure chiudendo la navigazione attraverso gli Stretti di Hormuz.

Ad avvalorare tali timori ci ha pensato ieri Alì Khamenei, il Leader Supremo della Repubblica islamica dell’Iran, affermando: «Attaccare l’Iran nuocerà all’America, in risposta alle minacce di embargo petrolifero e guerra noi abbiamo le nostre minacce per imporci al momento giusto». La terminologia, adoperata nel contesto del discorso del venerdì ai fedeli sciiti, mira a ribadire che l’Iran si sente in grado di lanciare una risposta militare se verrà attaccato. «Non ho paura di affermare che sosterremo e aiuteremo ogni nazione o gruppo che si vuole battere contro il nemico sionista», ha aggiunto Khamenei con un riferimento agli Hezbollah libanesi, il cui leader Hassan Nasrallah ha più volte affermato di disporre di un arsenale missilistico capace di colpire tutte le città israeliane, inclusa la metropoli di Tel Aviv.

Sui venti di guerra che spazzano il Medio Oriente è tornato a parlare Panetta in serata dalla base di Ramstein in Germania: «In questo momento la cosa più importante è mantenere l’unità della comunità internazionale per convincere l’Iran a non realizzare l’atomica, ma se loro faranno altrimenti noi abbiamo tutte le opzioni sul tavolo e saremo pronti a rispondere se dovremo farlo».

 Corriere della Sera-Guido Olimpio: " L'attacco all'Iran già in primavera "

WASHINGTON — Guerra di parole. Guerra psicologica. Con il timore che alla fine le sciabole — i missili — verranno sfoderate davvero. Il nuovo round sull'Iran è stato innescato dalle confidenze del segretario alla Difesa americano Leon Panetta al Washington Post. «Israele — ha scritto il bene informato David Ignatius — potrebbe colpire in aprile, maggio o giugno». Affermazione alla quale ha replicato, in modo indiretto, la Guida iraniana Ali Khamenei, sempre a suo agio quando l'atmosfera è calda. «Le sanzioni non avranno alcun impatto — ha affermato —. E alle minacce risponderemo con le nostre minacce. A tempo opportuno. Ogni attacco costerà agli Usa dieci volte tanto». Poi lo scontato no a fermare i piani nucleari e la promessa di aiuti a coloro che si battono contro il «cancro sionista», un riferimento a movimenti come l'Hezbollah libanese e la Jihad a Gaza.
Khamenei, come prevedibile, ha retto il gioco in questo estenuante duello a distanza. Lui è un falco e sa ciò che vuole. Ma i suoi generali si saranno messi a discutere sulle notizie comparse sul quotidiano americano. Oltre alla data generica, Ignatius ha aggiunto altri elementi. Primo. Gli Usa vorrebbero stare fuori dal confronto, ma potrebbero essere costretti a soccorrere l'alleato o a reagire ad eventuali attacchi nel Golfo. Secondo. Israele è pronto a fare da solo e ritiene che 4 o 5 giorni sarebbero sufficienti per creare danni ai siti iraniani. Ma l'attacco dovrebbe avvenire entro l'estate perché altrimenti gli iraniani avranno il tempo di far sparire tutto in bunker troppo profondi per le pur potenti bombe. Terzo. L'annullamento delle previste manovre congiunte Usa/Israele sarebbe dovuto proprio alla concomitanza di una possibile azione nei cieli dell'Iran. Quarto. Il governo israeliano non ha ancora deciso cosa fare, anche perché molti esponenti dell'intelligence sono contrari.
L'ipotesi di una «sorpresa» a primavera non è una novità. E nell'ultima settimana sono apparse diverse indicazioni in questo senso, compresa una lunga analisi sul New York Times a firma di un giornalista israeliano per il quale l'opzione militare è inevitabile. Il reporter spiega anche che le affermazioni forti da parte di Gerusalemme sono una mossa per dare l'immagine di un Israele «imprevedibile e pronto a tutto». Ma forse non ve ne è bisogno. Washington lo sa bene e ha cercato di frenare — almeno a livello ufficiale — un blitz. Ieri alcuni osservatori sottolineavano che le parole di Panetta erano un altro passo per avvertire Teheran che «tutte le opzioni sono sul tavolo» e convincere la diplomazia internazionale che solo sanzioni dure (seguite da un eventuale negoziato) possono evitare il conflitto. Del resto è poco credibile che gli Usa forniscano a Teheran dritte sulle intenzioni di Israele. A meno che — interpreta qualche dietrologo — non siano anche un segnale all'alleato irrequieto. E rientrano sempre nella «campagna di ammonimento» i report americani sulle attività clandestine dell'Iran.
L'ultimo — che rilancia una vecchia storia — accusa il regime di aver ridato piena libertà di movimento a un buon numero di capi qaedisti che avevano trovato rifugio nel Paese dopo l'11 settembre. Questi esponenti jihadisti potrebbero ripagare il favore dimenticando le divisioni sciiti-sunniti per colpire il nemico comune, gli Usa. Altri possono invece organizzare attentati contro i Paesi del Golfo — dall'Arabia Saudita agli Emirati — che fiancheggiano Washington nella campagna di contenimento.

Il Giornale-Vittorio Dan Segre: " E spunta l'incubo di una nuova Pearl Harbor"


Pearl Harbor, ovvero fine dell'isolamento Usa, il mondo era salvo

Reza Kahlili è lo pseudonimo di un agente della Cia che era riuscito ad infil­trarsi nelle Guardie rivoluzionarie irania­ne. Il Washington Times Magazine ha pub­blicato il 27 gennaio un suo lungo articolo in cui racconta come Teheran non solo si sforzi di creare un ordigno nucleare ma che possiede almeno un paio di ordigni (oltre a 1000 missili in parte puntati sulle basi americane nel Medio Oriente e Euro­pa) che avrebbe ottenuto grazie alla me­diazione di Abdul Kader Khan, il padre della bomba pakistana.
Questo darebbe credito alla minaccia formulata l’anno scorso dal giornale Kayhan secondo la quale l’Iran,se attacca­to, potrebbe colpire infrastrutture - dice Kahlili- di 310 milioni di americani. Cata­strofica o no una previsione del genere, è per lo meno inusuale che il quotidiano sta­tunitense pubblichi in prima pagina da Tel Aviv un dettagliato rapporto sulle di­scussioni in corso al più alto livello politi­co israeliano sulla necessità «esistenzia­le » di lanciare un attacco contro le struttu­re atomiche iraniane, con o senza l’accor­do di Washington. L’essenza di questo rapporto (che dalla prima pagina si esten­de ad una intera pagina interna) è che la decisione risiede oggi nelle mani di tre per­sone: il premier Netanyahu e il ministro della difesa Barak, entrambi convinti che occorre agire visto la lentezza dell’applica­zione delle sanzioni da parte dell’Ameri­ca e dell’Europa e il Capo di stato maggio­re generale Gantz, ex addetto militare a Washington, che a un attacco del genere ancora si oppone. È su questo generale (se­condo l’articolo firmato da Ronen Berg­man, giornalista israeliano specializzato nelle questioni militari) che sono dirette le pressioni americane per prevenire l’azione israeliana. Significativa la scritta lasciata la settimana scorsa dal Capo di sta­to maggiore americano generale Demp­sey, nel libro dei visitatori d’onore del mo­numento all’Olocausto - Yad va Shem- di Gerusalemme. Sottintendendo «non at­taccate », il generale afferma: «Ci occupe­remo noi a che voi non siate minacciati da un secondo Olocausto». Il punto è che Ne­tanyahu e Barak non ci credono. Respin­gono l­’idea ventilata a Washington e in Eu­ropa di un possibile coesistenza di un Iran armato di bomba con Israele anche lui do­tato di armi nucleari. Teheran mettereb­be infatti in moto una corsa all’armamen­to nucleare in Arabia Saudita e in Egitto che distruggerebbe le potenzialità di dife­sa preventiva di Israele.
Obama sta inviando messaggi sempre più pesanti e specifici a Netanyahu per metterlo in guardia contro l’eventuale de­c­isione di attaccare l’Iran nella convinzio­ne che le sanzioni economiche adottate dall’America e dall’Europa rallenteranno
il processo di nuclearizzazione militare di Teheran (l’accettazione iraniana di una vi­s­ita di ispettori dell’Agenzia internaziona­le atomica nei suoi siti nucleari parrebbe confermare questa tesi). Ma in Israele non solo si dubita dell’effetto delle sanzio­ni ma si­pensa che potrebbero avere un ef­fetto contrario. Anche se le condizioni so­no differenti lo strangolamento dell’eco­nomia iraniana potrebbe portare a una nuova «Pearl Harbor». L’attacco giappo­nese contro la base navale americana nel 1941 fu infatti dettato dalla combinazione del nazionalismo nipponico col bisogno di Tokyo di rompere l’accerchiamento economico. Se è vero, come alcuni credo­no, che il regime di Teheran sia vicino alla creazione della bomba (o forse ne ha già un paio a disposizione) l’azione militare diventerebbe un interesse comune di Ge­rusalemme e Washington. Il problema at­tuale per l’America sembra però sapere cosa passa nella testa di Netanyahu per il quale il pericolo rappresentato dall’Iran è superiore solo a quello di una rielezione di Obama alla presidenza.

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