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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
03.02.2012 Afghanistan: a che cosa porterà la strategia di Obama ?
Cronaca di Paolo Mastrolilli, analisi di Daniele Raineri

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Paolo Mastrolilli - Daniele Raineri
Titolo: «Se Washington libera i taleban da Guantanamo - La morte della dottrina Petraeus»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/02/2012, a pag. 16, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Se Washington libera i taleban da Guantanamo ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "La morte della dottrina Petraeus" .

Se questi sono i frutti di quattro anni di politica di Obama, stiamo freschi. La situazione in Afghanistan si risolverebbe trattando coi talebani?
Ecco i due articoli:

La STAMPA - Paolo Mastrolilli: " Se Washington libera i taleban da Guantanamo "


Guantanamo

Gli Stati Uniti si preparano a liberare cinque detenuti di Guantanamo, per favorire le trattative di pace in corso con i taleban. La notizia, rivelata ai media americani da una fonte parlamentare anonima, sta già generando polemiche, il giorno dopo l’annuncio del capo del Pentagono Panetta che ipotizza di anticipare al 2013 il ritiro dall’Afghanistan delle truppe da combattimento. Speranza rafforzata dalle dichiarazioni di ieri del Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen: «La nostra missione di combattimento finirà l’anno prossimo». Scenario cui si è unito il ministro della Difesa italiano Di Paola. Nelle settimane scorse l’inviato di Washington Marc Grossman ha cominciato a discutere con i taleban la possibilità di trovare una soluzione politica al conflitto in corso da 11 anni. Lo scopo è un’intesa che favorisca la convivenza tra i gruppi rappresentati dal governo Karzai e la guerriglia. Questo consentirebbe agli americani di ritirare le truppe e chiudere l’intervento cominciato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Tra le condizioni poste dai taleban per avviare la trattativa c’è la liberazione di 5 detenuti di Guantanamo, che loro stessi hanno indicato, e il governo Usa avrebbe avviato le pratiche per trasferire questi prigionieri in un Paese terzo. Una volta arrivati, i primi tre sarebbero rilasciati come segno conciliatorio per far partire i colloqui, e gli altri due rimarrebbero in prigione, per essere liberati solo dopo la conclusione positiva del negoziato. Il portavoce della Casa Bianca Tommy Vietor ha confermato gli sforzi diplomatici in corso, ma ha smentito che l’amministrazione abbia già mobilitato le risorse per trasferire i cinque detenuti da Guantanamo. Secondo i repubblicani si tratta di un «atto di disperazione». L’opposizione accusa il governo di fare concessioni rischiose, solo per aprire la strada al ritiro che serve al presidente Obama in chiave elettorale. I cinque detenuti, infatti, erano stati inseriti in una lista di prigionieri troppo pericolosi per essere liberati, mentre proprio ieri è stato pubblicato il contenuto di un rapporto segreto della Nato, secondo cui i taleban si dicono sicuri che alla fine riconquisteranno il Paese. La Nato ha ridimensionato il significato del rapporto, dicendo che si tratta solo di opinioni raccolte tra alcuni prigionieri. Resta però il dubbio che l’amministrazione, con la sua trattativa, stia puntando solo ad ottenere un «decente intervallo» tra il ritiro dall’Afghanistan e il ritorno al potere dei taleban.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " La morte della dottrina Petraeus "


Daniele Raineri, gen. David Petraeus

Poco più di due anni dal suo culmine sono bastati, e la dottrina militare della counterinsurgency è passata da essere l’argomento più figo, scintillante e irresistibile di Washington al secchio della spazzatura. La sua star, il generale David H. Petraeus, che girava i mercati dell’Iraq da Baghdad a Ramadi per dimostrare che quello che conta è esserci fisicamente, stare in mezzo alla popolazione, mangiare cosce di pollo con le mani e ingollare tazze di chai, il tè – ah quante tazze di tè ci tocca bere, era il lamento sussiegoso della nuova generazione di ufficiali americani, “ma si sa, il successo della counterinsurgency si misura dagli ettolitri di tè che hai bevuto” – e camminava senza l’elmetto, senza gli occhiali scuri e senza il giubbetto antiproiettile per stabilire un contatto immediato e di fiducia con i locali, ecco, fisicamente non c’è più: la star è stata richiamata dietro a una scrivania a Langley, in Virginia. Il generale congedato oggi è direttore della Cia e quindi, per ironia della sorte, lavora direttamente al servizio della dottrina rivale: niente counterinsurgency, ma counterterrorism.
La differenza tra queste due scuole di pensiero e di azione è cruciale e nel 2009 ha spaccato Washington su fronti opposti. Niente più strategia onnicomprensiva su larga scala, niente più nation building e vittoria sui cuori e sulle menti della gente per allontanarla dagli estremisti, niente più arruolamento di milizie locali, niente più fucina araba o afghana che forgia un nuovo esercito con i dollari americani, niente più governo locale affidabile con cui suggellare un’alleanza strumentale alla stabilizzazione a breve termine e quindi alla vittoria finale. Vince l’impegno ridotto: soldati a casa, pochi dollari e via libera ai bombardamenti mirati con i droni – che negli ultimi due anni sono decuplicati – e agli interventi sporadici delle forze speciali – che stanno diventando il marchio del successo militare dell’Amministrazione Obama, da Abbottabad alla Somalia. Il bello è che nel 2009 lo schieramento della counterinsurgency aveva prevalso sui rivali, dopo un tempo di riflessione del presidente Obama che a molti era parso immenso, persino dannoso mentre si era nel mezzo di una guerra da combattere. Molti difesero la durata dell’attesa e dissero: è la decisione che modellerà il resto della guerra, la scelta tra la vittoria e la sconfitta, che si prenda pure il tempo che serve. Una volta imboccata la strada, sarà percorsa fino in fondo.
Tra i perdenti del 2009 ci fu anche il vicepresidente, Joe Biden, fautore della strategia “light”, che però all’epoca era stato appena eletto e dentro l’Amministrazione faceva ancora la figura del gaffeur, oppure la parte più rispettabile dell’avvocato necessario, che ti presenta con chiarezza tutti gli argomenti, anche quelli contrari, prima che tu faccia la scelta; assolutamente imparagonabile per profondità di pensiero e caratura marziale alla squadra dei duri, ai COINdinistas – come erano chiamati i profeti della counterinsurgency – gente che aveva stabilizzato quel casino inguardabile che era diventato l’Iraq, aveva ancora la polvere addosso ed era poco disposta ad ascoltare – se non con la cortesia cerimoniosa dovuta ai nuovi interlocutori di Washington – altra gente che non aveva mai vinto una guerra. Anzi: fosse stato per il senatore democratico Obama il surge in Iraq, ovvero l’aumento di soldati che fu decisivo, non ci sarebbe mai stato. Lui si era dichiarato contro. Entrambe le parti lo sapevano. I COINdinistas (una crasi tra COIN, sigla militare per la counterinsurgency, e i sandinisti, gli irriducibili marxisti del Nicaragua che fecero crollare il regime di Somoza) per un attimo furono – e qui si prende in prestito la definizione che girava a Washington – il gruppo di ragazzi più fighi della scuola, quelli con cui tutti volevano giocare.
Questa è la lista breve. Petraeus. Il suo allievo generale Stanley McChrystal, misterioso comandante delle forze speciali folgorato dalla nuova dottrina sulla via di Baghdad. John Nagl, coautore assieme a Petraeus del manuale militare che spiega come si combatte secondo la nuova dottrina. David Kilcullen, un rubizzo ufficiale di fanteria e antropologo australiano che impersonò al meglio il carattere ibrido della counterinsurgency, metà soldato metà intellettuale, metà un film d’adrenalina come “The Hurt Locker” metà un saggio d’antropologia densa come “Tristi tropici”. Andrew Exum, un ex ranger delle truppe speciali diventato membro dello Cnas, il pensatoio di politica estera di Obama, diventato seguitissimo sul web con il nomignolo Abu Muqawama, e per un certo tempo al servizio di McChrystal come suo consigliere in Afghanistan. Andrew Krepinevich, autore di un lungo saggio di guerra, “The Army and Vietnam”, che è diventato un classico sul fallimento del pensiero militare convenzionale negli anni Settanta e autore anche di un articolo seminale su Foreign Affairs sulla guerra in Iraq e la counterinsurgency.
Ai COINdinistas nel loro momento di massimo fulgore era semplicemente impensabile dire di no, perché erano i protagonisti del rovesciamento della situazione in Iraq, un esempio di epopea americana: gli Stati Uniti sono entrati in Iraq, hanno combinato un guaio disastroso ma hanno saputo trovare le risorse intellettuali, di temperamento e materiali per metterci una pezza. Tanto che l’alone di intoccabilità del gruppo di Petraeus – a proposito: non c’è giornalista che non gli abbia strizzato l’occhio con una domanda su una sua prossima candidatura alla presidenza – ha finito per guastarli. Subito dopo avere ottenuto quello che chiedevano dalla Casa Bianca, più uomini e più fondi per vincere (anche) in Afghanistan, hanno imboccato la parabola discendente. La prima sconfitta è arrivata con la cacciata di McChrystal, maggio 2010, dopo che il quindicinale di musica Rolling Stone ha pubblicato un ritratto micidiale, in cui tutto lo staff era descritto mentre si prendeva gioco del potere politico a Washington come e peggio di un gruppo di studenti in gita. Senza pudori, davanti all’inviato. McChrystal in realtà non c’entra, lui fu cauto anche in quell’occasione e in fin dei conti stava soltanto applicando una delle regole di Petraeus, tenere ottimi rapporti con la stampa, portarla dalla propria parte esattamente come si fa con una tribù afghana. Si trattava di essere pop, un po’ più dei soliti generali di legno a cui erano abituati i lettori di giornali. Michael Hastings, l’autore del ritratto, ricorda che quando si presentò a McChrystal, nella hall di un albergo a Parigi, il generale gli chiese a bruciapelo: “Sarò almeno sulla copertina?”. “It’s between you and Lady Gaga”. “Ve la battete lei e Lady Gaga”.
Un mese dopo era a Washington a rassegnare le dimissioni. Esserci: era il primo comandamento della counterinsurgency, ripetuto in infiniti decaloghi distribuiti agli ufficiali prima che partissero per l’Iraq e l’Afghanistan. Esserci altrimenti il nemico ti frega, gira indisturbato, prende contatto con la gente, la porta dalla sua parte, si mescola, impone la sua visione delle cose, ti prepara trappole mentre tu non ci sei. Alla fine è una regola buona anche per la guerra incruenta che si combatte tra la Casa Bianca, il Pentagono, il Congresso, per chi riesce a prevalere con i propri suggerimenti all’orecchio del presidente su quelli degli altri. Petraeus, McChrystal, le altre star della dottrina e soprattutto il segretario alla Difesa Bob Gates, passato dall’Amministrazione Bush a quella Obama per quel riconoscimento di superiore esperienza che ha fatto il successo dei COINdinistas e che da oppositore riluttante si trasformò nel loro protettore, non ci sono stati più, non a sufficienza. Quello da counterinsurgency a counterterrorism era uno spostamento tettonico già in corso da tempo e mercoledì è arrivato il segnale definitivo. “The funding is going to largely determine the kind of force we can sustain in the future”, ha detto ai reporter il segretario alla Difesa americana, Leon Panetta, sull’aereo che lo portava a Bruxelles per un altro meeting con i poco convinti alleati Nato. “Il nostro impegno in Afghanistan sarà in gran parte determinato da quanti fondi avremo”. Faremo quello che potremo, dipende dai soldi a disposizione e non aspettatevi che siano molti.
L’esatto contrario del secondo comandamento di Petraeus, “Money is ammunition”, i soldi sono munizioni, si vince spendendo denaro. Sono passati cinque anni dal gennaio 2007, da quando il presidente Bush telefonò a Petraeus e gli chiese di prendere il comando dei soldati in Iraq e di applicare la sua teoria sul campo e lui che era al volante su un’autostrada di Los Angeles con moglie e figlio grande dovette accostare nel parcheggio di un supermercato per rispondere con più concentrazione. Ora la morte della dottrina ha bisogno del suo araldo e allora chi più titolato di Michael Hastings, il corrispondente di guerra che ama mettere in mezzo Robert Capa (“we get more drinks, more girls and a better pay”) e che ha inferto il colpo iniziale al gruppo con lo scoop su Rolling Stone? Non è il reporter da embed più bravo che c’è in circolazione, o il più esperto, ma il suo stile vagamente ribelle e i suoi aneddoti funzionano (sapete qual è il nome in codice del presidente Karzai? “Grey wolf vagina”, per la bustina di pelliccia che porta tradizionalmente sul capo). Hastings ha dilatato il pezzo fortunato su Rolling Stone fino a farlo diventare un libro, “The operators”, appena uscito, che spiega ai nemici di Petraeus e della counterinsurgency che cosa devono pensare e dire.
Un capitolo s’intitola “Breve storia di un’idea orribile”. Racconta che la dottrina non è un’idea nuova, ma piuttosto il ripescaggio di una teoria fallimentare elaborata negli anni Cinquanta da un ufficiale francese, David Galula, durante un’altra delle guerre perse consecutivamente da Parigi, prima la Seconda guerra mondiale, poi quella d’Indocina e infine quella in Algeria. Hastings scrive che gli unici a raccogliere il pensiero di Galula furono gli ufficiali astiosi che accusavano il governo di essere stato troppo molle, di essersi ritirato senza onore davanti agli arabi, i fascisti dell’Organisation de l’Armée Secrète, Oas, legati ai fascisti di mezz’Europa, e responsabili di torture contro gli algerini (fate la guerra come i francesi, anzi come i fascisti francesi: sentite come suona male?).
Senza nessuno che l’ascoltasse in patria, Galula trovò ascolto in America, dove divenne amico di Henry Kissinger e dove propose la sua COIN, che finì per essere adottata assieme un’altra varietà di strategie dannate durante la guerra del Vietnam. “Dopo tre milioni di vietnamiti morti, e 58.195 soldati americani uccisi, gli Stati Uniti si ritirarono dal sud-est asiatico e la counterinsurgency divenne un nome maledetto” – scrive Hastings – e fu sostituita completamente dalla dottrina Powell, dal nome del generale e futuro segretario di stato Colin Powell: Washington dovrebbe impegnare le sue truppe soltanto in conflitti limitati, con una strategia d’uscita chiara e una superiorità di forze schiacciante. “Ora – scrive l’uomo che ha fatto dimettere McChrystal – ci hanno lasciato con la stessa cornice strategica ispirata ai fallimenti della Francia in Algeria, da una guerra imperiale nelle Filippine, dalla guerra coloniale britannica in Malesia e dall’umiliazione in Vietnam. Nessuno contesta i suoi fautori – sono convinti che funzioni. Il generale McChrystal tiene i libri di Galula sul comodino”. L’America divora periodicamente il suo establishment e il suo pensiero dominante. La ristrettezza di budget sta tagliando le gambe alla rivoluzione militare più importante del decennio e i giornalisti colpiscono duro. Il problema è che il nemico, in Afghanistan e altrove, non devia e non intende cambiare letture.

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