Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 27/01/2012, a pag. 27, l'articolo di Giorgio Israel dal titolo " Negare, banalizzare, sacralizzare. I tre errori che oscurano la Shoah ". Dal FOGLIO, a pag. 2, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " No a riti della memoria, uccidono l’Olocausto. Libro-choc di Rosenfeld ". Dalla STAMPA, a pag. 33, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Auschwitz, l'antidoto è il silenzio ", a pag. 34, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Ma l’Olocausto non è misura di tutte le cose ". Da REPUBBLICA, a pag. 51, l'articolo di Tzvetan Todorov dal titolo " La donna che ha riscritto il lager ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Giorgio Israel : " Negare, banalizzare, sacralizzare. I tre errori che oscurano la Shoah "



Giorgio Israel Valentina Pisanty-Abusi di memoria
In occasione del Giorno della Memoria2012 Valentina Pisanty pubblica Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori) in cui identifica gli abusi di memoria nei meccanismi della negazione, banalizzazione e sacralizzazione della Shoah. Pisanty accenna ai limiti della Giornata, spesso intrisa di «retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente» e di «derive banalizzanti e sacralizzanti »,dovute all’aver legato la Shoah alla categoria( soggettiva) della memoria anziché aq uella( tendenzialmente intersoggettiva) della storia. Banalizzazione e sacralizzazione sono facce della stessa medaglia: la prima spoglia la Shoah «dei suoi attributi specifici per equipararla ad altri eventi che hanno insanguinato la storia del XX secolo»; la seconda la proietta in «una dimensione metafisica e ultrastorica». È una tesi che condivido. La enunciò per primo Alain Finkielkraut trenta anni fa, sostenendo che l’idea dell’unicità del «genocidio» ebraico avrebbe creato un corteo di «aspiranti» miranti a ottenereil «privilegio»dellostatodivittima suprema. L’ho sviluppata criticando la tesi dell'unicità della Shoah, vista come evento metafisico e astorico, nel libro Laquestioneebraica oggi e in tanti articoli. Ho sostenuto che è legittimo istituire confronti storici tra la Shoah ed eventi comparabili come il Gulag sovietico. Tutto ciò mi è costato (anche di recente) critiche veementi da parte dei «sacralizzatori ». È quindi con divertita sorpresa che vedo arrivare l’attacco opposto: Pisanty mi presenta come «sacralizzatore»,per un articolo pubblicato sul Giornale (15 febbraio 2011) in cui criticavo episodi di banalizzazione: l’uso dello slogan Se non ora quando (titolo di un celebre librodiPrimoLevi) da partedei «partigiani antiberlusconiani»; il corteo degli insegnanti che sfilarono con la stella gialla contro la riforma Gelmini.
Il meccanismo critico «semiologico » di Pisanty è interessante. Si scarta in nota il fatto che esistano miei scritti in cui critico la sacralizzazione: conta solo l’articolo sul Giornale . E si fa un’operazione di ricostruzione degli «spazi vuoti di cui il testo è intessuto » per sostenere che «non è di banalizzazione che si sta discutendo ma di una colpa di lesa sacralità della memoria». La mia tesi sarebbe che il«nocciolo dell’identità ebraica è lo scontro eroico con un nemico immensamente più potente ». Che tale tesi non mi appartenga affatto non conta:essac’è,«siapureinformaimplicita e “tecnicizzata”» (?) negli «spazi vuoti»e usa«gli stessi meccanismisacralizzantichel’autorealtroverespinge ».Unaseriediarditeacrobazie sugli spazi vuoti mi attribuisce pure la sacralizzazione di «resistenza e sionismo assieme alla Shoah »… Inoltre, conferirei solo ai sostenitori dell’attualepoliticaisraelianaildiritto di usare lo slogan di Levi. Si concludeconlareboantecondanna: «interpretazioneinsostenibilesenonfrancamente scandalosa ».
Viene da ridere leggendo che, per attribuirmi queste tesi, «gli impliciti da riempire per dare un senso coerente al testo si moltiplicano», che «le inferenze necessarie sono al di sotto della consapevolezza critica» e la mia sacralizzazione non è forse «neppure intenzionale. Ma è più che altro malinconico che l’autrice non si renda conto che il meccanismo messo in atto - ignorare il pensiero altrui nel suo complesso, appuntarsi su un singolo testo, «riempiendolo » del senso voluto, anche contro l’evidenza - appartiene alla metodologia inquisitoria di tutti i tempi.
Il senso del mio articolo - che lo rende del tutto coerente con la critica della banalizzazione e sacralizzazione come facce della stessa medagliasta proprio nell’aver criticato la pretesadistabilireognisortadicomparazione. Chi ha un minimo di senso storico può comparare la Shoah con «altrieventichehannoinsanguinato la storia del XX secolo », come il Gulag, ma non includere tra questi lariformaGelminieilgovernoBerlusconi. Più che la storia ne va di mezzo il buon senso. Pisanty, invece di leggere questa tesi ne ha costruita una ad hoc. Cosa l'ha spinta a una simile figuraccia? Viene da chiedersi: sequalchecategoriasgradita,unpo’ «reazionaria» - che so io, i tassinarifosse scesa in piazza con la stella di David e avessi scritto lo stesso articolo contro questa banalizzazione (di certo l’avrei fatto),Pisanty mi avrebbecriticatoallostessomodo? Sospetto che mi avrebbe addirittura lodato. Ma qui mi fermo, perché non intendo scendere sullo stesso terreno di un metodo che riempie gli spazi vuoti con una mediocre psicanalisi. Preferiscoilmetododell’analisistorica, il riferimento all’integrità del pensiero altrui, il diritto di chiunque a criticare chiunque (inclusi i governi di Israele); incluso quello di criticare come indecenza banalizzante/ sacralizzante l'omologazione dei «partigiani»e degli insegnanti antiberlusconiani alle vittime di Auschwitz,senzal’assurdodivedersi ritorta l’accusa che si sta muovendo. Di certo, attorno al Giorno della Memoria la confusione cresce, il che, con i tempi che corrono, è assai preoccupante.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " No a riti della memoria, uccidono l’Olocausto. Libro-choc di Rosenfeld "



Giulio Meotti, Alvin Rosenfeld, The end of the Holocaust
Roma. “La morte di milioni è stata trasformata in intrattenimento popolare e in una forma di liturgia teologica, persino in una banale piattaforma di educazione civica”. Alvin Rosenfeld, storico americano dell’Università dell’Indiana e pioniere di fama negli studi sull’antisemitismo, è durissimo con i guardiani della memoria dell’Olocausto. Ha scritto un libro, “The end of the Holocaust”, la fine dell’Olocausto, per denunciare e sviscerare la “volgarizzazione”, la “banalizzazione” e i rischi dietro a questa dittatura della memoria. Il professor Arnold Ages sul Jewish Tribune ha così commentato il libro: “Manca una categoria fra i premi Nobel, ovvero la critica culturale e intellettuale. Se questa categoria esistesse, l’opus magnum di Alvin Rosenfeld meriterebbe certamente questo premio Nobel”. Nelle pagine del libro ricorre spesso la figura di Anna Frank, la ragazzina di Amsterdam autrice del celebre “Diario” e assurta a simbolo della Shoah. Rosenfeld scrive che Anna Frank è stata oggetto di una “mistica della vittimizzazione”, ne è stata fatta una “santa laica” e un’icona della “bontà umana”. Secondo Rosenfeld, “la continua evocazione di Anne Frank come metafora di altri eventi ha trasfigurato la sua storia fino al punto che è stata privata di ogni base storica”. “Il termine ‘Olocausto’ è diventato plastico e senza significato”, è stato “americanizzato”, perfino “de-giudaizzato”, ovvero svuotato del suo carattere religioso specifico della distruzione del giudaismo europeo. Rosenfeld attacca il film “Schindler’s List” di Steven Spielberg, perché a suo dire descrive “gli ebrei come figure irreali, vittime passive o venali collaboratori”. Rosenfeld riprende qui la critica durissima che anche il più importante e controverso storico della Shoah, Raul Hilberg, rivolse al blockbuster hollywoodiano: “Non è un film sullo sterminio degli ebrei. E’ la storia di una persona, scandita da inesattezze. Ci vuole ben altro per raccontare l’annientamento di un popolo”. Il libro decritta la martellante “retorica di pubblica e vuota pietà” che ha fatto sì che l’enormità della Shoah venisse alla fine “disumanizzata”. Una memoria vuota, “placida”, universale, facilmente politicizzabile a fini antiebraici. Un tema enucleato anche da “The Holocaust and Collective Memory”, il libro di Peter Novick in cui ha avvertito: “La memoria ha sensibilizzato e desensibilizzato”. Sempre più consistenti gruppi militanti di minoranza (gay, afroamericani, latinos, indiani, senza tetto, animalisti e malati di Aids) si sono appropriati facilmente dell’Olocausto. Secondo Rosenfeld si tratta di operazioni “revisioniste per esprimere il senso di ‘oppressione’ e ‘vittimizzazione’”. Un fenomeno particolarmente evidente negli Stati Uniti: “Il linguaggio dell’‘Olocausto’ è usato da coloro che vogliono attirare l’attenzione sui crimini, gli abusi e le presunte sofferenze che costituirebbero i mali sociali dell’America. Qualunque male che si abbatte su altri esseri umani è diventato ‘un Olocausto’”. “Più diventa mainstream, più l’Olocausto diventa banale”, afferma Rosenfeld. “Una versione della storia ancora ricolma di sofferenza, ma una sofferenza senza peso morale, più facile da sopportare”. Nel recensire il libro sul Tablet, Ron Rosenbaum, il celebre storico e giornalista americano autore del “Mistero Hitler”, ha scritto che lo scopo del saggio di Rosenfeld è salvare “l’ebraicità dello sterminio” contro un banale “universalismo” infarcito di frasi come “la barbarie dell’uomo sull’uomo”, che tanto ricorrono oggi nelle celebrazioni della giornata della memoria. “La libertà artistica porta alla corruzione della verità, alla ‘Vita è bella’”, scrive Rosenbaum riferendosi al film di Roberto Benigni. Secondo Rosenfeld è stata anche compiuta una operazione culturale sui sopravvissuti tesa alla “trasformazione artificiale della vittima in prototipo culturale privilegiato”. Eccolo il paradosso: “Il successo stesso della disseminazione della conoscenza dell’Olocausto nella sfera pubblica può sminuirne la gravità e renderlo più familiare. La storia è stata normalizzata”. Nonostante tutti i musei, i curricula, i libri, i film, i documentari, gli articoli di giornale e le visite guidate ai campi, la memoria dell’Olocausto è diventata “pop”, una sorta di sacrario laico delle buone intenzioni per ipocrite promesse di “never again”. Mai più. “Così fra due generazioni la parola ‘Olocausto’ sarà ancora in circolazione, ma senza riferimenti storici. E’ la fine dell’Olocausto”. Secondo Rosenfeld, la vittima principale di questa operazione è stato proprio lo stato d’Israele. Mai quanto oggi la memoria è disseminata, eppure mai quanto oggi l’Olocausto viene usato contro l’eredità vivente dei sei milioni, il piccolo stato ebraico sotto assedio pre atomico. “La memoria dell’Olocausto, lungi dall’essere una profilassi, è stata capace di provocare nuove forme di ostilità antiebraica. In pochi presero Hitler sul serio. Il risultato fu Auschwitz, un avvertimento per il passato, il presente e il futuro”.Il titolo dell’ultimo capitolo del libro non poteva essere più chiaro: “Un nuovo Olocausto”.
La STAMPA - Elena Loewenthal : " Auschwitz, l'antidoto è il silenzio "


Elena Loewenthal
Una palestra di Dubai che, per rendere convincente la promessa di addio alle calorie, usa per la sua campagna pubblicitaria una gigantografia dell’ingresso di Auschwitz. Degli ultraortodossi indignati con il governo israeliano e dei loro concittadini indignati vuoi con la polizia vuoi con gli avversari politici, che si battono a suon di stelle gialle appuntate sul petto ed esclamazioni «nazista!» elargite un po’ qua e un po’ là. Stelle gialle, ancora, usate da islamici di Svizzera per protestare contro la discriminazione. Per non parlare di chi con queste armi va nella direzione opposta: rimpiangere quei tempi e auspicarne il ritorno. E non sono pochi.
Il giorno della memoria cade in un anniversario tanto feroce quanto ambiguo: il 27 gennaio, infatti, Auschwitz fu liberata. Quelle porte si aprirono. Sarebbe, teoricamente, un momento festoso: la fine di un incubo, di un inferno bruciato per anni dentro l’Europa. In realtà, è un giorno di sgomento, di occhi sbarrati di fronte a quell’assurdità: come è potuto succedere? Le porte aperte di Auschwitz furono sì, liberazione. Ma furono anche e soprattutto svelamento di una ferocia quale non s’era mai vista. E, come diceva Primo Levi (ma perché, invece di cercare sempre qualcosa di «nuovo» da dire, non si legge una sua pagina? Una soltanto, e basterebbe), il fatto che sia già successo non ci vaccina, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo.
Quasi a farlo apposta, intorno al giorno della memoria i suoi simboli spuntano a destra e a manca come funghi velenosi. Si moltiplicano in sequenza incontrollata, come per dare un calcio alla memoria. L’uso trasversale di questi riferimenti, che accomuna partiti diversi, etnie disparate, posizioni ideologiche e vissuti enormemente distanti fra loro, è la prova inequivocabile che essi si sono svuotati. Che hanno perso il loro senso. L’unico che avevano: risvegliare la memoria. Fare andare, con la mente e con il cuore, a quel laggiù da cui ci separa una distanza di anni esigua - per quanto sempre più grande - ma soprattutto l’abisso di un intero universo. Quei simboli, infatti, servivano a farci intuire che quel passato non saremo mai in grado di capirlo. Che bisogna sentirlo e basta. Possibilmente in silenzio. Come si fa a entrare nei panni di un bambino che entra in una camera a gas? È impossibile. La stella gialla che portava sul cappotto questo ci diceva: ricordami. Ma sappi che non comprenderai cos’è stata la vita per me. Tieniti a distanza dalla mia storia, perché è inafferrabile.
Invece, la moltiplicazione del ricordo, l’inevitabile ritualismo che si porta con sé la puntuale commemorazione, hanno portato a quella memoria una pubblicità a doppio senso. Da una parte, certo, il rispetto. Dall’altra la banalizzazione e, senza soluzione di continuità, l’abuso. I simboli si sono svuotati, il ricordo è diventato cerimonia, la parola non può mancare e così, ogni anno, gli editori si sentono irresponsabili se non pescano l’ultimo sopravvissuto, le lettere rimaste nel cassetto, la storia ancora da raccontare. Un po’ come le strenne per Natale. Il cinema, idem. Scuole ed enti pubblici s’ingegnano per non ripetersi con i loro «eventi». L’evento, comunque, è indispensabile.
È inevitabile, tutto questo? Qualunque celebrazione ha per conseguenza la trasfigurazione della memoria, la sua metamorfosi in rito più o meno svuotato, non tanto di contenuti quanto di pathos? Difficile dare una risposta. Forse, l’unico antidoto è il silenzio. Quello che offre una pagina scritta, ad esempio. In Israele il giorno della Shoah cade in primavera: la rievocazione è un interminabile minuto di sirena che suona in tutto il paese. Un silenzio assordante. Tutti si fermano, tutto si ferma. È un momento tremendo e basta.
Come tremendo dev’essere, per chi è stato laggiù ed è ancora su questa terra, ritrovare i segni di quei ricordi e l’abuso che a volte se ne fa. Ma ancora una volta, come facciamo noi a immaginare cosa prova qualcuno che l’ha portata davvero, la stella gialla sul petto, vedendola brandire così? Dev’essere tremendamente doloroso, e anche tanto frustrante. La memoria, e quella che si celebra oggi più di ogni altra, non è mai innocua.
La STAMPA - A. B. Yehoshua : " Ma l’Olocausto non è misura di tutte le cose"

A. B. Yehoshua
Pur caricandoci di un grande peso, l’Olocausto ci pone di fronte a delle sfide chiare. Come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali.
Il primo è la profonda repulsione per il razzismo e per il nazionalismo. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo, e insisto, nessun popolo è immune. [...]
Ma gli anni che sono passati da allora ci provano purtroppo che manifestazioni naziste sono possibili anche tra altri popoli. Gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista.
Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi.
Dobbiamo inoltre fare attenzione a non perdere il senso della misura, e a non misurare tutto in rapporto all’Olocausto. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non rendersi conto del dolore degli altri, e questo è un comportamento del tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere degli atti morali; e per questo affrontiamo degli esami quotidiani.
Ho già detto che l’Olocausto può condurre l’uomo a un atteggiamento di disperazione nei confronti del mondo. È del tutto naturale non avere fiducia nell’uomo e nei suoi atti dopo un’esperienza del genere. Noi, figli delle vittime, possiamo esprimere la nostra delusione con un vigore raddoppiato. Ma dobbiamo ricordare che la sfiducia nel mondo è proprio un atteggiamento tipico del nazismo. Il nazismo è nato anch’esso dalla sensazione che il mondo è nella sua essenza privo di valori, che non si può sperare nulla di buono dall’uomo, e che gli unici valori che hanno un peso sono la forza e l’astuzia. Chi, in seguito all’esperienza dell’Olocausto, arriva a una conclusione nichilista, dà paradossalmente ragione alle tesi naziste. Non è cosa facile nutrire speranza e fiducia nell’uomo dopo l’Olocausto, ma se vogliamo essere coerenti nel nostro antinazismo dobbiamo fare nostra questa sfida.
Quando esaminiamo quello che è avvenuto e ci domandiamo meravigliati come sia potuto avvenire, siamo costretti a riconoscere quanto scarsa e povera fosse la nostra conoscenza delle atrocità durante la guerra. Ci chiediamo spesso come sia stato possibile che una parte consistente del popolo (compresa la colonia ebraica in terra di Israele) fosse all’oscuro di quanto avveniva nell’Europa occupata. E se avessimo saputo quello che avveniva laggiù, forse avremmo potuto essere più utili. Il problema della chiusura dei canali di comunicazione non è solo un problema oggettivo di una situazione imposta da un ferreo regime totalitario, preoccupato di nascondere le proprie atrocità agli occhi del mondo: la chiusura di questi canali ha anche origine da un rifiuto interno di sapere quello che avviene, il rifiuto di scavare dietro ogni briciola di notizia che potrebbe fornire un quadro più chiaro degli avvenimenti. L’importanza della comunicazione umana, l’apertura dei canali di comunicazione, lo sviluppo della stampa e di altri mezzi di comunicazione, sono uno degli insegnamenti chiari di quel periodo. E mi pare che il mondo dopo l’Olocausto, il mondo occidentale, lo abbia capito bene, e cerchi per quanto è possibile di assicurare una situazione in cui l’occultamento e la soppressione delle notizie non siano più possibili. [...]
E per finire, l’esperienza dell’Olocausto in quanto esperienza prettamente ebraica ha un significato perenne per tutta l’umanità. Anche tra molti anni si continuerà a studiare quel periodo, perché gli eventi di quella guerra tremenda hanno esteso il concetto di uomo, il ventaglio delle sue possibilità. Quella guerra ci ha insegnato cose che non conoscevamo sulla natura dell’uomo. Il concetto di uomo non è più lo stesso di prima, nel bene e nel male. Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. E’ vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava.
Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo.
La REPUBBLICA - Tzvetan Todorov : " La donna che ha riscritto il lager "


Germaine Tillion, Ravensbrück
Germaine Tillion (1907-2008) è una figura esemplare nella storia del XX secolo in Francia. Da una parte, è un personaggio impegnato attivamente nella vita politica del suo paese: resistente della prima ora, prigioniera e deportata nel corso della Seconda guerra mondiale; militante per la pace e la dignità umana, contro la violenza durante la guerra d'Algeria (1954-1962); combattente per i diritti umani nei decenni seguenti. Dall'altra, è una delle etnologhe più originali che la Francia abbia conosciuto e una storica di prim'ordine, autrice di studi esemplari sulla guerra d'Algeria, Les Ennemis complémentaires (1960), e sulla deportazione, con Ravensbrück.
Germaine Tillion è dunque prima di tutto un'abitante del campo, e solo dopo la sua storica. Viene deportata per la sua attività di resistente nel campo di Ravensbrück, situato a nord di Berlino e destinato principalmente alle donne, alla fine dell'ottobre 1943.
Poiché Ravensbrück descrive nel dettaglio la vita del campo, qui sarà sufficiente indicare alcune date che scandiscono la prigionia di Tillion. Nel febbraio 1944, ha la brutta sorpresa di vedere la propria madre arrivarvi a sua volta: Émilie Tillion è stata imprigionata e deportata in quanto complice della figlia. All'inizio del mese di marzo 1945 accade un evento traumatico per Tillion: la madre viene inviata nella camera a gas di Ravensbrück, condannata a morte per i suoi capelli bianchi. Il 23 aprile 1945, infine, fa parte di un gruppo di deportate liberate dalla Croce Rossa svedese.
Molto presto viene sollecitata a dare la propria testimonianza su quanto ha vissuto. Il suo primo testo su Ravensbrück, scritto nel 1945, viene pubblicato l'anno seguente in un volume dedicato al campo, contenente i contributi di numerose ex deportate. Il suo capitolo, di gran lunga il più corposo, si intitola "à la recherche de la vérité"; è scritto in prima persona, ma Tillion non vi riporta delle esperienze personali, si propone al contrario di accertare, nella misura del possibile, fatti oggettivi, corroborati dalle testimonianze di altre deportate. Ma, proprio in questo periodo, interviene un cambiamento importante nella maniera in cui Tillion concepisce il lavoro di conoscenza nell'ambito delle scienze umane e sociali. Le parole "fame"o "sofferenza" hanno cambiato senso; ora sa, infinitamente meglio di prima, a cosa corrispondano. Non si tratta affatto di sostituire il sapere con l'autobiografia, ma di ammettere che, di per sé, gli avvenimenti sono privi di senso: questo non può nascere che grazie all'interrogazione formulata da un essere umano particolare. La necessità di armonizzare queste due fonti, la materia esteriore e l'esperienza interiore, condurrà Tillion a rimettere mano al suo Ravensbrück.
È dopo la fine della guerra d'Algeria e dopo aver pubblicato la sua opera capitale sulla condizione delle donne che Tillion ritorna a Ravensbrück. La ragione immediata di questa decisioneè la pubblicazione di un libro che la tocca personalmente: si tratta di un saggio in cui si sostiene l'inesistenza delle camere a gas nel campo femminile. Tillion, che vi ha perduto la madre, ne è profondamente colpita e mette mano a una nuova versione della sua descrizione di Ravensbrück. Ma la trasformazione che impone alla sua pubblicazione originale è molto più radicale.
Quella che nel 1972 intraprende questa riscritturaè una persona differente da quella che, nel 1945, componeva il suo sobrio resoconto. Ora Tillion è decisa a introdurre la propria esperienza personale nella descrizione oggettiva del campo. Fin dall'introduzione al libro, offre il racconto del proprio arresto e della deportazione, come quello, più doloroso per lei, della prigionia, della deportazione e dell'uccisione di sua madre. Questa prospettiva rinnova tutto lo scritto che segue e conduce a un'ultima parte dove si trovano formulate alcune fondamentali questioni di metodo, soprattutto quella del difficile rapporto tra impegno e imparzialità, esperienza vissuta e riflessione astratta.
Un esempio dell'impatto del vissuto sul sapere è fornito dall'analisi che Tillion conduce sulla stratificazione per classi e per nazioni osservabile all'interno del campo. Mentre, nella versione del 1946, faceva prova di un certo "etnocentrismo" di classe, descrivendo le lavoratrici volontarie come provenienti dalla «feccia della nostra società» e le prostitute come «scorie irrimediabilmente perdute per la società», nel libro pubblicato nel 1973 sostituisce la prima frase con «non provenivano certo dall'élite della nostra società» ed elimina completamente la seconda. L'esperienza del dopoguerra l'ha condotta a cambiare un'altra descrizione: partendo dalla sua nuova concezione di patriottismo, rinuncia ad attribuire in modo definitivo delle qualità e dei difetti alle etnie e alle nazioni. Nella prima versione poteva ancora parlare dell'«indegno popolo tedesco» che aveva «osato reclamare delle colonie», poteva evocare «quella propensione a tutte le dissolutezze che si trova nei tedeschi di entrambi i sessi». Dopo aver vissuto la guerra d'Algeria, non si permette più alcuna generalizzazione di questo tipo.
Negli anni che seguono la pubblicazione di questa seconda versione, Tillion non smette di tenersi al corrente su tutto ciò che si pubblica su Ravensbrück e i campi, non smette neppure di interrogare e di reinterpretare le proprie riflessioni, e questo la conduce, nel 1988 (ha appena compiuto ottant'anni!), a una terza e ultima versione di Ravensbrück, quella che esce oggi in italiano. I cambiamenti sono di nuovo numerosi, il piano del libro è completamente rivoltato, ma il punto di vista resta lo stesso: dopo aver assimilato tutto il materiale disponibile, ricrea il mondo del campo a partire da se stessa, e questo porta a una sintesi feconda degli elementi soggettivi e oggettivi. Ravensbrück ci appare oggi come un libro unico, che riesce a superare non solo la separazione tra testimonianza e storia, ma anche quella tra conoscenza e saggezza. Il risultato delle meditazioni dell'autrice non è tuttavia sempre incoraggiante. Il ritratto di Himmler è abbozzato in un paragrafo intitolato "I mostri sono uomini".
Conclusione piuttosto inquietante, perché se i mostri sono rari, gli uomini siamo tutti noi.
Non è tuttavia la paura ciò che Tillion ha trattenuto della sua terribile esperienza, ma l'irreprimibile voglia di dare il proprio contributo perché al mondo ci sia un po' più di giustizia e un po' più di verità. Se Ravensbrück, malgrado i fatti deprimenti che evoca, non produce un sentimento di disperazione, è perché attraverso questo libro si entra in contatto con un essere luminoso, animato d'umorismo e anche, per quanto ciò possa sembrare paradossale, di gioia di vivere. Può darsi che Germaine abbia ereditato questa forza da sua madre, Émilie Tillion, se si guarda alla lettera in cui quest'ultima si rivolge a una delle sue amiche del campo, solamente pochi giorni prima di essere uccisa. Scrive: «L'idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d'altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate». Ravensbrück è uno dei prodotti più compiuti di questo "straordinario allargamento".
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