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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero-Il Foglio Rassegna Stampa
07.01.2012 Siria, Iraq: stragi e terrorismo
Cronache e commenti, di Carlo Panella e redazione del Foglio

Testata:Libero-Il Foglio
Autore: Carlo Panella-Redazione del Foglio
Titolo: «Al Qaeda prova a prendersi la Siria con i kamikaze-Il filo terrorista che unisce la Siria di Assad e l'Iraq di Maliki»

Siria e Iraq, nalle analisi oggi, 07/01/2012, su LIBERO, di carlo Panella, sul FOGLIO, a cura della Redazione.

Libero-Carlo Panella: " Al Qaeda prova a prendersi la Siria con i kamikaze "

Una sola cosa è certa: la strage kamikaze che ha maciullato ieri 25 persone nel centro di Damasco nel quartiere Midan nei pressi di una sede dell’intelligence, punta distruggere il movimento di protesta che da 10 mesi resiste eroicamente al prezzo di 6000 morti e decine di migliaia di arrestati contro il regime di Bashar al Assad. Forse il mandante è stato il regime stesso, come sostengono gli oppositori, forse è opera di un gruppo di Al Qaeda. È solo chiaro è che questo avviene solo grazie alla avvilente, incapacità della comunità internazionale di farsi carico della crisi siriana per pilotarla verso un esito politico. Il vuoto d’iniziativa dell’Europa e degli Usa, che si limitano a sanzioni che il regime ignora e le azioni sterili della Lega Araba che dal 19 dicembre ha inviato «osservatori» che non sanno e non vogliono osservare e che si limitano a «fare da palo» al regime, hanno allargato a dismisura lo spazio per l’azione del terrorismo islamico, che ha già colpito il 23 dicembre (44 morti) e ora torna a imporre la sua logica di devastazione. IN LIBIA INVECE... Ha dell’incredibile la differenza di azione dell’Onu, dell’Occidente (e della Lega Araba) nella crisi siriana, rispetto a quella libica. A Tripoli, dopo un centinaio di morti (quelli veri, non quelli inventati da al Jazeera, di proprietà dell’emiro del Qatar che oggi si accaparra i contratti petroliferi migliori), si è partiti per una guerra in cui la forza militare della Nato ha supplito alla palese debolezza politica, prima che militare, dei ribelli. Il linciaggio infame di Gheddafi colpito dai droni Nato e poi massacrato come una bestia dagli insorti è stato il tristo simbolo di quella guerra. In Siria, all’opposto, il movimento di protesta dimostra una forza politica (e anche militare, con i suoi 10.000 e più disertori) mai vista in un Paese arabo: sopporta migliaia di morti e di desaparecidos e unisce tutti i poveri della Siria, contro tutti i ricchi (siano essi alawiti, sunniti o cristiani) che si fanno usbergo del regime. Ma la comunità internazionale, in Siria, non fa nulla, di fatto. Assistiamo da mesi al bombardamento con tank e mortai di quartieri di una decina di città siriane, ma non facciamo nulla. GUERRA SPORCA Come in laboratorio – anche grazie all’ignavia internazionale - si è aperto così lo spazio per il devastante intervento dei kamikaze. Chiarissime le parole di Omar Idilbi portavoce del Cns, la sigla che unisce tutti gli oppositori: «È una continuazione della guerra sporca del regime, che prova a spostare l’at - tenzione dalle proteste di massa ». L’estraneità del movimento da agenti dei Servizi del regime) guardavano da un’altra parte 30-40 manifestanti venivano uccisi a Homs, Deraa, Deir Ezzor o Irbil. A fronte di questo quadro, Nabil al Arabi, segretario della Lega Araba, poco dopo la strage, ha consegnato una lettera a Khaleed Meshaal, leader di Hamas che vive a Damasco, protetto dal regime (e non è un caso), in cui si chiede di intercedere presso Assad perché cessi le stragi. Una mossa oltre la linea della vergogna, che simbolo della voluta impotenza dei Paesi arabi e della comunità internazionale.

Il Foglio- " Il filo terrorista che unisce la Siria di Assad e l'Iraq di Maliki "

 
Assad                                                       Al Maliki

Roma. Ieri a Damasco un attentatore suicida ha provocato la morte di almeno 27 persone che affollavano le strade della capitale nel giorno riservato alla preghiera. L’attacco si collega al duplice attentato del 23 dicembre scorso in cui fu colpita la centrale operativa dei servizi d’intelligence e furono uccise 44 persone, per lo più civili che si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato. Subito gli attivisti delle “Commissioni locali di coordinamento” (che organizzano le manifestazioni di piazza contro il presidente Bashar el Assad) hanno ribadito che dietro le stragi di Damasco c’è la mano del regime, che sarebbe felice di distogliere l’attenzione dalle proteste di massa e dalle diserzioni dalle Forze armate per dimostrare che senza la sola leadership capace di combattere le frange estremiste la Siria scivolerebbe nel caos e in una quotidianità segnata da bombe e attentatori suicidi. Alcuni osservatori fanno notare che un filo rosso del terrore sembra legare in modo indistinguibile la realtà siriana a quella irachena. Prima un’ondata di stragi a Baghdad, il giorno dopo un grosso attentato a Damasco. E’ successo come il 23 dicembre, quando alle 14 bombe fatte scoppiare contro il premier Nouri al Maliki fecero seguito le due autobomba nell’antica capitale del califfato sotto Saladino, ed è successo anche ieri. In realtà, la vasta area a cavallo tra Siria e Iraq, a forte prevalenza sunnita, a partire dal 2003 ha rifornito di attentatori e armi i gruppi radicali che hanno alimentato il jihad, e i volontari arabi che si offrivano di recarsi nelle città irachene a combattere i soldati americani partivano proprio dalla capitale siriana, divenuta in quegli anni uno scalo e una stazione di partenza per l’insurrezione sunnita contro le truppe di Washington. E’ quindi possibile che a Damasco sia in atto una guerra parallela a quella dell’Esercito della liberazione siriana, portata avanti da cellule qaidiste pronte a tutto pur di abbattere il regime di Assad, considerato eretico e detestato anche perché appoggiato dagli altrettanto eretici ayatollah iraniani. La “normalizzazione” di Asaib al Haq La stessa violenza settaria che oggi insanguina la Siria sta crescendo in Iraq, dove lo scontro tra sciiti e sunniti sta tornando a essere violento. Il premier Nouri al Maliki deve però fronteggiare anche il prepotente ritorno sulla scena politica di Moqtada al Sadr, che chiede elezioni legislative anticipate convinto di poter aumentare la propria rappresentanza parlamentare che attualmente conta 40 deputati e di riuscire a diventare determinante per la linea politica del paese. Proprio per contrastare e contenere l’attivismo del leader sciita – che giovedì ha incontrato a Teheran il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu – al Maliki ha accolto positivamente la decisione della milizia Asaib al Haq di “abbandonare” la lotta armata per entrare a far parte del sistema politico a pieno titolo, cercando così di fomentare contrasti anche nel campo sciita per rafforzare la propria posizione alla guida del governo. Il problema è che Asaib al Haq è (è stato?) uno dei gruppi terroristici che più degli altri si è macchiato di stragi nel recente passato, assassinando centinaia di iracheni e tentando di rapire soldati americani a ogni occasione utile. Il fatto che la milizia sciita guidata da Qais al Khazali (già portavoce di al Sadr fino al 2005, quando lasciò l’esercito del Mahdi per mettersi in proprio) abbia ottenuto fino a poche settimane fa lauti finanziamenti da Teheran (benché queste neghino con forza i collegamenti con Asaib al Haq) indica che nei prossimi mesi si potrebbe verificare un progressivo spotamento di Baghdad nell’orbita di Teheran, spingendo ulteriormente il terrorismo sunnita a compiere gesti distruttivi. Al Maliki e la “guerra” ai sunniti Il mandato di cattura spiccato dalla magistratura di Baghdad nei confronti del vicepresidente sunnita Tariq al Hashemi (nel frattempo fuggito in Kurdistan) accusato di aver dato sostegno a frange terroriste ha messo in evidenza come la contrapposizione tra al Maliki e gli esponenti principali della realtà sunnita si stia inasprendo. I segnali di una violenza settaria in rapido aumento si sono manifestati fin dallo scorso novembre quando il presidente del Parlamento, il sunnita Osama al Nujaifi, rimase illeso in un misterioso attentato avvenuto nella Green Zone. Domenica scorsa, un’esplosione lungo la strada che unisce Baghdad al nord del paese ha coinvolto un convoglio sunnita di cui faceva parte il ministro delle Finanze Rafa al Essawi, scampato miracolosamente all’attacco. Al Essawi è uno dei principali contestatori del premier e più volte ne ha chiesto le dimissioni per favorire una riconciliazione nazionale. La successiva decisione di al Maliki di ritirare le deleghe a due ministri sunniti del blocco Iraqiya che non si erano presentati all’ultimo vertice del governo ha contribuito a surriscaldare un clima già teso. La spaccatura tra le due grandi anime è evidente, e il primo ministro viene pubblicamente accusato con una lettera pubblicata sul New York Times e firmata da al Nujaifi, al Essawi e Iyad Allawi di usare le forze di sicurezza e il potere giudiziario per perseguitare i suoi principali oppositori, vale a dire i sunniti. Le stragi di queste settimane, ultime quelle di giovedì che a Baghdad e Nassiriya hanno provocato più di settanta morti tra i pellegrini sciiti, è un altro sintomo di un equilibrio sempre più precario che rischia di far precipitare l’Iraq in una guerra civile in grado di coinvolgere l’intero assetto regionale. Appare sempre più evidente che saranno le mosse iraniane a decidere molto del futuro dell’intero medio oriente: se Teheran riuscirà ad attrarre definitivamente nella propria orbita l’Iraq mantenendo al contempo l’ultima parola su tutto ciò che avviene in Siria.

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