lunedi` 12 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Foglio-Il Giornale-Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.12.2011 Iraq: l'ultima mossa sbagliata di Obama, in arrivo le conseguenze
Commenti di Daniele Raineri, Dan Vittorio Segre, Ennio Caretto intervista Richard Perle

Testata:Il Foglio-Il Giornale-Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri-Dan Vittorio Segre-Ennio Caretto
Titolo: «In Iraq il governo e al Qaida sfruttano il ritiro prematuro di Obama-Una guerra è finita, ma ora ce n'è un'altra-Sbagliato ritirare i soldati, ora per l'Iran è campo libero»

Il ritiro delle truppe Usa dall'Iraq provocherà conseguenze drammatiche. Ne scrivono oggi, 23/12/2011, Daniele Raineri sul FOGLIO, Dan Vittorio Segre sul GIORNALE, Ennio Caretto intervista Richard Perle sul CORRIERE della SERA.
Ecco gli articoli:

Il Foglio-Daniele Raineri: " In Iraq il governo e al Qaida sfruttano il ritiro prematuro di Obama "

Roma. Quattordici bombe a Baghdad contro palazzi del governo e contro bersagli indifesi come scuole, mercati e negozi: almeno 72 i morti. Anche dopo che gli americani hanno completato il ritiro, i terroristi iracheni ammazzano civili per rivendicare il proprio spazio di potere. E’ come se all’immediato scadere della presenza dei soldati mandati da Washington, tutti, a partire dall’alto, il governo, fino in fondo, i gruppi estremisti, abbiano voluto confermare di essere ancora in una posizione di forza. Il primo ministro sciita Nouri al Maliki ha costretto alla fuga nel lontano Kurdistan il vicepresidente sunnita Tariq al Hashemi, con l’accusa di usare le sue guardie del corpo come una squadra della morte per assassinare i rivali politici. Ieri il governo ha accusato anche il ministro delle Finanze, Rafie al Issawi, un altro sunnita, di guidare gruppi di ribelli a Fallujah. Maliki ha anche fatto fuori politicamente Saleh al Mutlaq, il suo vice. Al Hashemi, al Issawi e al Mutlaq fanno tutti parte di al Iraqiya, il partito che alle elezioni del 2010 ha ottenuto più voti dello schieramento del primo ministro e che rappresenta la minaccia più vicina al suo potere. Da al Anbar, la provincia più grande del paese, tutta in mano ai clan sunniti, già si annuncia la rottura del patto debole su cui si regge la pace tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita. Ramzy Mardini, analista arabo dell’Institute for the Study of War di Washington, scrive che il ritiro degli americani è stato prematuro: “Nel nord dell’Iraq le truppe hanno fisicamente evitato il conflitto potenziale tra arabi e curdi per i territori contesi. Tuttavia, la presenza americana ha avuto un effetto ancora più importante dal punto di vista psicologico, aiutando a stabilizzare e a dirigere la politica irachena nella direzione sperata. La rimozione prematura degli americani dallo spazio politico ha alterato il modo in cui gli attori iracheni interagiscono e si comportano l’uno con l’altro. Per questo, il ritiro e il conseguente disordine potrebbero avere conseguenze profonde per l’Iraq”. Non è un’analisi nuova per l’Amministrazione americana, che infatti ha tentato fino all’ultimo, contraddicendo le sue stesse promesse elettorali, di restare in Iraq con un contingente sostanzioso di ventimila soldati. Ma l’accordo con Baghdad è fallito all’ultimo. L’esplosione di tante bombe nello stesso momento è la firma dei gruppi estremisti sunniti: al Qaida in Iraq o Ansar al islam. Entrambi stanno sfruttando la crisi politica in corso per rafforzare la propria propaganda e per dipingere se stessi come difensori dei sunniti e Maliki come un agente degli interessi iraniani. C’entra anche la politica estera nella purga ordinata dal primo ministro contro i sunniti. Al Hashemi sostiene con forza la ribellione nella vicina Siria, per il legame di parentela fra sunniti iracheni e sunniti siriani. Al Maliki invece si oppone. Al Mutlaq difende le ragioni del Mek, la guerriglia marxista-islamica e anti iraniana ospitata in un campo iracheno (dovrebbe sloggiare il prossimo aprile). E al Maliki è loro nemico. Intanto, l’Iraq è nella lista dei paesi che cresceranno di più nel 2012, al ritmo dell’11 per cento.

Il Giornale-Dan Vittorio Segre: " Una guerra è finita, ma ora ce n'è un'altra "

Corpi speciali dell'esercito saudita

Non erano trascorse neppure 48 ore dalla parten­za ufficiale degli americani dall’Irak dopo 9 anni di guerra, quella che verrà un giorno chiamata la terza guerra, e sembra già scoppiarne una nuova - questa volta inter araba fra sunniti e shiiti - e che un giorno forse sarà ricordata come la quarta guerra d’Irak. Il premier shiita Kamal Maliki, di fresco tornato dalla Casa Bianca dove era stato incoronato da Obama come un simbolo della nuova democrazia inter comunitaria araba, ha ordinato l’arresto del vice presidente sunnita dell’Irak Tariq al Hashemi (uno dei personaggi più pro americani e legati all’ambasciatore Usa) per tentato assassinio. Così hanno rivelato alla tv di Bagdad tre sue guardie del corpo secondo le quali Hashemi avrebbe loro offerto denari per uccidere non meglio precisate personalità shiite. Anche il vice premier, sunnita, Salah al Muttlak è stato accusato di feroci crimini e non è chiaro dove si trovi. Hashemi comunque si è rifugiato nella provincia curda semi autonoma nel nord da dove ha respinto tutte le accuse: «Giuro nel nome di Dio che non mi sono mai macchiato né mai mi macchierei del peccato di spargere sangue iracheno» ha dichiarato. Il presidente del parlamento iracheno, sunnita, Osama al Nujaifi per parte sua ha dichiarato che le rivelazioni televisive contro Hashemi sono di natura settaria, miranti a sfruttare la storica lotta fra sunniti e shiiti. Non si tratta soltanto di uno scontro religioso fra la maggioranza sunnita dell’islam e la minoranza shiita vecchio da secoli. Su esso si innesta lo scontro politico «nazionale» fra Arabi e Persiani, fra i due paesi controllori del Shat el Arabi, dove passa il 40% del petrolio iracheno e iraniano. Più acceso è lo scontro per stabilire quale sarà in futuro la principale grande potenza regionale, se sarà l’Iran (shiita) o l’Arabia Saudita (sunnita) a dominare il Medio oriente nella scia della rivolta araba. Chi esce malconcio da questa nuova grossa tensione è l’America. Dopo aver speso miliardi e sangue in Irak vede la sua visione di democrazia inter comunitaria araba e la sua influenza infrangersi sulle scogliere delle rivalità etniche, tribali, irachene. Lo stato iracheno non è mai esistito. È stato «inventato» dagli inglesi dopo la prima guerra mondiale (persino il suo nome è stato cercato in quello di una periferica tribù nel nord di un paese che per millenni era stato conosciuto come Mesopotamia).
Questa situazione preoccupa i sauditi che hanno appena annunciato l’intenzione di creare un corpo di «giovani combattenti» forte di mezzo milione di uomini. Annuncio sorprendente se si pensa che il regno saudita possiede una delle più numerose e moderne armate. Ma non poi così sorprendente se si pensa che questi «giovani» potrebbero essere chiamati a dirigere le loro energie e il loro patriottismo invece che contro il regime saudita contro un «nemico» esterno che potrebbe essere quello rivoluzionario shiita. Si comprende allora perché - nonostante tutte le tensioni fra Obama e Netanyahu - l’America che vede in pericolo le sue basi militari nel mondo arabo sta trasferendo una parte del suo più moderno equipaggiamento militare in Israele. Qui molto discretamente si stanno allargando le sue basi che includono persino una presenza ospedaliera avanzata da aggiungere a quella in Germania, dove sino ad ora erano diretti i militari feriti sui campi di battaglia medio orientali.
Chi pensa che le relazioni fra Gerusalemme e Washington possano naufragare sulla questione palestinese, su quella delle costruzioni di appartamenti civili a Gerusalemme est, sulla cattiva chimica fra Obama e Natanyahu o su un attacco israeliano all’Iran senza il permesso di Washington, si illude.


Corriere della Sera-Ennio Caretto: " Sbagliato ritirare i soldati, ora per l'Iran è campo libero "

Richard Perle

WASHINGTON — «La catena di attentati a Bagdad, una catena pianificata e coordinata, e il momento in cui sono stati compiuti costituiscono un vero e proprio manifesto politico. Il messaggio al governo iracheno è evidente: l'America non è più qui a proteggervi. È troppo presto per dire se dietro gli attentati ci sia la fazione sunnita, o ci sia Al Qaeda, o un altro gruppo terroristico. Ma il fatto è che qualcuno vuole causare uno scontro armato, forse una guerra civile, tra sunniti e sciiti. È un pericolo che si può ancora sventare, ma è probabile che in Iraq riesploda la violenza e si apra una nuova crisi. Il completamento del graduale ritiro americano, con tutto il suo simbolismo, è stato un errore».
L'ex sottosegretario alla Difesa Richard Perle, uno dei fautori della invasione dell'Iraq, attribuisce l'errore alla promessa fatta da Obama alle elezioni del 2008 di disimpegnarsi entro il 2011. «Con le elezioni del 2012 alle porte — afferma — Obama ha anteposto le ragioni del voto in America alle ragioni della sicurezza a Bagdad». L'ex leader neocon, a cui George W. Bush porse spesso l'orecchio, ritiene che senza quella promessa Obama avrebbe mantenuto una presenza militare in Iraq. «L'America non era più così stanca della guerra, non subiva più ingenti perdite e gestiva in modo adeguato la situazione irachena».
Quindi a suo giudizio il ritiro totale andava rimandato?
«Penso di sì. Da noi le pressioni per il ritiro erano diminuite, il nostro Paese era ed è concentrato sull'Afghanistan. E le forze politiche a Bagdad non erano pronte al "dopo". Non che là le nostre truppe facessero molto, ma sarebbero intervenute in casi di emergenza. Inoltre, c'erano e ci sono tuttora altri motivi per noi per restare. Uno è che l'Iraq rischia di cadere nella sfera d'influenza dell'Iran, un nostro nemico. Un altro è che potrebbe diventare una repubblica islamica, sebbene secondo me la maggioranza della popolazione non lo voglia».
Ma l'Iraq non è già condizionato dall'Iran?
«Lo è, e questo condizionamento è stato un altro nostro errore. Noi non abbiamo mai affrontato a muso duro il problema dell'interferenza iraniana a Bagdad. Abbiamo cercato il negoziato, facendo inevitabilmente fiasco, invece di ammonire Teheran che eravamo e che siamo sempre in grado di destabilizzarla. La situazione iraniana è tesa, ci sono attentanti anche là. Purtroppo, a meno di colpi di scena, dopo il nostro disimpegno l'influenza dell'Iran sull'Iraq aumenterà ulteriormente».
Che cosa vuol dire? È possibile che Israele colpisca l'Iran?
«Esattamente. Io sono sempre stato convinto che se davvero l'Iran sarà sul punto di procurarsi l'atomica, Israele lo attaccherà. Lo farà all'ultimo minuto, come fece nell'81, quando attaccò l'impianto nucleare iracheno. Nell'81, Saddam Hussein si era accinto a iniettare materiale atomico nei suoi reattori. Israele non attese che lo facesse, perché un bombardamento a posteriori avrebbe liberato radiazioni mortali. Sapeva che l'attacco sarebbe stato politicamente accettabile solo se preventivo».
Ma questo non isolerebbe ancora di più Israele nei confronti dell'Islam?
«Non in tutto l'Islam, solo in parte. Paradossalmente, le ambizioni atomiche dell'Iran hanno spinto gli Stati del Golfo Persico a schierarsi segretamente con Israele, e non contro. Se l'impianto nucleare iraniano venisse distrutto il Golfo Persico gioirebbe di nascosto, anche se l'intero Islam denuncerebbe furiosamente l'attacco».
Lei ha accennato al rischio che l'Iraq diventi una repubblica islamica.
«È un rischio che corre l'intera primavera araba. Nei regimi autoritari o totalitari mediorientali, il radicalismo religioso è stato represso per anni anzi decenni ma non è stato eliminato. È impossibile prevedere che cosa succederà adesso in Iraq come in Egitto. Per questo occorre che l'America, e anche l'Europa debbo sottolineare, si impegni di più in Medio Oriente. Non è troppo tardi. Non si tratta di mandare daccapo truppe, ma di agire sui piani politico, diplomatico ed economico».
Parlando di errori, non fu un errore invadere l'Iraq?
«Non a mio parere. La guerra dell'Iraq ha liberato il mondo da Saddam Hussein, un risultato che viene troppo sottovalutato. Fu sferrata perché si pensava che il raìs possedesse armi di sterminio. Risultò il contrario, ma fu colpa dell'intelligence. Nonostante le vittime civili, io appoggiai la guerra perché generò voglia di libertà e democrazia in tutto il Medio Oriente. Ma criticai la gestione dell'Iraq dopo la vittoria, come lei ha già evidenziato. È innegabile che facemmo alcuni errori. Vi ponemmo parzialmente rimedio nell'ultimo biennio, avremmo dovuto insistere. La lezione, ripeto, è che oggi noi possiamo solo tentare di aiutare i popoli arabi, quello iracheno in testa, a prendere la strada giusta».

Per inviare al Foglio, Giornale, Corriere della Sera, la propria opinione, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@ilfoglio.it
segreteria@ilgiornale.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT