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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.12.2011 Siria, Assad continua i massacri
Cronaca di Daniele Raineri, Paola Peduzzi. Intervista di Lorenzo Cremonesi a Gilles Kepel

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri - Paola Peduzzi - Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Con cento morti al giorno, la Siria è peggio dell’Iraq del 2005 - Da Damasco fino a Bagdad resa dei conti fra sunniti e sciiti»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/12/2011, a pag. 3, l'articolo di Daniele Raineri e Paola Peduzzi dal titolo " Con cento morti al giorno, la Siria è peggio dell’Iraq del 2005 ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Gilles Kepel dal titolo " Da Damasco fino a Bagdad resa dei conti fra sunniti e sciiti ", preceduta dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri, Paola Peduzzi : " Con cento morti al giorno, la Siria è peggio dell’Iraq del 2005 "


Daniele Raineri, Paola Peduzzi

Arrivano gli osservatori. Oggi entra in Siria la prima squadra di osservatori mandata dalla Lega araba a controllare la situazione, dopo l’accordo con il regime. Seguiranno centinaia di esperti – anche avvocati e medici legali – con il compito di capire che cosa stia succedendo (i giornalisti internazionali sono tenuti fuori dal paese, oppure sono portati a casa del presidente Assad per interviste che non hanno contatto con la realtà) e di fermare le violenze. Ci saranno pure inviati del Bahrain, il regno del Golfo accusato per la mano pesante contro i suoi rivoltosi sciiti. Sembra che siano guidati – se fosse confermato, è una scelta sciagurata – da un generale sudanese nel mirino della Corte internazionale di Giustizia per crimini di guerra. Si teme che Damasco usi la tattica dei villaggi Potëmkin, quelle facciate di legno che secondo la leggenda furono piazzate dal principe Grigorij Aleksandrovic Potemkin sul percorso della zarina Caterina II durante un viaggio in Crimea. Gli stessi greggi di pecore erano spostate lungo la strada e figuranti sorridenti facevano credere all’imperatrice che tutto andasse come nel migliore dei mondi possibili. In porto, una flotta di navi mercantili truccate da navi da guerra coronava lo sforzo e l’inganno. Il regime non è nuovo a forzature propagandistiche: la tv di stato ha sostenuto che la rivolta libica a Tripoli fosse una sceneggiata girata negli studi di al Jazeera e trasmessa per indebolire il morale degli altri arabi. Confessioni di “terroristi” vanno regolarmente in onda e ieri è stata organizzata una grande esercitazione militare con bombardieri, elicotteri e carri armati per dare l’immagine di un esercito compatto e pronto a usare i suoi mezzi. Secondo fonti siriane, il regime sta già spostando i prigionieri politici nelle caserme, che in quanto zone militari sono escluse dalla missione degli osservatori.

Il terremoto nei salotti parigini.
Nel 2008, Assad partecipò alle celebrazioni parigine invitato dal presidente francese, Nicolas Sarkozy. Era il culmine di una strategia di appeasement portata avanti da Parigi – con la collaborazione dell’America – per sottrarre la Siria dall’asse del male bushiano. Assad sembrava un leader duro ma ragionevole, e molti si convinsero che con l’appoggio di Damasco si potessero risolvere molti guai, dalla liberazione del caporale Shalit alle faide intrapalestinesi. Parigi s’illuse che si sarebbe potuto allentare il rapporto tra Siria e Iran e investì su una “special relationship” con Assad. Ora la Francia ha voltato le spalle al suo ex “amico” e anzi è la più attiva nel denunciare le brutture della dittatura e a chiamare a raccolta la comunità internazionale – agisce assieme alla Turchia, anche se negli ultimi giorni la questione del genocidio armeno sta facendo saltare, a suon di sgarbi telefonici, quest’alleanza. Sarkozy è stato tra i primi a riconoscere l’opposizione siriana come interlocutore politico, anche perché vive in casa: storicamente gli esuli siriani riempiono i salotti parigini, tengono lezioni alla Sorbona, spiegano che cosa accade nell’opaca Damasco. Ma, come già accaduto con opposizioni di altri paesi, non tutto è trasparente nemmeno da quella parte. Il buono, il brutto, il cattivo. Burhan Ghalioun è il capo del Consiglio nazionale siriano (che esiste già dal 2005, ma che ora sta vivendo una nuova giovinezza grazie al gemello libico) con sede a Parigi. Se si potesse creare un leader dell’opposizione al computer, verrebbe fuori Ghalioun. E’ nato, sessantasei anni fa, a Homs, una delle città più martoriate dalla repressione degli Assad, è cresciuto nella politica e con la politica, quando aveva dieci anni già discuteva di comunismo, panarabismo, nazionalismo e democrazia. Arrivato a Damasco come studente, divenne presto uno dei più ricercati dai servizi segreti, con tutto quel che questo comporta: arresti, botte, minacce a tutta la famiglia. Con l’arrivo di Hafez Assad, Ghalioun lasciò la Siria, sarebbe rientrato vent’anni dopo, per seppellire suo padre. Nel frattempo è diventato uno dei più solidi oppositori del regime e dei regimi di tutta la regione (scrisse un manifesto per la democrazia in Algeria, tanto per non far innervosire nessuno) e ora, dalla sua casa modesta in un quartiere modesto di Parigi, sommerso di piante perché così era abituato a Homs, rilascia dichiarazioni da sogno: romperemo i rapporti con Iran e Hezbollah, normalizzeremo i rapporti con Israele, siamo anche disposti a ridare a Gerusalemme il Golan. Ovviamente questo basta a renderlo inviso a gran parte dei siriani, che pure combattono contro il regime. Il rapporto più difficile è quello con il capo dell’esercito dei dissidenti, Riad al Asaad, un colonnello con i baffi che comanda dal confine turco le operazioni militari contro l’esercito regolare di Damasco. Per quel che si sa, Asaad è la mente dietro gli attacchi più spettacolari e mortiferi ai danni del partito di regime e dell’esercito, ma secondo alcuni rappresenta il problema più grave per l’opposizione: formalmente c’è un patto tra Ghalioun e Asaad, ma il primo dice sempre al secondo di smetterla con le violenze. Il colonnello non ci sente, combatte la violenza con la violenza, ma questo rende difficile per la comunità internazionale sostenerlo, soprattutto per quei paesi che hanno imparato sulla loro pelle che schierarsi, in una guerra civile a così alto tasso d’armamenti da emtrambe le parti, non porta mai a buoni risultati (la Russia ne ha approfittato chiedendo all’Onu sanzioni sia per l’esercito regolare sia per l’esercito ribelle). A complicare ancora di più i rapporti tra opposizione e resto del mondo – quelli sul campo hanno detto al Monde che si sentono abbandonati – c’è il più cattivo di tutti: lo zio di Assad, Rifaat, meglio noto come “il macellaio”, l’autore del massacro di Hama. Immortalato come un diplomatico di lungo corso, al telefono su una scrivania luccicante, Rifaat ha detto in un’intervista al Figaro di qualche settimana fa che suo nipote Bashar deve andarsene perché non può mantenere il controllo del paese con i carriarmati e la repressione è durata troppo a lungo senza di fatto avere successo. Così anche il macellaio è entrato a far parte dell’opposizione all’attuale regime di Damasco.

Cento morti tra gli ulivi.
Idlib è una piccola città nel nord, a soli tre quarti d’ora di automobile da Aleppo, vicino al confine con la Turchia. Anzi, in quella zona il territorio turco forma un cuneo tra il mare Mediterraneo e la Siria e cade verso sud a formare un becco di un centinaio di chilometri. La zona collinosa e coperta da alberi di olivo è diventata il più grande corridoio per l’andirivieni di disertori e ribelli siriani con la Turchia. Due giorni fa i soldati di Damasco hanno chiuso in una sacca almeno un centinaio di commilitoni in fuga verso il confine e verso la salvezza e li hanno uccisi – il numero preciso, 111, è stato dato da Rami Abdulrahman dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione con base a Londra che ha contatti clandestini in Siria. La Francia ha immediatamente condannato senza troppe verifiche “il massacro senza precedenti”. In due giorni, lunedì e martedì, il numero dei morti sarebbe stato di 250. Idlib è uno dei fronti più violenti dei combattimenti tra l’esercito libero di Siria – i ribelli, soprattutto disertori sunniti – e il regime. Da domenica, almeno 17 veicoli dell’esercito regolare sono stati distrutti. E’ così vicina alla Turchia da essere la zona ideale per la creazione della cosiddetta “buffer zone”, una porzione di territorio siriano che eventualmente dovrebbe essere sorvegliata da soldati turchi e fare da rifugio per gli sfollati – e, ineluttabilmente, da rifugio sicuro per la guerriglia. Il regime vuole evitare che si trasformi nella Bengasi siriana e poi vicino c’è la paciosa Aleppo, capitale d’affari del paese, che assieme a Damasco resiste nell’illusione che la rivoluzione possa spegnersi. Il contagio per ora non c’è ancora stato, a dispetto della prossimità – tranne che tra le teste calde degli studenti all’università, ieri attaccati dagli uomini di Assad. Ma se Aleppo cade, Damasco resta sola e la vita del regime s’accorcia.

Pare Ramadi.
Da Idlib andando verso sud, verso la capitale Damasco difesa dal grosso delle truppe e verso il confine con il Libano, c’è prima Hama – rasa al suolo nell’81 dal padre del presidente Bashar el Assad, Hafez – e poi Homs. Oltre a essere così in mezzo, sulla strada di collegamento, Homs è anche la zona dove per la prima volta, lo scorso luglio, hanno cominciato ad agire i battaglioni dell’esercito libero di Siria e che meglio si riesce a difendere dagli attacchi degli uomini di Assad. La guerra civile siriana è partita da lì. Se Idlib è la Bengasi siriana – ovvero la città vicina al confine dove è più probabile che comincino gli aiuti internazionali – Homs è la nuova Misurata, la zona più contesa e investita con più violenza dai combattimenti. O forse è la nuova Ramadi, per rispolverare il nome della città dell’Iraq occidentale dove si combatté con più durezza tra il 2004 e il 2007. Il bollettino quotidiano delle notizie che si può ricostruire dalle fonti, compresa l’agenzia di stato, da leggere con freddezza e cautela, ricorda lo scenario iracheno: un colonnello con le gambe amputate per colpa di una bomba nascosta sotto la macchina, guerriglieri che sparano da un taxi in corsa, altri che prendono di mira bus militari. Mai, però, durante la guerra in Iraq, ci furono giornate di guerriglia così sanguinose, se non si contano gli attentati di al Qaida contro la popolazione civile. ieri da Homs sono stati rapiti cinque ingegneri iraniani che lavoravano a una centrale in cosntruzione nei paraggi. Il fatto di arrivare dall’Iran, alleato del regime, e di lavorare a un progetto di stato vicino al centro della ribellione li ha resi bersagli naturali.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Da Damasco fino a Bagdad resa dei conti fra sunniti e sciiti "


Gilles Kepel

Mentre tutto l'Occidente, ormai, ha preso coscienza del fatto che non c'è stata nessuna primavera araba, che, anzi, le rivoluzioni hanno portato a un inverno islamista, Kepel è ancora abbagliato e dichiara : "Noi occidentali dobbiamo però smetterla di leggere i Fratelli Musulmani con le lenti del 11 settembre 2001 e del terrorismo anni Novanta. C'è una nuova classe di Fratelli Musulmani moderati, pragmatici, (...) Non sono interessati alla legge islamica, piuttosto guardano ai meccanismi del mercato internazionale.". Saremmo curiosi di sapere dove Kepel ha incontrato questi Fratelli Musulmani non interessati alla sharia. Non esiste un islam moderato. E se anche esistesse, non sarebbe certo quello dei Fratelli Musulmani, alleati di Hamas.
Le domande di Cremonesi, quanto mai algide, non potevano sortire altro effetto di quello ottenuto. Peccato.
Ecco il pezzo:

La Siria? «La maggioranza che mira a rovesciare la dittatura cerca di convincere le minoranze ad abbandonare Bashar Assad. Se non ce la farà, il bagno di sangue sarà ancora più grave». L'Egitto? «Il movimento di contestazione politica deve ora confrontarsi con la crisi economica che mette in dubbio l'intera rivoluzione». E la primavera araba? «E' stato un importantissimo movimento di contestazione politica contro le dittature. Il suo valore è incontestabile per l'intero Medio Oriente. E non è ancora terminato. Vincono i Fratelli Musulmani, che però sono divisi, più realisti e molto diversi da quelli degli anni Novanta». Gilles Kepel, uno dei massimi esperti europei del Medio Oriente contemporaneo sta effettuando un viaggio di studio nella regione in occasione del primo anniversario dello scoppio delle rivolte tunisine. Dal Cairo ha risposto per telefono alle nostre domande.
In Siria la situazione appare sempre più grave. Secondo le opposizioni, ci sarebbero oltre 200 morti nelle ultime 48 ore. La sua valutazione?
«Il regime è in enormi difficoltà. Non riesce più a mantenere l'ordine. Larghe regioni sono in rivolta, specie tra Homs, Hama e Idlib. La maggioranza sunnita è determinata a rovesciare Bashar Assad. Però restano larghe minoranze, specie gli sciiti alawiti, i cristiani e una buona parte della borghesia sunnita di Damasco e Aleppo, che non si fanno convincere. Temono ciò che avverrà dopo».
Come uscirne?
«Penso che alla fine la rivoluzione vincerà. Ma occorre che dia garanzie chiare alle minoranze. La Siria è un Paese estremamente frazionato, diviso tra etnie e religioni. Manca un vero esercito nazionale come quello che ha fatto cadere Ben Ali a Tunisi o Mubarak al Cairo. Qui i militari sono quasi tutti alawiti, fedeli per patto di sangue agli Assad, e per giunta super-armati, ben addestrati. Se i rivoluzionari non riusciranno a penetrare almeno in parte i ranghi dei fedelissimi si rischia una guerra civile sanguinosa, simile a quella in Libano negli anni Ottanta o al recente conflitto tra sciiti e sunniti in Iraq».
La sua lettura dei cinque iraniani rapiti in Siria nelle ultime ore?
«L'ennesimo segnale dello scontro crescente tra sciiti e arabi sunniti in tutto il Medio Oriente. La mobilitazione anti-iraniano-sciita in Arabia Saudita e nei Paesi del Golfo sta di diventando militante. Anche l'attuale crisi in Iraq tra il premier sciita Maliki e le componenti sunnite del governo va letta in questo contesto molto più ampio».
Come vede la nuova mediazione della Lega Araba e l'invio dei suoi osservatori in Siria?
«La Lega Araba è l'organizzazione più vacua e inefficiente del mondo. La sua debolezza, le sue divisioni interne riassumono le profonde lacerazioni dell'universo arabo. Non mi sembra possa fare molto in Siria. Anche perché due tra i Paesi confinanti, Libano (con Hezbollah in testa) e Iraq, proprio grazie alle loro componenti sciite sostengono il regime di Assad. Conseguenza: gli sforzi di mediazione della Lega si concluderanno con un nulla di fatto. Le regioni della Siria stanno diventando i Balcani del Medio Oriente: il campo di battaglia principale della guerra sciito-sunnita con il coinvolgimento diretto di Iraq, Iran, Turchia, Israele, Libano, Arabia Saudita, Qatar, Giordania».
In Egitto lei ha incontrato diversi leader salafiti e dei Fratelli Musulmani. Valutazioni?
«C'è una situazione paradossale. Alle recenti elezioni parlamentari le componenti laiche della rivoluzione, che erano state alla testa della mobilitazione contro il regime di Hosni Mubarak nel gennaio-febbraio scorso, sono state clamorosamente battute alla prima tornata. Fratelli Musulmani e salafiti assieme sfiorano il 70 per cento. Votati soprattutto perché nei decenni sono stati le vittime principali del regime. E penso che il risultato elettorale sarà più o meno confermato alle prossime tornate di gennaio. Da qui la rabbia dei laici. Sono pochi, ma combattivi, i giovani che negli ultimi giorni si scontrano con gli agenti a piazza Tahrir. Si sentono traditi, la loro non è tanto una protesta contro i militari, piuttosto contro gli egiziani».
La rivoluzione consegnata agli islamici?
«Che però sono a loro volta divisi, confusi. La questione è capire cosa faranno i Fratelli Musulmani: hanno il 40 per cento del voto, possono unirsi ai radicali salafiti, che hanno preso il 25. Oppure cercare di allearsi ai liberali. Noi occidentali dobbiamo però smetterla di leggere i Fratelli Musulmani con le lenti del 11 settembre 2001 e del terrorismo anni Novanta. C'è una nuova classe di Fratelli Musulmani moderati, pragmatici, consapevoli del baratro economico in cui sta precipitando l'Egitto e della necessità di fare i conti con la crisi finanziaria internazionale, insomma con il principio di realtà. Sanno che il turismo è una voce centrale dell'economia nazionale, temono che i divieti per le donne, il blocco delle bevande alcoliche voluti dai salafiti costituiscano un problema centrale per l'arrivo di visitatori alle Piramidi, il Mar Rosso e Abu Simbel. Con loro occorre dialogare. Non sono interessati alla legge islamica, piuttosto guardano ai meccanismi del mercato internazionale. A marzo lo Stato egiziano non avrà più soldi per pagare i propri dipendenti. Sarà il crollo. Gli americani non saranno più pronti a sborsare i miliardi di dollari che davano a Mubarak. Questi sono i loro assilli principali».

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