Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/12/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Chi vince al Cairo ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " L'onda islamica e quel modello turco (quasi) impossibile ", preceduto dal nostro commento, a pag. 17, l'intervista di Massimo Gaggi a Nassir Abdulaziz al-Nasser dal titolo, diplomatico qatariota presidente di turno dell'assemblea generale dell'Onu dal titolo " Il mondo arabo sarà democratico. Ma ci vuole tempo ", preceduta dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Chi vince al Cairo "


Fratelli Musulmani, Sharia. 'Benvenuti nel nono secolo'
Il Cairo, dal nostro inviato. I risultati ufficiali attesi per ieri non sono arrivati. Ma i numeri dicono Fratelli musulmani attorno al 50 per cento e al secondo posto un pericoloso spareggio tra i partiti salafiti e il Blocco egiziano del magnate Naguib Sawiris. Il partito della Giustizia e libertà, paravento politico della Fratellanza, già nega che ci sarà un’alleanza con i salafiti di Hizb an Nour, il Partito della luce. “Le voci su un accordo tra noi per formare un governo islamista sono un’invenzione dei media”, dice il segretario generale del Fratelli musulmani, Saad el Katatny. Il segretario dichiara che l’unica coalizione possibile è quella esistente con gli altri dieci partiti dell’Alleanza democratica, il cartello elettorale guidato dal partito della Fratellanza, da cui i salafiti sono usciti due mesi fa per dissensi. Il risultato così forte dei Fratelli musulmani era quasi scontato, grazie all’organizzazione ferrea dei suoi membri, che versano nelle casse comuni il dieci per cento del loro stipendio e si sono impegnati mesi fa a portare almeno 100 conoscenti ciascuno ai seggi elettorali. E anche grazie alla disciplina del partito, che ha navigato tutti gli imprevisti del dopo rivoluzione, fino a decidere di non partecipare agli scontri di piazza dell’ultima settimana. Il punto è che queste parlamentari egiziane sono divise in tre turni (27 governatorati, votano nove per volta). A questo turno hanno votato le zone metropolitane, più aperte e moderne e naturalmente più refrattarie alla campagna politica di Fratelli e salafiti. Che succederà ai prossimi turni? Questa prima vittoria islamista potrebbe diventare un trionfo. In Egitto la legge vieta i partiti religiosi: ma non è stata applicata contro i salafiti, la cui presenza rende ora il voto del Cairo differente da quello in Tunisia. Intanto il lungo calendario elettorale, altri due voti nelle prossime cinque settimane, poi daccapo per il Senato, svuota di senso e di persone piazza Tahrir. Il risultato dei partiti liberali e laici riuniti sotto il simbolo dell’occhio di Kutla al Masriyah, il Blocco egiziano, delude anche chi era già spiritualmente preparato alla delusione.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " L'onda islamica e quel modello turco (quasi) impossibile "


Antonio Ferrari, Recep Erdogan stringe la mano a Mahmoud Ahmadinejad
L'analisi di Antonio Ferrari è condivisibile per molti aspetti, tranne che per la parte sulla Turchia. Anche Ferrari, come altri analisti italiani, ha scambiato Erdogan per ciò che non è, un leader democratico.
Non esiste un islam politico e democratico. In Turchia non c'è libertà di parola, gli scrittori vengono incarcerati, il potere dei militari, unici garanti della laicità dello Stato, è stato limato a suon di leggi fatte ad hoc da Erdogan, nell'impiego pubblico le donne sono costrette a portare il velo.
Il fatto che Erdogan ora sia pronto ad attaccare la Siria non deve ingannare. Anche la Lega Araba, composta esclusivamente da dittature, ha approvato sanzioni contro la Siria, questo non significa che i Paesi che la compongono siano democratici.
Ecco il pezzo:
I l segnale di quel che poi sarebbe accaduto con le primavere arabe si poteva cogliere già cinque anni fa, quando Hamas trionfò alle elezioni palestinesi. Elezioni che erano state fortemente volute dall'Amministrazione americana di Bush, nella convinzione che i laici del Fatah le avrebbero vinte agevolmente. Invece accadde il contrario, con un corollario di sorprese aggiuntive, come quella dei molti arabi-cristiani di Palestina che preferirono le promesse dei fondamentalisti di Gaza alle dubbie certezze dell'Anp di Abu Mazen.
Quella lezione avrebbe dovuto rivelare uno scenario prossimo venturo sicuramente scomodo ma indubbiamente realistico. Quanto sta avvenendo in tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che si sono liberati di dittatori e tiranni, o che hanno evitato violenze e decapitazioni scegliendo il riformismo e la via di immediate e libere (o quasi libere) elezioni, è abbastanza semplice. Dove si è già votato, i partiti islamisti hanno vinto, e in qualche caso hanno stravinto come suggeriscono i primi risultati delle elezioni egiziane. Ora si può esser certi che un identico risultato si materializzerà dappertutto, quando altri popoli arabi andranno a votare.
La prima considerazione è ormai chiara. Tutti gli strumenti di analisi che sono stati utilizzati per decenni, e che erano appropriati al tempo della guerra fredda e forse nei primi anni che seguirono gli attentati alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001, devono essere aggiornati. In qualche caso resettati, perché ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, importante e complesso: l'affermazione generalizzata dell'Islam politico. Alcuni lungimiranti studiosi avevano previsto che il crepuscolo definitivo degli stati nazionali arabi, già fortemente indeboliti negli anni '70 con l'esaurimento della spinta nasseriana, era ormai imminente. Sia per la debolezza dei regimi che li rappresentavano, sia per l'impossibilità di arginare le pulsioni di popoli costretti ad essere quasi invisibili: popoli che hanno scoperto, nel mondo globalizzato, valori, opportunità e speranze dai quali erano stati esclusi. Il cambiamento è stato accelerato dalla società civile e dall'affermazione di tre soggetti: i giovani, le donne e il web. In realtà, i dividendi politici delle rivolte non sono poi andati a chi le aveva condotte, ma a forze ben più organizzate che, rientrate dal confino o uscite dalla clandestinità nella quale erano state spinte dai vari regimi, sembrano pronte a prendere il potere.
Non sarà un passaggio facile, e i rischi di derive estremiste non possono essere esclusi. Ma sono le coordinate dei partiti islamici emergenti, in Tunisia, in Marocco, in Egitto, e probabilmente domani in Libia, a suggerire una riflessione. Anche i nomi delle forze e dei movimenti vincitori richiamano un preciso modello: quello turco dell'Akp (Giustizia e sviluppo), cioè il partito islamico moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan. Il grintoso primo ministro, al timone di un Paese che gode di una crescita eccezionale, che è crocevia strategico di tutti i corridoi energetici della regione, e che si è dotato di una politica estera presuntuosa ma anche decisamente efficace, potrebbe diventare — lo prevedono in molti — il condottiero della potenza egemone del Mediterraneo.
Non è un mistero che Erdogan guardi al mondo arabo e più in generale musulmano con un interesse che la laicissima Turchia del passato non aveva mai avuto. Ricambiato con calore dalle forze politiche e dai popoli che stanno cominciando ad assaporare la libertà. Si potrebbe persino dire che si torna al punto da cui tutto ha avuto origine. L'impero ottomano, soprattutto nella seconda metà dell'800, aveva diffuso nei propri sterminati territori l'esempio e la cultura di una relativa autonomia, come accadde ad esempio in Libano, quando i cristiani maroniti offrivano alla Sublime Porta la preziosa esperienza diplomatica e commerciale che avevano maturato. È quanto ricostruisce puntigliosamente, nel suo bel libro su «I Cristiani e il Medio oriente dal 1798 al 1924», il professor Giorgio Del Zanna, dell'Università Cattolica di Milano. Oggi, dopo la fine dell'impero, la fondazione della repubblica turca voluta da Kemal Atatürk, e la vittoria (che sembrava inimmaginabile) di un partito islamico-moderato, Ankara torna a percorrere gli antichi sentieri dell'influenza ottomana. Diventando un modello, quantomeno una fonte di ispirazione.
Ma la Turchia è un paese democratico con istituzioni laiche, con la chiara separazione fra Stato e religione, e il partito islamico Akp, pur avendo una base confessionale, è diventato un moderno contenitore di idee e di interessi. Nel mondo arabo, invece, si è ancora decisamente indietro. Certo, l'Egitto ha strutture più solide di altri paesi, la Tunisia ha una classe dirigente che è eredità del passato coloniale francese, il Marocco ha conosciuto il valore e la necessità del riformismo. Ma nessuno può specchiarsi, per ora, nel sistema politico turco. Le vittorie dei partiti confessionali arabi indicano una direzione, ma non la strada che intendono percorrere o il programma che vogliono realizzare. È questo il dilemma che i risultati elettorali in alcuni paesi delle cosiddette «primavere arabe» ci propongono. Un dilemma vero, sperando che non diventi motivo di angoscia.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " Il mondo arabo sarà democratico. Ma ci vuole tempo "

Nassir Abdulaziz Al-Nasser
L'intervista ha dell'incredibile. E' incredibile già di per sè che l'intervistato parli di democrazia. Può un diplomatico del Qatar, Stato dove non c'è democrazia, dove non si tengono elezioni, dove le manifestazioni sono state bloccate sul nascere, pontificare sull'islam democratico ?
E' incredibile che un diplomatico del Qatar sia presidente di turno dell'assemblea generale Onu, questo denota quanto l'Onu sia un'organizzazione terzomondista da smantellare e ripensare alla radice.
E' incredibile che un diplomatico del Qatar descriva come democratica l'ondata islamista che ha invaso il Maghreb e che il suo intervistatore non lo contraddica mai.
E' incredibile che un diplomatico del Qatar, lo Stato che ha controllato e aizzato le rivoluzioni islamiste utilizzando al Jazeera, dipinga un futuro roseo per l'Egitto e che il suo intervistatore continui a non fare commenti.
Ecco l'intervista:
NEW YORK — «Per voi è la ‘primavera araba'. Io preferisco parlare di risveglio: il 2011 coi suoi cambiamenti di governo è stato un passaggio davvero storico per il mondo arabo. L'attenzione è stata spesso concentrata sull'Egitto, dove ora si vota. Ma ci sono anche le elezioni in Tunisia, quelle in Marocco, le consultazioni annunciate dallo Yemen per il prossimo febbraio».
Nassir Abdulaziz Al-Nasser, il presidente dell'Assemblea generale dell'Onu che oggi arriva in Italia per incontri ufficiali con le autorità italiane (a cominciare dal presidente Giorgio Napolitano) e per presiedere un vertice della Fao, pesa le parole. Una cautela imposta dal suo ruolo internazionale, ma è evidente tutto l'orgoglio di questo esponente del Qatar per i cambiamenti che stanno interessando il suo mondo.
Le rivolte non hanno suscitato attese eccessive? Abbiamo visto molte proteste represse nel sangue mentre analisti di grande spessore come Bernard Lewis sostengono che cercare di imporre istituzioni democratiche di tipo occidentale a Paesi che hanno storie e tradizioni totalmente diverse è sbagliato.
«Certo, la democrazia degli arabi va basata sulla cultura e le tradizioni di questo mondo: non possiamo importarla dall'Europa o dagli Stati Uniti. Ma attenzione, parliamo di valori che non ci sono affatto estranei: il mondo arabo in passato ha avuto anche governi democratici e per periodi abbastanza lunghi. Poi, purtroppo, rivoluzioni e dittature hanno prodotto una sorta di ‘sequestro della democrazia'. Ora, finalmente, si riaprono le porte. Certo, non sarà facile. Ci saranno ostacoli piccoli e grandi. È nella natura della democrazia: quando cambi regime, quando se ne va un presidente dopo 30 o 40 anni, i contraccolpi sono inevitabili. Ci vuole tempo. Ma la svolta è comunque salutare, di grande crescita per la regione».
A parte i nuovi sanguinosi scontri in Egitto, c'è il macigno della Siria: il regime di Assad continua la sua repressione feroce, sordo ai richiami della comunità internazionale. Col Consiglio di Sicurezza bloccato dalle minacce di veto di Russia e Cina, l'Onu ha fatto poco. Vede spazi per un ruolo più attivo?
«La Commissione dell'Assemblea generale che si occupa dei diritti umani ha adottato di recente una risoluzione di forte condanna per violazioni continue, gravi e sistematiche dei diritti essenziali dei cittadini siriani, perpetrate dalle autorità di Damasco. Dopo quel pronunciamento si è mossa la Lega Araba che ha chiesto con forza alla Siria di cambiare rotta. Sfortunatamente quel regime non ha compiuto i passi necessari. Ciò ha spinto la Lega Araba a varare un pacchetto di sanzioni. È una novità straordinaria: per la prima volta questo organismo affronta i problemi interni di uno Stato membro. Un serio tentativo di evitare che la Siria — un Paese molto importante nel mondo arabo — precipiti definitivamente nella violenza e nella guerra civile. Se Damasco non risponderà nemmeno adesso, sarà la stessa Lega Araba a chiedere all'Onu di intervenire».
Quali speranze per la Libia?
«Appena assunta la presidenza dell'Assemblea, a settembre, mi sono battuto perché a rappresentare il Paese al Palazzo di Vetro fosse il nuovo governo provvisorio e non il vecchio regime. Oggi mi sento di dire che la transizione procede a passo spedito, come ho constatato di persona quando, qualche settimana fa, ho visitato la Libia insieme al Segretario generale, Ban Ki-Moon. L'Onu è impegnato in una missione di supporto in Libia e ha ottenuto impegni dal governo provvisorio sul ritorno al rispetto dei diritti umani, e sul varo di una riforma della Costituzione, con libere elezioni da organizzare entro 8 mesi. Un processo nel quale l'Italia, che ha una relazione storica con la Libia, potrà giocare un ruolo molto importante».
Toccherà a lei affrontare, in Assemblea generale, la questione del riconoscimento della Palestina?
«Come sa, il presidente della Palestina ha consegnato al Segretario generale una richiesta da inoltrare al Consiglio di Sicurezza. Dove c'è una situazione non chiara: pare che non ci sia una maggioranza favorevole all'ammissione. Non so cosa farà Abbas: andare comunque in Consiglio, anche senza avere i voti? È una scelta molto politica. Io mi limito a fare presente che è più facile passare in Assemblea generale dove basta la maggioranza semplice del 50 per cento del consensi più uno. Per i palestinesi sarebbe comunque un grande passo avanti».
Lei ha posto la riforma dell'Onu tra gli obiettivi prioritari della sua presidenza. Ma quella del Consiglio di Sicurezza, la più essenziale, è bloccata da anni dai veti incrociati. Idee per uscirne?
«È uno degli argomenti delle mie conversazioni a Roma, anche perché l'Italia è sempre stata un protagonista attivissimo di questa complessa partita. Cercherò di sbloccare la situazione organizzando all'inizio del prossimo anno un ritiro in una località vicino New York. Coi principali protagonisti che potranno discutere, esplorare possibili compromessi, senza la rigidità delle sedi ufficiali».
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