Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 25/11/2011, a pag. 15, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " L’ira di piazza Tahrir: Islamici traditori ". Da REPUBBLICA, a pag. 17, l'articolo di Tahar Ben Jelloun dal titolo " La sfida democratica con l’incubo degli islamisti ", preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Se cade Assad in Siria ci sarà una guerra, ci dice Vali Nasr ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Rolla Scolari : " L’ira di piazza Tahrir: Islamici traditori "

Fratelli Musulmani
Qualche sera fa, nel ricco quartiere di Zamalek, alcuni giovani hanno scattato fotografie con i telefonini mentre calpestavano i manifesti elettorali del Partito Giustizia e Libertà, espressione politica dei Fratelli musulmani. Poi, racconta un amico, sono andati in piazza Tahrir e hanno distribuito i cartelloni ai manifestanti, suggerendo loro di usarli come tappetino su cui sedere. A una settimana dalla grande manifestazione della Fratellanza a Tahrir, che aveva ricompattato i ranghi delle forze politiche contro i militari, il movimento si è alienato la piazza.
Oggi molti partiti hanno organizzato una nuova protesta «del milione», che vuole la fine del regime militare, la posticipazione delle elezioni. Non ci saranno i Fratelli musulmani, opposizione più organizzata del Paese, favoriti alle elezioni che dovrebbero partire lunedì (ieri, i militari hanno assicurato che il voto si terrà). I membri del gruppo non hanno partecipato alle proteste e agli scontri degli ultimi sei giorni. E il 21 novembre, quando i generali hanno invitato le forze politiche a negoziare, la Fratellanza si è alienata gli altri movimenti correndo al tavolo della trattativa e accettando di restare lontano dalla piazza in cambio di un’anticipazione del voto presidenziale. Secondo un comunicato apparso sul sito del movimento, quello che accade in piazza è una «cospirazione per creare caos e rimandare la transizone». Il gruppo islamista vede nel posticipo del voto un’occasione persa e nelle turbolenze di Tahrir una minaccia. Ed evita la piazza. Facendo infuriare il resto delle opposizioni. «Come possono stare lontani mentre la polizia uccide?», si chiede Taha, 21 anni. Da mercoledì sera,l’esercito si è posizionato tra polizia e manifestanti, in una della vie attigue alla piazza, sul «fronte». Ed è stata raggiunta una fragilissima tregua. Per Bassem Kamel, candidato del partito Social democratico, la Fratellanza «vuole soltanto il suo pezzo di torta. È sempre stato così: sotto Nasser, Sadat, Mubarak e ora con i militari ». Sul suo blog, Issandr Al Amrani, uno dei più attenti osservatori della situazione egiziana, spiega che i Fratelli musulmani «stanno ancora una volta andando contro la corrente predominante nel Paese », come a febbraio, quando sono corsi al tavolo della trattativa del vice presidente Omar Suleiman per assicurarsi un’intesa. Le loro strategie hanno fatto arrabbiare molti - il partito Al Ghad di Ayman Nour ha minacciato di uscire dalla coalizione - e hanno anche messo in luce divisioni interne, scontri generazionali. Nelle ultime ore, rivela al Giornale Mohammed Adnan, ex membro dei Fratelli musulmani ora in un nuovo partito, almeno 150 giovani hanno lasciato per protesta la Fratellanza, una diaspora cominciata già nei primi mesi della rivoluzione. Ma ancora più significativa è la crepa aperta nella vecchia guardia. Mentre il politburo spiegava il perché dell’assenza dalla piazza, Mohamed Beltagy- funzionario di rango di Giustizia e Libertà - scendeva a Tahrir. Ha poi detto al New York Times che il movimento «non può mantenere le distanze dalla crisi». Per alcuni analisti, eventi e antipatie sollevate potrebbero erodere il consenso dei Fratelli musulmani. Non tutti sono d’accordo: «Hanno perso credibilità con chi comunque non avrebbero votato per loro », spiega Al Amrani.
La REPUBBLICA - Tahar Ben Jelloun : " La sfida democratica con l’incubo degli islamisti "

Tahar Ben Jelloun
Finalmente Tahar Ben Jelloun smette di occuparsi di Israele con toni ostili e si accorge che il suo Marocco è a rischio teocrazia.
Meglio tardi che mai. Ecco il pezzo:
Dal momento che in Tunisia Ennahda ha vinto le elezioni per l´assemblea costituente, dal momento che in Egitto i sondaggi danno vincenti i Fratelli musulmani, gli osservatori sono convinti che il Marocco non sfuggirà all´ondata islamista. Non c´è nessun effetto domino, semplicemente perché sono situazioni diverse, storicamente e politicamente. In Marocco non ci sono state rivolte sanguinose che hanno rimescolato tutti i dati strutturali del Paese. Il re Mohamed VI ha avuto l´intelligenza di anticipare il movimento storico e prendere le redini del cambiamento, proponendo delle riforme, e queste riforme si sono tradotte in una nuova Costituzione e in elezioni anticipate. Malgrado le continue proteste organizzate da elementi laici dell´estrema sinistra da una parte ed esponenti dell´estrema destra religiosa dall´altra, i marocchini non vedono il loro avvenire in verde (il colore dell´islam).
Certo, gli islamisti concentrati nel Pjd (Partito per la giustizia e lo sviluppo) hanno un forte radicamento nel Paese e sono sicuramente in grado di far sentire la loro voce. È il partito meglio organizzato fra tutti i movimenti politici. Si definisce «moderato» e accetta di giocare secondo le regole della democrazia; alle elezioni del 2007 è arrivato secondo dietro il partito dell´Istiqlal, formazione conservatrice che condivide alcuni valori con gli islamisti. Un candidato del Pjd promette «un buon punto per il paradiso» a chi voterà per lui. Confonde il piano temporale e quello spirituale, mescola tutto, ma è un genere di confusione che funziona. La carta più importante di questo partito è la sua volontà di stroncare la corruzione, la sua proposta di un risanamento politico e morale del Paese. Apparentemente è su posizioni morbide, ma si sa che non esistono «religiosi moderati». Se questo partito arriverà al potere sarà una catastrofe per l´economia del Marocco, che nel 2011 ha avuto una crescita del 4,7 per cento: niente più turismo, niente più investimenti, questo i marocchini lo sanno. Ecco perché voteranno per questo partito, ma non gli metteranno in mano tutto il potere. C´è da dire che il ministero dell´Interno ha ritagliato i collegi elettorali in modo da impedire che il Pjd riesca ad avere la maggioranza dei seggi. È un´arma legittima. È stato fatto lo stesso in Francia per impedire all´estrema destra del Fronte nazionale di conquistare deputati in Parlamento.
Il Marocco ha sempre avuto relazioni pacifiche con la religione islamica. Le confraternite religiose sono sempre state libere di dibattere, discutere e contestare. I marocchini sono gente a cui piace vivere, che amano la loro religione, ma diffidano di quelli che vogliono immischiarsi nella loro vita. Il problema del Marocco è la corruzione, in particolare nella giustizia. C´è la disoccupazione, c´è l´analfabetismo, ci sono disuguaglianze sociali scandalose (il 15% della popolazione è al di sotto della soglia della povertà). È su questo che giocano gli islamisti, ma non hanno una bacchetta magica per trovare soluzioni a problemi tanto gravi. Il re ne è consapevole. Lavora per dotare il Paese di infrastrutture fondamentali e per mettere in piedi un sistema politico che vada in direzione della democrazia. Perché la democrazia è una cultura e ha bisogno di tempo e di pedagogia. Se gli islamisti dovessero uscire vincitori da queste elezioni, sarebbe una sconfitta per il Marocco e per la democrazia.
Il FOGLIO - " Se cade Assad in Siria ci sarà una guerra, ci dice Vali Nasr "


Vali Nasr Bashar al Assad
Roma. Se cade Assad in Siria, ci sarà una guerra, dice al Foglio Vali Nasr, grande esperto di medio oriente, professore di Politica internazionale alla Tufts University e membro del Council on foreign relations. Lo schema è semplice: l’Arabia Saudita “punta a indebolire l’influenza di Teheran sia in Siria sia in Libano”, e “lo scenario più probabile è che l’eventuale caduta di Assad conduca alla pressoché immediata fine del governo in mano a Hezbollah e presieduto a Beirut da Najib Mikati, con la conseguente reazione dell’Iran e del Partito di dio, che potrebbe essere violenta”. Il destino del Libano come terreno di scontro di forze esterne è ancora una volta confermato. Tutto ciò che accade a Damasco ha ripercussioni su Beirut. A Rastan ieri, nel governatorato di Homs, in Siria, le truppe dell’esercito di Damasco hanno attaccato i disertori, facendo almeno venti morti. E’ la prima reazione dura contro i continui attacchi di questi ribelli, che sono sempre più un esercito e sempre meno una forza di piazza – diplomaticamente incassano sostegno, anche dalla Francia, sul modello libico – e che ricevono aiuti consistenti sia dalla Turchia (direttamente) sia dall’Arabia Saudita (indirettamente, via Libano). Ieri, il leader delle Forze armate d’opposizione al regime, Riad al Assad, ha invocato raid aerei stranieri, e oggi scade l’ultimatum dato dalla Lega araba a Damasco. In quest’enorme regione al confine con l’ex “protettorato” libanese, ci sono le città di Homs e Hamain cui non si smette mai di combattere. Nelle ultime settimane, centinaia di profughi hanno abbandonato le proprie case in Siria per raggiungere i villaggi libanesi di Wadi Khaled e di Mashta Hammoud, dove le scuole sono state adibite a centri di accoglienza provvisori. Non è un caso che la Siria abbia minato parecchi chilometri di quel confine: c’è un florido contrabbando di armi da bloccare prima dello scontro finale nella zona di Homs. In questo clima da accerchiamento, il rais Bashar el Assad teme non soltanto l’iniziativa turca, ma anche quella della corte di Riad che “sta cercando di sfruttare le rivolte in chiave anti iraniana per dare respiro al proprio progetto sunnita contrapposto a quello sciita di Teheran”, spiega Marco Di Donato, dottorando all’Università di Genova e direttore del Centro italiano di studi sull’islam politico. L’unico a prendere posizione contro il presidente siriano è Saad Hariri, ex premier libanese che dallo scorso aprile si è rifugiato, guarda caso, a Riad, protetto dalla corte saudita contro Hezbollah che in questi mesi ha sostenuto il regime di Assad, ma ha anche dovuto interpretare i messaggi ambigui lanciati da Teheran, dove si sta consumando la faida tra la Guida Suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmoud Ahmadinejad. C’è anche un forte elemento economico: le casse di Damasco sono al collasso, l’instabilità ha spaventato gli investitori e ha reso più difficili i movimenti dentro e fuori il paese. La ripercussione su Beirut potrebbe essere immediata, secondo Vali Nasr: “Il movimento filo occidentale del 14 marzo, che fa capo a Hariri, potrebbe, se scendesse in strada, provocare la caduta di Mikati”, costringendo Hezbollah a rivedere la sua strategia. L’incognita, secondo l’esperto, è come sempre il coinvolgimento di Israele nella crisi. Gerusalemme è in allarme, il piano d’attacco contro l’Iran è pronto e ieri il premier, Benjamin Netanyahu, ha ribadito la sua preoccupazione: “La primavera araba ha fatto fare un passo indietro al medio oriente – ha detto – non in avanti”. I movimenti popolari stanno travolgendo l’Egitto e in Siria ci sono ormai due eserciti che si scontrano. L’Arabia Saudita, che vuole ridisegnare il Golfo a sua immagine, ha mezzo paese in guerriglia (la parte sciita piena di petrolio), con i carri armati sul campo per una repressione immediata.
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