Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Yemen: Saleh firma un trattato, abbandona il potere e vola all'estero in cambio dell'impunità. Cronaca di Paolo Mastrolilli, commento di Redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Paolo Mastrolilli - Redazione del Foglio Titolo: «Yemen, Saleh firma la resa - La corte saudita esce allo scoperto»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 24/11/2011, a pag. 19, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Yemen, Saleh firma la resa ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo "La corte saudita esce allo scoperto " . Ecco i pezzi:
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Yemen, Saleh firma la resa "
Ali Abdullah Saleh
Il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh si arrende, e questa volta dovrebbe fare sul serio. Ieri ha firmato in Arabia Saudita l’accordo negoziato dall’inviato dell’Onu Jamal Benomar, e sponsorizzato dai paesi del Golfo, con cui ha ceduto i poteri dopo trentatré anni di dominio assoluto.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, lo ha sentito al telefono, e Saleh gli ha annunciato che presto sarà a New York per un ciclo di cure mediche. Il Palazzo di Vetro non commenta ufficialmente il significato di questo viaggio, ma lo interpreta come il passo definitivo verso l’esilio. Il Presidente degli Usa, Barack Obama, definisce l’accordo «un importante passo avanti per la gente dello Yemen, che merita l’opportunità di decidere il proprio futuro».
Saleh era sotto pressione da almeno tre fronti: le proteste di piazza della primavera araba, gli scontri tribali che rischiano di spaccare lo Yemen, e la costante minaccia di al Qaeda. Nei mesi scorsi era rimasto ferito durante un attacco alla sua residenza e si era dovuto curare in Arabia. Poi però era tornato, e i disordini erano ripresi. Gli Stati Uniti lo avevano appoggiato negli anni passati, perché aveva collaborato nella lotta al terrorismo. A questo punto, però, la sua presenza stava diventando un ostacolo e un rischio per la stabilità dell’intera regione, con il timore di veder esplodere una guerra civile ai confini dell’Arabia Saudita.
L’accordo firmato da Saleh prevede la cessione immediata dei suoi poteri al vice, Abd-Rabbu Mansour Hadi, che ora formerà un governo di unità nazionale con le opposizioni e indirà le elezioni fra tre mesi. Saleh conserverà la carica di presidente fino al voto, che dovrebbe determinare il suo successore. Ban Ki-moon ha descritto così la sua telefonata con l’ormai ex leader yemenita: «Mi ha detto che cederà tutti i poteri, anche se l’accordo prevede che resterà ancora presidente. Ha annunciato che verrà a New York per delle cure mediche subito dopo la firma, e se arriverà sarò felice di incontrarlo». Ban non ha discusso i dettagli dell’immunità offerta a Saleh, ma ha aggiunto che «c’è stato un accordo tra i paesi membri del Gcc, che ha ricevuto il sostegno di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Io spero che questa sia la base per far progredire il processo in corso nello Yemen».
L’inviato del Palazzo di Vetro che ha negoziato l’intesa, Benomar, è ancora sul posto per favorire la transizione. Nei prossimi giorni però verrà a New York, perché il Consiglio di Sicurezza ha in programma una sessione dedicata allo Yemen il 28 novembre. Quella sarà l’occasione per valutare i progressi fatti e decidere come assistere il nuovo governo nella fase elettorale, mentre l’ex presidente potrebbe già essere negli Stati Uniti.
Dopo Ben Ali, Mubarak e Gheddafi, Saleh diventa il quarto leader arabo a perdere il potere. Prevenire il collasso dello Yemen è una priorità della comunità internazionale, per evitare ripercussioni sull’Arabia e continuare la lotta ad al Qaeda. Le incognite principali ora sono la risposta dei manifestanti alle dimissioni, la reazione dei famigliari di Saleh e dell’esercito, e quella dei capi tribali che vorrebbero dividere il paese. Con la preoccupazione che al Qaeda approfitti del disordine per rialzare la testa.
Il FOGLIO - " La corte saudita esce allo scoperto "
Re Abdullah, Arabia Saudita
Mabrouk lil Yemen”, congratulazioni allo Yemen. Con una promessa di impunità e un volo verso New York per curarsi le ustioni procurate dall’attentato di giugno nella moschea di palazzo, il presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh ha accettato di dimettersi dopo 33 anni ininterrotti al potere. Considerato quanto è successo a Mubarak e a Gheddafi, poteva andargli peggio, anche se a New York in questi giorni incontrerà la sua rivale, la premio Nobel per la Pace Tawakkul Karman. Entro 30 giorni Saleh passerà le consegne al suo vice, Abdrabuh Mansur Hadi: chissà che da ora in poi quello riesca finalmente a entrare nell’ufficio del presidente, perché fino a ieri, in assenza del rais, era occupato dai figli e dai nipoti, i membri più truci del suo clan. A Sana’a gli yemeniti sono in piazza a festeggiare dopo dieci mesi di opposizione coraggiosa e – è un miracolo – pacifica per la maggior parte del tempo, ma hanno convocato una manifestazione perché l’accordo non li soddisfa, è troppo indulgente con Saleh. Da ieri sera ci sono anche notizie di scontri tra i fedeli al rais e le milizie fedeli all’opposizione: nella capitale tra le montagne non c’è transizione politica che non sia bagnata di sangue. Il dato interessante, tuttavia, è dove è avvenuta la firma: a Riad, alla corte di re Abdullah, in calce a un accordo pensato e redatto dai regni del Golfo guidati dall’Arabia Saudita e riuniti nel Gcc (Gulf Cooperation Council). Questo è l’anno in cui la politica saudita, da opaca e ambigua che era, è dovuta uscire allo scoperto e pronunciarsi con chiarezza su dossier differenti. Lo scontro con Washington sulla sorte di Hosni Mubarak, l’aiuto militare alla repressione antiriforme in Bahrein, il fronte contro l’Iran preatomico, la pressione fortissima esercitata sulla Siria con la sospensione dalla Lega araba, la benedizione alla missione occidentale contro la Libia e ora la mediazione di successo – perché Saleh ha finalmente accettato di andarsene – sulla crisi in Yemen. Il tempo della corte saudita muta e indecifrabile seduta nel mezzo della regione più turbolenta del mondo e sopra le riserve energetiche del pianeta è terminato. “E’ una nuova pagina per lo Yemen”, ha detto ieri il sovrano saudita. Ma è una nuova pagina per tutto il mondo arabo. Con le prese di posizione esplicite nella geopolitica, arriva anche la responsabilità esplicita.
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