Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/11/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Il feldmaresciallo parla come Mubarak", a pag. IV, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " I soldati e i fellah ". Dal GIORNALE, a pag. 18, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Trucco degli islamici: ora lasciano la piazza ", a pag. 19, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " Incerta e disinformata. Ecco perché l’America non vuole intervenire ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Paola Caridi dal titolo " Blogger, islamici e liberali uniti dalla lotta per i diritti ", preceduto dal nostro commento. Da REPUBBLICA, a pag. 19, l'articolo di Gilles Kepel dal titolo " Ripartire dalle proteste per finire la rivoluzione", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " I soldati e i fellah "

Daniele Raineri
Il Cairo, dal nostro inviato. Il nemico è smilzo, ha le spalle strette e la divisa tutta nera delle forze di sicurezza centrali, il corpo alle dipendenze del ministero dell’Interno che in Egitto si occupa delle proteste in strada. Ovvio che sia di brutto aspetto, è fatto con le reclute rifiutate dall’esercito, con gli scarti, e anche se non avessero un’uniforme diversa i due gruppi si possono distinguere fisicamente gli uni dagli altri con un’occhiata. Sono pure peggio equipaggiati: non hanno le maschere antigas, anche se in queste ore stanno sparando tonnellate di gas sulle vie che circondano piazza Tahrir, e poi gli tocca pure avanzare in mezzo e piangere e svenire negli androni dei palazzi con i caschi che cadono dalle teste – e senza nemmeno una fila di volontari, spesso di madonne consolatrici, pronti a lavare le facce con liquidi lenitivi, come invece succede dall’altra parte del fronte. Non hanno i blindati dell’esercito, hanno camionette. E hanno tutto il disprezzo dei ragazzi di piazza Tahrir, che in questi giorni distribuiscono a tutti una fotocopia con la taglia su un Divisanera che – dicono loro – mira sempre in faccia quando spara i pallettoni di gomma – sono di gomma ma fanno male, penetrano nelle guance dove incontrano poca resistenza, lasciano un foro senza pelle dove incontrano l’osso, oppure ledono irreparabilmente gli occhi. La ferita all’occhio sta diventando uno dei simboli di questa seconda rivoluzione, tra le immagini che si passano tutti per darsi coraggio c’è il fotomontaggio di uno dei quattro leoni di pietra che sorvegliano il ponte Qasr al Nil, anche lui con la benda bianca incerottata su un occhio. I Divisanera del comitato di sicurezza centrale sono disprezzati anche dai militari, che li considerano uomini di serie B, senza stile e senza motivazioni nobili (quando nell’86 si sono ribellati per questioni di paga, sono stati i soldati a mettere a posto i picchiatori). In questi giorni, però, si dice con insistenza che i soldati abbiano rifornito i paramilitari di armi e mezzi, sempre sottobanco, perché i generali vogliono mantenere l’algida immagine di osservatori neutri, anzi addolorati, degli scontri di piazza. Su uno dei lati di piazza Tahrir c’è via Sheik Rehim, con una caserma dell’esercito: a cento metri le forze di sicurezza sparano e lì invece le sentinelle in cima al muro con casco e fucile d’assalto guardano nel vuoto, non si muovono, non rispondono alle parole lanciate dalla gente. Ogni tanto qualcuno sale su per una scaletta di ferro a dare loro il cambio, ed è l’unico movimento. Quando due notti fa i soldati sono usciti fuori dalla caserma e hanno preso posizione difensiva attorno all’ingresso, si sono seduti stretti con le gambe unite in avanti, il lungo manganello posato sull’asfalto e lo scudo a 45 gradi, una posizione di pura attesa: tutti abbastanza sicuri che non sarebbero stati attaccati dai manifestanti a pochi metri. Il rapporto tra gli uomini del ministero dell’Interno e i militari potrebbe avere scatenato sabato scorso la seconda rivoluzione di piazza Tahrir. Ci si chiede perché le forze di sicurezza abbiano attaccato con brutalità lo sparuto gruppetto di invalidi della sollevazione di febbraio, che di mattina occupava nemmeno per un decimo la gigantesca rotonda al centro della piazza, con carrozzelle e famigliari al seguito, senza disturbare nemmeno il traffico. Il pestaggio è stato violento persino per gli standard egiziani. Chi controlla gli uomini delle forze di sicurezza centrali? Perché li fa agire con questa durezza? E’ il risentimento covato in dieci mesi di umiliazione completa, da quando hanno perso il loro status di temuti servitori del ministero, odiati e derisi mentre i soldati salivano al governo? Hanno deliberatamente scatenato problemi a una settimana dalle elezioni?, si chiede Thanassis Cambassis, reporter navigato, in Egitto prima per il New York Times e ora per una delle riviste americane migliori, Atlantic Monthly. Oppure stavano agendo non contro i militari, ma per conto loro, che approvano la brutalità delle Divisenere ma non vogliono essere loro a reprimere direttamente i civili? Il Consiglio supremo delle forze armate ha l’ultima parola sul potere esecutivo, ma non riesce a esercitare il controllo ora per ora e giorno per giorno sulle operazioni in mano al ministero dell’Interno, scrive il canale panarabo al Jazeera sul suo sito. La capacità dei generali di comunicare con i ministeri è fisicamente limitata – dice Steven Cook, del Council on Foreign Relations, che ha fatto ricerche dirette sull’esercito egiziano – non usano nemmeno le mail, se qualcuno al ministero dell’Interno non risponde al telefono il messaggio non arriva, è un problema enorme, comunicano come se fossero negli anni Sessanta (vale anche il contrario: durante l’assalto all’ambasciata israeliana a settembre, i generali non si fecero trovare al telefono dall’ambasciatore americano). Simon Hanna, un secondo esperto che in questi giorni è a Tahrir, sostiene che il Consiglio supremo abbia paura di una rappresaglia da parte del ministero. Se provasse a limitarne i poteri, i generali dei paramilitari, che sono in maggioranza, potrebbero reagire aggravando la crisi, sono gli stessi che hanno aperto le porte delle prigioni e hanno organizzato le milizie in abiti borghesi durante i diciotto giorni della Prima rivoluzione. Ora stanno continuando a reprimere con intensità insensata le proteste a piazza Tahrir: irruzioni in piazza, munizioni vere, ospedali da campo bruciati, migliaia di lacrimogeni sparati, e il Consiglio supremo potrebbe non avere la piena forza necessaria a controllarli. “E’ come se ci fosse un ricatto in corso tra il ministero dell’Interno e il Consiglio supremo dei generali – dice Hanna – ma non si possono fare previsioni, è tutto dentro una scatola nera”. Il Consiglio supremo e il ministero dell’Interno possono contare su una base infinita, tra gli ottanta milioni di egiziani. Piazza Tahrir attrae con un irresistibile vortice centripeto tutte le notizie e tutti i giornalisti, ma appena al di là dei confini c’è il resto del paese, che fa come se nulla fosse. I cecchini sparano e la metropolitana del Cairo, 18 milioni di abitanti, si limita a chiudere una stazione. A Zamalek, il quartiere elegante, le ragazze con i jeans di lusso bevono frappé da Coffee Bean e da Tea Leaf. Se un lato del carattere nazionale è quello indomito e irriducibile che si vede sulle barricate, dove i giovani salgono cantando con la certezza di essere feriti, e viene da chiedersi – pensiero blasfemo – se non abbiano bisogno di una rivoluzione a intervalli regolari di tempo, l’altro carattere nazionale è quello del fellah, il bracciante abituato a sopportare il ciclo millenario del Nilo che invade la terra e poi si ritira dopo mesi lasciando distese di mota coltivabile. Il fellah è imperturbabile: si aspetta dal potere – sia esso di volta in volta il faraone, il sultano, il presidente Mubarak o il Consiglio supremo dei militari guidato dal generale Tantawi – che l’ordine naturale delle cose, regolato dalle leggi dell’appetito e della sicurezza, non sia troppo stravolto. Si aspetta che la piramide non sia rovesciata. Non partecipa alla storia, la storia è un’inondazione che periodicamente allaga la terra e c’è da attendere che tutto torni come prima. Agisce secondo poche coordinate chiare che rispetta senza scarti e per questo è sospettoso di ogni elemento che non rientra nello schema: un giornalista straniero con un computer sottile dev’essere per forza un agente maligno, probabilmente una spia israeliana. E non vale soltanto per le classi economicamente più disastrate, il fellah è un carattere diffuso anche tra gli uomini d’affari e tra i politici: il Nilo monta, l’importantate è poi rimettere le cose a posto come prima. In due mesi di campagna elettorale, in preparazione di quelle che saranno le prime elezioni senza previsioni scontate di grandi brogli come durante l’era Mubarak, soltanto i Fratelli musulmani e i salafiti sono riusciti a vincere quest’apatia, questa inerzia nazionale, grazie alla loro organizzazione – lavorano a questo momento da ottant’anni – e grazie al fervore religioso di proselitismo islamico che per quest’occasione è semplicemente diventato proselitismo politico. I grandi partiti laici, la borghesia medio alta, le banche, il mondo degli affari, i militari, sono rimasti preda dell’incantamento stanco del fellah. E ora si stanno bruscamente risvegliando. La Borsa soltanto domenica ha bruciato otto miliardi di sterline egiziane. I candidati non sono pronti al voto. E i militari sono davanti alla seconda rivoluzione di Tahrir.
Il FOGLIO - " Il feldmaresciallo parla come Mubarak "

Mohamed Hussein Tantawi
Il Cairo, dal nostro inviato. Ieri sera il capo del Consiglio supremo delle Forze armate, il generale Mohamed Hussein Tantawi, ha parlato in televisione dopo tre giorni e mezzo di violenze nel centro del Cairo. Il discorso in teoria avrebbe dovuto essere rivolto ai manifestanti che occupano piazza Tahrir e che continuano a scontrarsi con gli agenti delle forze di sicurezza chiedendo le sue dimissioni. Così non è stato. “Al Mushir”, il feldmaresciallo, com’è chiamato dagli egiziani, considera chi partecipa alle proteste una causa persa e si è rivolto al resto del paese, per dirsi disponibile a sottoporsi a una sfida di popolarità sul suo ruolo e su quello dei militari al governo: “Siamo disponibili ad ascoltare la volontà del popolo sulla nostra continuità alla guida del paese, anche se questa volontà fosse espressa in forma referendaria”. Il generale sceglie la via plebiscitaria perché sa che l’esercito – unico elemento stabilizzante nella vita del paese – gode in ogni caso del favore della maggioranza silenziosa degli egiziani. Poi ha giocato la carta del disastro economico: “I sit in e le manifestazioni hanno influenzato negativamente l’economia del paese, hanno fermato la produzione e messo a repentaglio l’economia dell’Egitto”, ha detto Tantawi. Le notizie dei disordini stanno facendo sprofondare la Borsa del Cairo e stanno spaventando gli investitori internazionali, come se dopo la rivoluzione di febbraio ce ne fosse ancora necessità. Il messaggio sottinteso del generale è: egiziani, chi sta con la piazza vi sta rendendo ancora più poveri di quanto non foste sotto il regime. Non ha annunciato il passaggio di poteri immediato a un presidente civile, anche se è stato dato il termine del prossimo giugno. Assieme alla nuova legge che impedisce agli ex appartenenti al partito di Mubarak di correre alle elezioni di martedì prossimo – così vengono eliminati una sessantina di aspiranti parlamentari – è un pacchetto per placare le proteste. Ma ieri sera piazza Tahrir era piena come non lo era finora mai più stata dai tempi delle dimissioni di Mubarak, e questo, assieme all’attesa per il discorso di Tantawi, creava un’ovvia sensazione di déjà vù. In tutto questo, i Fratelli musulmani manovrano: le proteste sono ottime per mettere pressione ai generali perché si facciano da parte e consegnino tutto il potere, ma non devono essere così sanguinose da annullare la giornata del voto ormai vicina. Ieri però potrebbero avere sbagliato e peccato di eccessiva prudenza non unendosi alla protesta a Tahrir.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Trucco degli islamici: ora lasciano la piazza"

Fratelli Musulmani
Il trucco c’è ma non si vede. Non si vede perché i Fratelli Musulmani in piazza Tahrir non ci sono. Mentre il loro grande nemico, il capo del Consiglio militare Mohamed Hussein Tantawi annuncia la nascita di un nuovo governo di unità nazionale e si dice pronto a lasciare il potere entro il 30 giugno i Fratelli Musulmani si tengono alla larga da scontri, manifestazioni e disordini. Seguono alla lettera l’appello di Mohamed Beltagy, uno dei capi di Libertà e Giustizia, il partito considerato il loro paravento politico. «Nonostante sottoscriva le ragioni della vostra rabbia nessuno deve farsi coinvolgere in un escalation capace di generare caos e gravi danni, non dovete - scrive Beltagy - offrire occasioni a chi cerca giustificazioni per ritardare la transizione verso un esecutivo civile con pieni poteri e continuare il cammino della gloriosa rivoluzione».
Il trucco, nascosto dietro gli scontri, il sangue e la quarantina di morti di piazza Tahrir, è tutto lì. In quell’appello si cela il piano dei Fratelli Musulmani per arrivare in fretta al voto, conquistare il potere e non mollarlo più. Per capirlo basta collegare parole e fatti. L’ultima ondata di scontri inizia venerdì quando i Fratelli Musulmani guidano il ritorno in piazza sfruttando la massa critica dei fedeli delle moschee. Ma slogan, proteste e scontri a loro interessano poco. Li lasciano agli utili idioti laici e liberali. Agli stessi a cui, nove mesi fa, fecero credere di esser i veri protagonisti della rivoluzione. E così dopo aver lanciato il sasso, dopo aver innescato la «seconda rivoluzione» ritirano i propri militanti, lasciano che a protestare, morire e delegittimare i generali siano gli avversari liberali e laici. Ogni cadavere, ogni ferito, ogni proiettile è un voto in più per loro e tanta credibilità in meno per il Consiglio Supremo dell’odiato feldmaresciallo Tantawi. Del resto perché manifestare. Come spiega Beltagy quel che conta sono le elezioni. I Fratelli Musulmani, grazie alla loro ben oliata macchina politico- religiosa sono gli unici in grado di conquistare un maggioranza assoluta, monopolizzare il parlamento, varare una costituzione islamica, conquistare la presidenza e guidare il governo. Tutto il resto conta poco. I primi a saperlo sono Tantawi e i generali che ora capiscono di esser caduti in trappola. Una trappola preparata da quei Fratelli Musulmani con cui l’ex ministro della difesa e i suoi generali negoziano sottobanco fin dallo scorso febbraio. Una trappola finale scattata ad una settimana dalla tornata elettorale che inizia il 29 novembre per concludersi a primavera.
Nell’ambito di questa grande sfida tra generali e islamisti le dimissioni del governo fantoccio del premier Essam Sharaf sono un evento assolutamente irrilevante. Sharaf, non a caso, deve attendere il via libera dei generali per potersene andare. E questi ultimi prima di licenziarlo discutono proprio con i Fratelli Musulmani la formazione di un esecutivo di unità nazionale guidato dall’ex presidente dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Mohammed el Baradei. Conosciutissimo all’estero El Baradei resta l’espressione di un’elite lontanissima dalle decine di milioni di diseredati condannati a vivere con 50 euro al mese su cui si basa la forza elettorale degli islamisti. Accettando la carica El Baradei renderà solo un servizio ai due grandi duellanti. Consentirà ai Fratelli Musulmani di arrivare al voto fingendo di non esser scesi a compromessi con il potere. Offrirà ai militari un altro paravento per restare in sella e rimandare la data dell’addio al potere. Secondo quanto promesso ieri da Tantawi quella data dovrebbe coincidere con lo svolgimento delle elezioni presidenziali e con il 30 giugno del prossimo anno. In verità quella data la decideranno i Fratelli Musulmani quando tratteranno la resa dei generali con la forza dei propri voti. Con buona pace della rivoluzione liberale e dei suoi utili idioti.
Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Incerta e disinformata. Ecco perché l’America non vuole intervenire "

Vittorio Dan Segre
Il nuovo incontrollabile protagonista nella drammatica situazione egiziana è la paura. Da una parte c’è la paura assieme al rispetto dell'autorità costituita che i rivoltosi hanno perduto. Dall’altra c’è la paura e il crollo di prestigio che attanagliano i militari assieme alle classi abbienti e le amministrazioni nella valle del Nilo. Il punto comune fra potere e piazza che si confrontano è la confusione. La piazza non è un fronte. Non la unisce altro che la comune rabbia e desiderio di giustizia e vendetta. I Fratelli musulmani che hanno dato fuoco alle polveri con la manifestazione di «un milione in piazza Tahrir» di sabato scorso hanno annunciato che non parteciperanno più a manifestazioni atte a provocare vittime.
Non voglionorompere la fragile e opportunista alleanza coi militari di cui sanno di aver bisogno una volta al potere.
Quanto ai cosiddetti «movimenti laici » - giovani, intellettuali arrabbiati, gente disoccupata che non ha nulla da guadagnare se non istanti di dignità antica e di identità nuova - tutti questi gruppi hanno sprecato i mesi dal tempo della caduta di Mubarak in vani conati politici privi di strutture leader e idee costruttive. Sono «contro» ignari di politica e inebriati dalla rivoluzione, sessantottini senza ideologie e reciproco rispetto religioso, ben lontani dall’immagine che se ne fanno i media occidentali.
La Giunta militare erede corrotta e ingrassata della Giunta nasserista del 1952 ha contrariamente al modello originale tutto da perdere e nulla da guadagnare. Ha commesso esitazioni e errori nel condurre la transizione. I suoi alleati sono oggi le classi medie preoccupate soprattutto dal crollo della sicurezza urbana, dalla crisi economica, dalla perdita di prestigio nazionale. Cercano un nuovo «faraone» dal pugno di ferro che per il momento non c’è. Sarà difficile a emergere perché nel corso dei millenni il faraone è sempre stato «generato» dalle campagne che il dio Nilo creava. Oggi un terzo degli 80 milioni di egiziani vive in centri urbani, dove l'acqua da bere non arriva, i servizi sociali sono di livello africano, e i campi fioriti la gente li vede in TV. L’alternativa politica parrebbe essere o il ritiro dei militari dal potere e un lungo periodo di tensione politica e interconfessionale o il loro mantenimento col ritorno di una stato di emergenza accompagnato dal ritrovamento di un nemico su cui tentare di dirigere le passioni delle folle. Israele e l’America sono i più facili anche se finanziariamente più utili bersagli tanto per i Fratelli musulmani quanto per un candidato laico alla presidenza gettonato come Mussa Amr ex ministro degli esteridi Mubarak e Segretario della sinora impotente Lega Araba. Washington presa fra il desiderio di ritrovare simpatie sostenendo piazza e moschea e quello di non perdere influenza sui militari che foraggia con 1200 milioni di dollari all'anno appare incerta e disinformata. Del resto con tutti i suoi apparati di intelligence e il suo denaro non ha neppure previsto ciò che è accaduto in Libano dove la CIA ha fornito ai servizi di sicurezza militari sofisticati sistemi di ascolto e controllo elettronico miranti a migliorare la sicurezza del Paese nei confronti dello spionaggio israeliano. Questi sistemi sono finiti nelle mani competenti degli Hezbollah aiutati dagli iraniani. Con essi hanno abbattuto il governo pro occidentale del premier Hariri junior. Forse non è il disastro che si potrebbe immaginare se è ancora valida l'opinione di un ambasciatore americano di 20 anni fa: un libanese si può sempre comprare; possedere mai.
La REPUBBLICA - Gilles Kepel : " Ripartire dalle proteste per finire la rivoluzione "

Gilles Kepel
All'analisi di Gilles Kepel manca una parte, quella riguardante il ruolo dei Fratelli Musulmani e il loro ruolo nel futuro dell'Egitto. Sottovalutare il loro peso e i rischi connessi alla loro ascesa è un errore, dal momento che, con essi, l'Egitto si trasformerà in una teocrazia stile Iran, non di certo un 'successo democratico'.
Ecco il pezzo:
LA SECONDA occupazione della piazza Tahrir indica che le rivoluzioni arabe sono approdate a un'altra fase della loro storia. Dopo gli entusiasmi democratici della scorsa primavera, che avevano fatto credere che sarebbe bastato cambiare un capo di Stato per cambiare la società, salta agli occhi invece che i processi rivoluzionari hanno bisogno di più tempo per realizzarsi pienamente. Nei Paesi arabi, come in Russia o in Francia nel passato, la rivoluzione è una dialettica complessa, e coloro che ne escono vincitori non sono perforza quelli che per primi vi sono entrati vincenti. La sola rivoluzione che sembra proseguire il suo corso in modo relativamente sereno è quella tunisina, probabilmente per via di una classe media colta che ha voluto l'istituzione di un organismo perla salvaguardia dei valori della rivoluzione. Quest'istanza ha permesso la transizioneverso una fase costituente. Tuttavia, anche inTunisia sono gli islamisti moderati di Ennahdahche oggi occupano la scena in primo piano, senza essere stati quelli che avevano iniziato la rivoluzione. Ciò è proba-bilmentedovuto affatto che leforze laiche non sono state capaci di mostrare come avevano tagliato ogni ponte con i regimi deposti. Il problema è che sono queste forze laiche le sole in grado di proporre un'organizzazione economica per risolvere i problemi sociali. In Egitto non c'è stata nessuna struttura simile alla alta istanza tunisina, ma sono gli apparati più forti dell'exdittatura, e in particolare lo Stato maggiore militare, che hanno continuato a controllare le leve del potere. Ciò ha scatenato una nuova esasperazione popolare, poiché non c'è stata nessuna rottura dell'apparato dello Stato con il precedente sistema di governo. Una volta caduta la testa di Mubarak, il corpo del potereèrimasto in piedi, talee quale a prima. A peggiorare le cose è stato il rifiuto dell'esercito di indireimmediate elezioni presidenziali, per non correre il rischio di dover obbedire agli ordini di un presidente civile.Anche per questo motivo ci saranno elezioni legislative preliminari, a tre turni, secondo il vecchio sistema, che si presta a ogni tipo di manipolazione, alla rielezione di membri del passato regime e ad alleanze tra le gerarchie militari e quelle dei fratelli musulmani. In Tunisia s'è invece prodotta una rivoluzione nell'accezione più marxista del termine. Dopo l'immolazione di Mohammed Bouazizi, hanno cominciato col sollevarsi i poveri all'interno del Paese. A questo movimento s'è aggiunta la borghesia delle città della costa, e le due classi hanno messo da parte i propri interessi e, in un momento di entusiasmo, si sono sbarazzate del tiranno, con l'esercito che ha saputo abbandonare la scena per tempo e tornare nelle caserme. E' bastato questo ad assicurare una transizione democratica, garantita dalla mobilitazione popolare. Diversamente in Egitto non c'è stata una tale mobilitazione. C'è stato solo lo spettacolo di piazza Tahrir, riempita da numerosi attivisti, ma comunque pochi rispetto agli 80 milioni di egiziani. E' stata una rivolta molto spettacolare che ha convinto siai militari sia gli Stati Uniti a far cadere Mubarak, senza però consentire ai giovani attivisti egiziani di capitalizzare i risultati del loro successo. E' per questo che oggi si assiste alla fase "due" della rivoluzione. Una fase che vorrebbe ritornare agli albori del movimento, nel tentativo di controllarlo meglio. Bisogna chiedersi come potranno tenersi le elezioni la settimana prossima. E' ovvio che se si svolgeranno nella violenza, il loro esito sarà imprevedibile. Ora se l'esercito egiziano sapesse gestire la sua immagine, il popolo voterebbe senz'altro contro quei "vandali" che lanciano i sassi e incendiano le auto. Ma i militari egiziani non sono mai stati molto abili nell'arte di questo tipo di propaganda.
La STAMPA - Paola Caridi : " Blogger, islamici e liberali uniti dalla lotta per i diritti "

Paola Caridi
Analisi più ottusa non poteva essere pubblicata.
"Sono i diritti che uniscono i giovani dalle provenienze più diverse, i poveri e i borghesi, gli islamisti e i liberal, le ragazze più occidentalizzate e quelle velate.". Gli islamisti sarebbero interessati ai diritti umani? Gli islamisti che inneggiano alla sharia manifesterebbero per la democrazia e i diritti?
Paola Caridi, nota per la disinformazione che diffonde su Israele (la stessa di Filippo Landi sul TG3), ora disinforma anche sull'Egitto (per maggiori informazioni, digitare il suo nome nella casella 'Cerca nel sito', in alto a sinistra sulla Home Page di IC).
Ecco il pezzo:
Hanno risposto alla chiamata come avevano fatto a gennaio e a febbraio di quest’anno, nei diciotto giorni della prima fase della rivoluzione egiziana. Così gli ultras delle due amate squadre di calcio del Cairo, lo Zamalek e Al Ahly, sono accorsi a piazza Tahrir nei due giorni di scontri che hanno preceduto l’enorme manifestazione di ieri. E hanno difeso la piazza.
«Impossibile non sentirli», dicono i testimoni. I loro canti, i tamburi, e poi i fumogeni. Centinaia, migliaia, decine di migliaia. Gli ultras sono stati (e sono ancora) in prima linea nel difendere Tahrir dalla polizia. Soprattutto nella strada diventata il cuore della battaglia, la via Mohammed Mahmoud che parte dalla piazza e costeggia il vecchio campus dell’American University.
Del catalogo delle persone scese in questi mesi in piazza, gli ultras fanno parte a pieno titolo. Osannati dagli attivisti, ma poco esperti sui modi per affrontare la polizia. Avevano già fatto vedere di che cosa fossero capaci lo scorso anno, quando il centro della città era stato illuminato dai fuochi e dagli scontri per una partita della nazionale con tutte le sembianze, però, di uno scontro sociale.
In questi giorni hanno avuto anche i loro martiri, caduti sotto il nugolo di proiettili rivestiti e di quei lacrimogeni lanciati dalla polizia che tutti, dai medici ai testimoni, considerano la causa delle morti per asfissia. Non politicizzati come gli altri protagonisti della piazza, gli ultras rappresentano, però, quella società informale, quel magma sociale che già aveva partecipato alla prima fase della rivoluzione. E che ora è di nuovo lì «a dare la scossa», come spiega Gennaro Gervasio direttamente da piazza Tahrir. Docente alla British University del Cairo, storico e arabista, Gervasio è convinto che questa volta «la strada è stata l’unica forza che è riuscita a smuovere una situazione in stallo». A dare la scossa, a «riaffermare la sua sovranità».
Contro chi? Non solo contro i militari, percepiti sempre di più come parte del regime: un cambiamento importante rispetto allo scorso gennaio, quando le forze armate erano state accolte dalle forze rivoluzionarie. Con il passare dei mesi, però, la piazza si è mobilitata contro i partiti, accusati di troppi compromessi con il Consiglio Militare Supremo. Perché Tahrir, in fondo, si è sentita scippata della «sua» rivoluzione. La transizione, finora, non ha prodotto granché, ma ha marginalizzato i due veri protagonisti del 25 gennaio 2011: i giovani e le classi subalterne. I ragazzi, le donne, i poveri, la gente della strada. Quelli che volevano, con la caduta dell’autocrazia, riprendersi il futuro e la dignità.
Difficile da comprendere in Occidente è che Tahrir è l’espressione di quelli che il sociologo Asef Bayat definisce i «non movimenti sociali», cioè la politica della strada, fuori dalle organizzazioni e dalle strutture. Un magma che non è massa di manovra, ma riesce a unirsi su richieste e obiettivi ben precisi.
I protagonisti di questa invisibile rete di relazioni sono tutti scesi di nuovo a Tahrir, più determinati di prima. A cominciare dagli attivisti, i blogger, in prima fila contro i tribunali militari. Provenienti da culture politiche diverse, sono una vera e propria comunità che si è consolidata negli anni attorno a un solo, formidabile collante. I diritti. Tutti i diritti: individuali, umani, civili, sociali. Sono i diritti che uniscono i giovani dalle provenienze più diverse, i poveri e i borghesi, gli islamisti e i liberal, le ragazze più occidentalizzate e quelle velate. Snobbato dalla vecchia politica, il collante delle garanzie, dello Stato di diritto, ha di nuovo riempito Tahrir. Perché la polizia non può più reprimere e uccidere così impunemente. Molti, tra quelli che erano in piazza ieri, avevano visto le foto e i video dei cadaveri oltraggiati, della gente pestata.
La democrazia – dice la folla che riempie Tahrir – non può essere garantita dalle forze armate. La richiesta, non negoziabile, è una sola: i militari devono tornare nelle caserme, e il potere politico deve passare a un’autorità civile.
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