Egitto e Siria in due servizi, il primo sul CORRIERE della SERA, con nil commento di Cecilia Zecchinelli, il secondo una intervista uscita sul Sunday Times ripresa da REPUBBLICA:
Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " In Egitto tutti contro i militari, unità effimera a pochi giorni dal voto "

Centinaia di poliziotti antisommossa con lacrimogeni, proiettili in gomma, blindati. Migliaia di manifestanti con molotov e sassi. Le povere tende di piazza Tahrir sgombrate, feriti, ambulanze, terrore. Un tragico déjà vu per l'Egitto, che ieri ha in parte rivissuto i 18 giorni della Rivoluzione. Soprattutto quel Venerdì nero, il 28 gennaio, quando furono tantissimi i manifestanti uccisi proprio dalla polizia, soppiantata già all'indomani dai militari che si schierarono con la rivolta, i loro tank ricoperti di fiori e bandiere. Ma ieri gli slogan non chiedevano la «caduta del regime» e dell'anziano raìs, né cantavano «il popolo e l'esercito mano nella mano». Questa volta urlavano invece la fine della giunta militare di transizione guidata dal maresciallo Tantawi.
A soli nove giorni dall'inizio della maratona elettorale che in quattro mesi porterà finalmente a un parlamento eletto — per un nuovo presidente i tempi si allungano ancora e non sono nemmeno chiari — la rabbia e la delusione sembrano prevalere sulla speranza, a differenza di quanto fu allora. La repressione di molte voci contro la giunta a partire dai blogger giudicati dai tribunali militari o sepolti in cella, i recenti tentativi dei generali di arrivare a una nuova Costituzione che mantenga gran parte dei loro enormi poteri sul prossimo governo, la disastrosa situazione economica sono ormai denunciati da tutti, islamici e liberal, copti e musulmani.
«Tantawi è riuscito a riunirci di nuovo contro la sua giunta», ha detto ieri un manifestante a Tahrir, dove il giorno prima erano stati i gruppi salafiti a dimostrare massicci, poco lontano dai quartieri cristiani come Shubra e Bulaq dove continuano gli scontri tra copti e salafiti e bande accusate di essere legate al potere di transizione. Ma anche l'affermazione del dimostrante non è vera: unite nell'attaccare i generali che tentano (o almeno dicono) di trasformare il vecchio ordine nel nuovo, le mille anime dell'Egitto sono divise su molto altro, e in competizione tra loro. Fino a che punto lo si vedrà nei prossimi giorni, con le prime, tanto attese elezioni libere.
La Repubblica-Hala Jaber: " Assad avverte il mondo, un attacco alla Siria sarebbe un terremoto"

Ha tutta l´aria del giovane manager. Difficile, infatti, figurarsi che il personaggio sorridente in abito scuro, ora preso a salutare lo staff, borsa in mano, mentre entra nel Palazzo Tishreen, non lo sia. Eppure ecco Bashar al-Assad, il presidente siriano nel cui nome sarebbero state uccise più di 3500 persone in otto mesi di violenze culminati la scorsa settimana in scontri armati paragonati dal ministro degli Esteri russo a una guerra civile. Assad, 46 anni, è fatto segno a critiche internazionali. Gli ex alleati della Lega araba gli hanno dato tempo fino a ieri per porre fine alla «sanguinosa repressione», minacciando sanzioni economiche.
Gli chiedo cosa provi - da padre di due figli maschi di 6 e 9 anni, e di una bimba di 8 - vedendo le immagini di piccoli innocenti uccisi negli scontri? «Soffro, come qualunque altro siriano. Ogni goccia di sangue versato mi tocca personalmente. Ma nel mio ruolo di presidente devo pensare ai passi da compiere per evitare ulteriori spargimenti di sangue: ai fatti, non alle parole o al dispiacere».
Le bande armate
La soluzione, insiste, non è nel ritiro delle sue forze, ma nell´eliminazione dei militanti, a suo avviso i principali responsabili degli scontri a fuoco. «L´unica via è cercare e inseguire le bande armate, bloccare l´afflusso di armi dai Paesi vicini, prevenire il sabotaggio e imporre la legge e l´ordine».
La Lega Araba
Per Assad, la mossa della Lega Araba ha lo scopo «di dare a vedere che esistono problemi tra gli arabi, fornendo così un pretesto ai Paesi occidentali per un intervento militare contro la Siria. Ma avverte che la conseguenza sarebbe «un terremoto che scuoterebbe tutto il Medio Oriente».
La repressione
Assad riconosce che sono stati commessi errori da parte delle forze di sicurezza, ma li attribuisce a singoli individui. «La politica dello Stato non è di crudeltà verso i cittadini: «L´importante è scoprire chi ha sbagliato e chiamarlo a rispondere dei suoi errori. E questo in molti casi è stato fatto». Nelle città dove sono avvenute le peggiori atrocità, soldati che hanno colpito contestatori inermi, e ufficiali che hanno dato ordine di sparare, sono stati arrestati; ma molti sono rimasti impuniti.
Le vittime
Assad respinge il numero dei morti, a suo avviso esagerato dall´opposizione che avrebbe contato fra le vittime persone poi risultate vive. Secondo il regime il totale non è 3500, come sostengono gli attivisti, ma 619 divisi fra dimostranti colpiti dal «fuoco incrociato» tra forze di sicurezza e bande armate, vittime di assassinii di natura settaria, e sostenitori del regime. Resta il fatto che molti civili innocenti sono stati uccisi. «Nessun essere umano può far tornare indietro il tempo, ma può dar prova di saggezza. Il mio ruolo - anzi, la mia ossessione quotidiana - è di fermare il sangue versato da terroristi armati che colpiscono in alcune aree». Secondo Assad, sono morti anche 800 uomini delle forze di sicurezza, alcuni uccisi da islamisti, altri da disertori.
Il destino dei dittatori
In altri Paesi, le richieste di riforme hanno avuto esiti nefasti per i rispettivi leader: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto e Muammar Gheddafi in Libia. Ma per Assad il caso della Siria è diverso: altrimenti, dice, vi sarebbero già stati altri sviluppi. Le manifestazioni in suo favore dimostrano che gode ancora di un notevole sostegno, benché impossibile da quantificare. Vi sono poi altri due fattori che accentuano l´importanza degli sviluppi in Siria: la delicata posizione del Paese, al confine con Iran, Iraq e Israele. E la composizione religiosa. L´élite alawita rappresenta il 12% della popolazione, a fronte del 74% dei sunniti, la cui ascesa al potere potrebbe avere conseguenze imprevedibili sui fragili rapporti tra la Siria e i suoi vicini, soprattutto se acquistassero peso i militanti fondamentalisti.
Le pressioni internazionali
Nel 1982 Hafez al-Assad, il padre, soffocò una rivolta islamista a Hama: la stima fu di 20 mila morti. Il figlio sembra altrettanto determinato a schiacciare ogni espansione del fondamentalismo, nell´interesse della stabilità: un fattore che a suo parere contribuisce a garantirgli il sostegno da parte di Russia, Cina e Iran. Anche Londra e Washington paventano una destabilizzazione della Siria, che farebbe tremare l´intera regione. «Il conflitto continuerà, come le pressioni per soggiogare la Siria. Però il mio Paese non si piegherà».
Le elezioni
Milioni di siriani sono scesi in piazza per rivendicare libere elezioni, il rilascio dei prigionieri politici e la fine delle brutalità e torture della polizia. Assad sostiene di aver avviato un processo di riforme sei giorni dopo l´inizio delle proteste: ma parte degli oppositori avrebbe risposto con le armi. «Adesso, dopo 8 mesi, il quadro ci è chiaro … Non è questione di proteste pacifiche, ma di un´operazione armata». Tuttavia Assad intende indire elezioni in febbraio o marzo. «Avremo un nuovo parlamento, poi un nuovo governo. Una nuova Costituzione stabilirà le modalità dell´elezione del presidente. E assicura che in caso di sconfitta elettorale rinuncerà alla carica. «Sono qui per servire il Paese, non spetta al Paese servire me».
Combatterò fino alla fine
Assad definisce «irrilevante» la decisione della Lega araba, e benchè lui concordi che le sanzioni economiche danneggerebbero il Paese, occorre trovare il modo per ridurne l´impatto. Quel che lo preoccupa, però, è che i leader arabi vicini all´Occidente preparino il terreno per un intervento internazionale sul modello libico. Si dice che la Turchia consideri proposte per una zona cuscinetto sul versante siriano del confine, per proteggere la popolazione civile. Si approfondisce il sospetto di una qualche forma di azione militare contro la Siria. Se così fosse, lui sarebbe pronto a combattere e a morire? «Sì, assolutamente: è fuori discussione». Si batterà per conservare la presidenza? «No di certo, perché vorrebbe dire lottare per me stesso e non per la Siria. Se dovrò combattere, lo farò la Siria e il popolo siriano».
(© The Sunday Times
traduzione Elisabetta Horvat)
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