Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Tunisia: arrivano i salafiti Persino il quotidiano di Rocca Cannuccia se ne accorge. E il Foglio?
Testata:Il Manifesto - Il Foglio Autore: Giuliana Sgrena - Andrea De Giorgio Titolo: «Le donne, prime vittime della follia salafita. In Tunisia attacco ai diritti - Tra i palazzi bruciati di Sidi Bouzid si cerca la formula magica della transizione, tra islam ed ex del regime»
Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 03/11/2011, a pag. 9, l'articolo di Giuliana Sgrena dal titolo " Le donne, prime vittime della follia salafita. In Tunisia attacco ai diritti ". Dal FOGLIO, a pag. III, l'articolo di Andrea De Georgio dal titolo " Tra i palazzi bruciati di Sidi Bouzid si cerca la formula magica della transizione, tra islam ed ex del regime", preceduto dal nostro commento. Ecco i due articoli:
Il MANIFESTO - Giuliana Sgrena : " Le donne, prime vittime della follia salafita. In Tunisia attacco ai diritti"
Giuliana Sgrena donne col niqab
«Dégage, dégage». Un gruppo di salafiti appostati lungo il muro della Città delle scienze, il campus universitario dell’Ariana (Tunisi), usa lo stesso slogan dei rivoluzionari contro Ben Ali per apostrofare le donne che passano di lì. Molte arrivano per partecipare alla riunione indetta da un Forumuniversitario per decidere come reagire alle aggressioni degli studenti contro una docente che non porta il velo. Quello dell’Ariana non è l’unico caso, altri se ne sono già verificati. La mobilitazione è in corso anche aManouba, altra periferia, più povera, di Tunisi. La sala dove si tiene la riunione è stracolma e viene chiusa ai non universitari. Cerchiamo un taxi, non ne passano molti, la zona è un po’ isolata. Finalmente ne arriva uno, scendono tre barbuti, ci avviciniamoma l’autista si rifiuta di farci salire: «Il taxi è in panne» dice e poi parte. Se qui gli studenti aggrediscono le insegnanti senza velo, in altre città, come a Sousse e Nabel, i salafiti vogliono imporre le studentesse con il niqab. «Così non potremo nemmeno più riconoscerle», ci dice Nadjia Neji, che è venuta a Tunisi permanifestare per la difesa dei diritti delle donne. Lamanifestazione, indetta da un gruppo di sconosciute attraverso Facebook e sms, ha raccolto poco più di un centinaio di donne,molto agguerrite. Ieri hanno occupato il centro della piazza della Kasbah, dove ha sede il governo. La loro parola d’ordine è «una costituzione garante dei diritti della donna tunisina», sostanzialmente difendono i diritti acquisiti, mentre le associazioni di donne vogliono la parità uomo-donna. Lamancanza di sigle riconosciute sulla convocazione della manifestazione di ieri, ma anche della riunione che si è tenutamartedì al Centro culturale di al Menzah, ha suscitato molte perplessità e dubbi. Chi c’è dietro queste undici donne anonime che dicono di aver deciso queste azioni durante un pranzo? E che hanno già fissato appuntamenti con i vari leader politici,compreso il premier (ancora per poco) Béji Caid Essebsi? C’è chi teme si tratti di un’operazione del disciolto partito Rcd di Ben Ali, chi invece di En-nahda, perché nell’appello c’è un riferimento ad Allah. La Tunisia sta attraversando unmomento delicato e la vigilanza non èmai troppa. Molte donne però sono angosciate: non si fidano delle rassicuranti parole dei leader islamisti, tanto più che lo sceicco Ghannouchiè già partito per il Qatar a rendere omaggio all’Emiro (che lo finanzia) e al suo mentore Qaradawi. La tensione è aumentata dopo gli attacchi alle insegnanti e le provocazioni di giovani zelanti che infastidiscono le donne per strada se non portano una gonna che arriva alle caviglie o il velo. Così anche alcune donne che non sono convinte dell’ingenuità delle organizzatrici della manifestazione sono arrivate alla Kasbah. «Io penso che avremmo dovuto essere molte di più,manca l’organizzazione, non c’è nessuna che conosco qui», dice Latifa Bekky. Perché è venuta, ha paura? «Sì io ho paura, insegno storia dell’islam all’università e se dovessi dire qualcosa che nonpiace agli islamisti correrei dei forti rischi», dice. «E poi, aggiunge, i partiti che si ispirano alla religione possono imporci un modello di società chenon rispetta i nostri diritti». Hamsani è ancora più arrabbiata, ha votato Ettakatol e adesso il partito sta trattando per andare al governo con En-nahda. «Sono dei traditori - dice riferendosi ai dirigenti del partito -, non esistono islamistimoderati, noi abbiamo fatto una rivoluzione per la libertà e non vogliamo perderla». A impressionare nella piazza è l’aggressività degli uomini, giovani e meno giovani, che osservano le donne. Uno di loro trascina una donna anziana velata verso le manifestanti e urla «questa è una vera tunisina, voi non siete tunisine». In questi giorni abbiamo potuto verificare che la vittoria di En-naha è innanzitutto una vendetta dei maschi contro le donne.Molti maschi parlano delle donne come se fossero tutte depravate, profittatrici, che fanno quello che vogliono. «Io mi sento castrato, violentato dalle donne, sostiene uno di loro, ma adesso le cose cambieranno». Votando En-nahda pensa di aver riacquistato la sua virilità. E non è l’unico a pensarlo.
Il FOGLIO - Andrea De Georgio : " Tra i palazzi bruciati di Sidi Bouzid si cerca la formula magica della transizione, tra islam ed ex del regime "
Rachid Ghannouchi, leader del partito islamista Ennahda
La Tunisia descritta da De Georgio sembra un'altra rispetto a quella descritta da Giuliana Sgrena nel suo articolo. Se persino il quotidiano comunista mette in guardia i suoi lettori riguardo all'avvento dei salafiti in Tunisia, stupisce che il Foglio sottovaluti la situazione pubblicando l'articolo ottimista di De Georgio che segue:
Sidi Bouzid (Tunisia). I muri di Sidi Bouzid parlano. “Gloria ai martiri”, “Restate in piedi tunisini, tutto il mondo è fiero di voi”, “Libertà è uguaglianza”, “Combatteremo fino alla vittoria o fino alla morte”, “Alzati in piedi e combatti per i tuoi diritti”, “RCD fuori!” (Rcd era il partito del regime). Qui è scoppiata la rivoluzione dei gelsomini che ha portato alla cacciata del rais di Tunisi, Ben Ali. Qui è nata la primavera araba, in un giorno di dicembre, “dovete scrivere che la rivoluzione è cominciata qua il 17 dicembre e non a Tunisi il 14 gennaio, come dicono tutti”, ci dicono. Ci sono tante scritte che inneggiano allo “shaid”, martire, Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante che, dandosi fuoco nella piazza che ora gli è dedicata, ha fatto esplodere la rivolta. Questa cittadina nell’entroterra rappresenta l’altro volto della Tunisia, senza gli sfarzi della capitale né il mare e il turismo. E’ un piccolo centro rurale, l’immondizia è dappertutto, tassi di disoccupazione e povertà che non lasciano speranza, soprattutto ai giovani. Questa città e Kasserine e Gafsa – stessa regione, stessi problemi – sono il centro della rivolta contro il potere centrale: era così quando c’era Bourguiba, è stato così con Ben Ali, è così oggi, nella nuova Tunisia di Ennahda, il partito islamico che ha vinto le elezioni del 23 ottobre. Nella settimana dopo il voto, l’Isie – l’Istance Supérieure Indépendante pour les Eléctions – ha deciso di invalidare i voti ottenuti a Sidi Bouzid e in altri cinque governatorati da Aridha Asshabiyya (Petizione popolare), il movimento guidato da Hacmi Hamdi che si è imposto a sorpresa al terzo posto nei risultati elettorali. Ex esponente di Ennahda, Hamdi è un miliardario nato a Sidi Bouzid che da anni vive in esilio volontario a Londra: ha fatto campagna elettorale dagli schermi della sua tv privata al Mustakillah, ha conquistato un sacco di voti ed è stato sanzionato a seguito di irregolarità legate ai finanziamenti stranieri e alla presenza di candidati appartenenti all’ex partito di regime, l’Rcd. I leader di Ennahfa e del Cpr (Congresso per la Repubblica, secondo partito, 30 seggi nell’Assemblea costituente contro i 90 degli islamici) hanno criticato i voti di Sidi Bouzid andati al partito di Hamdi, e così è scoppiata la rivolta. Venerdì scorso sembrava una manifestazione pacifica. Poi sparuti gruppi di giovani hanno saccheggiato, distrutto e bruciato il municipio, la base della Guardia nazionale, il Palazzo di Giustizia, una sede ministeriale, l’ufficio di Ennahda e due ong. E’ stato imposto il coprifuoco, l’esercito è entrato in città con una decina di mezzi pesanti e due grossi camion pieni di soldati. Hussein Jellaly, gentile impiegato statale sulla quarantina, dice al Foglio che lui ha votato per Ennahda, come il suo amico Rachid che siede accanto a lui in un tipico salotto arabo tutto archi, fiori finti e quadretti kitch. La moglie Hana, con il velo e lo sguardo gentile, e un nipote di 24 anni laureato in Ingegneria agronoma (disoccupato) hanno votato per Petizione popolare. Hana contraddice spesso il marito, adducendo l’argomentazione più comune fra la gente di Sidi Bouzid: “Hacmi (qui lo chiamano tutti confidenzialmente per nome, ndr) è figlio della nostra città. E’ un buon musulmano ed è ricco. Farà il bene della nostra gente, portando nella capitale le nostre richieste e i nostri problemi. Tutti gli altri politici se ne fregano”. “Non è vero. E’ amico degli Rcdisti – risponde il marito – Soltanto Ennahda ha da sempre fatto opposizione al regime, la gente lo sa bene e infatti lo hanno votato in tanti”. La tv è accesa, quando compare il volto di Rachid Ghannouci, il leader di Ennahda, cala il silenzio. Promette di creare un polo industriale nella regione di Sidi Bouzid in modo da creare nuovi posti di lavoro, a Hussein brillano gli occhi: “E’ la prima volta che sento un politico dire una cosa del genere. Forse non abbiamo votato invano, inshallah”. Fra i vari interventi in onda su Hannibal tv, la rete locale privata più seguita nel paese, arriva una telefonata di Hacmi Hamdi che, oltre alla solita retorica coranica e populista e gli attacchi a tutti, invita la gente di Sidi Bouzid alla calma, annunciando di voler fare marcia indietro rispetto alla decisione di ritirare tutti i candidati di Aridha. La protesta è finita. Rimane lo strascico di rabbia che queste elezioni, le prime libere della storia della Tunisia, lasciano soprattutto nei giovani, che temono che la loro rivoluzione venga tradita – che sia già stata tradita. Il giorno dopo la rivolta, fra macchine bruciate, panchine di pietra fracassate e lampioni divelti, la gente di Sidi Bouzid vuole spazzare via i pregiudizi e la cattiva pubblicità. Zeyd Abdallah, un avvocato, dice: “E’ una barbarie inaccettabile. Qualcuno ha approfittato della rabbia della gente per far sparire i documenti che provavano i loro crimini. Hanno pagato giovani di fuori per fare tutto questo. Molto probabilmente sono stati gli ex del regime, ma non abbiamo prove. Hanno bruciato anche il comune. L’intera storia della nostra città è andata in fumo in poche ore. Sono come barbari”. Non si sa con certezza se dietro alla degenerazione violenta della protesta di Sidi Bouzid ci siano effettivamente elementi dell’ex dittatura, ma certo la tensione in tutta la Tunisia fa il gioco di chi sostiene che il paese non è più sicuro dopo la cacciata del despota. Ma se a Tunisi Ennahda si affretta a promettere una coalizione forte con gli altri due principali partiti usciti dalle urne (Crp e Attakattol, movimento di Mustafa Ben Jaafar), un governo tecnico di unità nazionale entro massimo un mese e una nuova Costituzione, la piazza di Sidi Bouzid solleva una questione centrale nel processo di transizione. Come si fa a ripulire il paese dagli ex del regime senza incorrere in una caccia alle streghe pericolosa per il futuro economico e politico della nazione (vedi alla voce “debathizzazione” in Iraq?). L’Isie ha stilato negli ultimi mesi una lista di oltre 400 Rcdisti che ancora si nascondono nelle pieghe della nuova democrazia, ma non l’ha mai resa pubblica. Una commissione d’inchiesta – senza poteri giuridici – sta redigendo un report da sottoporre al nuovo apparato che, non appena verrà nominato dal nuovo governo, avrà il compito di processare e sostituire i quadri lealisti al partito di regime ancora attivi nelle istituzioni economiche e politiche del paese. Secondo Abd Al Rauf Ayadi, attivista per i diritti umani e avvocato di spicco, numero due di Marzouki e del Pcr, papabile futuro ministro della Giustizia, “bisogna riformare il sistema giuridico in modo da poter applicare quella che chiamiamo ‘giustizia transizionale’. Su questo punto siamo già d’accordo con Ennahda”. Parlando nella sede del suo partito, Ayadi – che ha passato 5 anni e mezzo in prigione e 10 agli arresti domiciliari per aver denunciato il regime di Ben Ali – è duro con gli ex della dittatura: ”Il voto popolare ha dato un segnale chiaro. Abbiamo vinto noi ed Ennahda perché siamo stati gli unici partiti contro l’Rcd. E ora dobbiamo fare giustizia per portare a termine la rivoluzione”. Sulla “giustizia transizionale” si giocherà molto del futuro del prossimo governo, e della Tunisia.
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