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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-Il Foglio Rassegna Stampa
29.10.2011 Tunisia: se la rivolta diventa anti islamica
Commenti di Dan Vittorio Segre, editoriale del Foglio, Costantino Pistilli, cronaca di Francesco De Remigis

Testata:Il Giornale-Il Foglio
Autore: Dan Vittorio Segre-Editoriale del Foglio-Costantino Pistilli-Francesco De Remigis
Titolo: «Se la rivolta adesso diventa anti islamica-La faccia triste della primavera araba-Il costo delle rivolte arabe ? La modica cifra di 55 miliardi di dollari-Voto col trucco, la Tunisia s'incendia ancora»

Oggi, 29/10/2011, l'attenzione dei nostri media è tutta rivolta alla Tunisia. IC dedica due pagine a cronache e commenti, divise tra 'informazione che informa' e 'critiche'. Ciò che avviene in Tunisia è di estremo rilievo per tutta l'area mediorientale, per questo IC segue con attenzione le vicende che coinvolgono i paesi arabo-musulmani, il cui sviluppo ha una grande importanza non solo nei confronti di Israele, ma coinvolge allo stesso tempo il futuro dell'Europa.

nell'immagine a destra: il sogno infranto
Ecco gli articoli:

Il Giornale- Dan Vittorio Segre: " Se la rivolta adesso diventa anti islamica "

Rashid Gannouchi

Le elezioni in Tunisia, che sem­bravano doversi sviluppare nella calma grazie anche agli osservatori stranieri e nono­stante l’esistenza di oltre cen­to liste in lizza, hanno avuto una brusca svolta per il peggio nella notte tra giovedì e venerdì.
La cancellazione del Partito Petition Populaire in sei circoscrizioni elettorali ha provocato violente reazioni portando all’incendio nella città di Sidi Bouzid della sede del partito islamico moderato Ennahda, vincitore indiscusso di questa prima prova di democrazia tunisina con il 40% dei voti.
La campagna del Partito Petition Populaire è stata interamente condotta dall’estero.
Avrebbe ottenuto il 26% dei suffragi e non è chiaro se dietro questo nome si nascondano o no i resti del vecchio partito del dittatore Ben Ali. Ma l’aspetto politicamente più interessante di questa violenza è che ha assunto un carattere nettamente anti islamico e che è scoppiata a Sidi Bouzid, città simbolo della primavera araba perché proprio qui si è dato alle fiamme il venditore di frutta che con il suo gesto ha dato il via alla rivolta.
Queste violenze non impediranno certo al partito Ennahada, che ha ottenuto il 40% dei voti e che avrà 90 seggi alla Costituente, di formare il prossimo governo di coalizione.
Ma lo porranno di fronte a tre problemi.
Il primo è che per governare il partito islamico dovrà accordarsi con una o più liste e che la scelta dipenderà non tanto dal carattere liberale di questi partiti ma dalla loro posizione verso il potere islamico.
Il secondo problema è che l’esperienza di un governo di coalizione fra islamisti e non islamisti sarà il vero banco di prova della democrazia tunisina.
Il terzo problema è che al di là dei numeri quello che si scontra in Tunisia - e che potrebbe avere importanti ricadute su altri Paesi arabi in preda alla rivoluzione - è il modo come affrontare la modernità.
Quello islamico, sinora, è stato di escludere di fatto dal potere chi si oppone all’islamismo.
Il modello liberale che difende il diritto dell’opposizione e della critica del potere costituito come essenza della democrazia e come sola garanzia della liberta ha poche radici nel tessuto sociale arabo, salvo in Tunisia dove l’influenza francese è ancora molto forte e il ruolo della donna importante a difesa dei diritti conquistati.
Questa è dunque la vera battaglia aperta otto mesi fa dalla «rivoluzione dei gelsomini», non quella dei numeri usciti dalle stazioni elettorali.
Le violenze ispirate dalla rabbia del Partito Petition Populaire (e probabilmente di altre formazioni che gridano alla manipolazione islamica delle elezioni) possono essere la prova della onestà di un partito «islamico moderato» oppure il pretesto per attuare anche in Tunisia la contro rivoluzione in nome dell’ordine pubblico.
Una contro rivoluzione che preannunciavamo su queste pagine per l’autunno e che già è visibile in altri Paesi arabi - Siria, Egitto, Qatar, Yemen.
La Tunisia diventa così il vero banco di prova di un movimento rivoluzionario arabo che si scontra con i problemi della modernità guardando tuttavia con ottica islamica al passato.
In questo affascinante contesto, il ruolo «democratico» della Libia sarà probabilmente altrettanto importante di quello turco e tunisino. 

Il Foglio- Editoriale:" La faccia triste della primavera araba"

 Hachni Hamdi       Simbolo del partito Petition Populaire

Sidi Bouzid, la città in cui ha avuto inizio la rivoluzione tunisina, è sotto assedio: in fiamme il municipio, la sede del governatore, assaltate la caserma della polizia e la sede di Ennahda, coprifuoco. E’ la prima “rivolta contro la rivolta araba”. La scintilla della protesta è stata la decisione dell’ufficio elettorale di cancellare sei seggi al partito Petizione popolare per la libertà (Ppl), il terzo nelle urne dopo Ennahda, “per irregolarità nei finanziamenti dall’estero”. Il leader del Ppl, il tycoon televisivo Hachmi Hamdi, ha ritirato i suoi 19 deputati restanti dalla Costituente (alcuni hanno disobbedito) e ha chiamato a manifestazioni contro Ennahda. A eccitare i manifestanti è l’originale creatura di Hachmi Hamdi, che non s’è mai mosso da Londra ma ha costruito il successo della sua lista incrociando trasmissioni infuocate della sua Tv Libre con l’alleanza con i signorotti locali del partito di Ben Ali. A Sidi Bouzid ha raccolto 48 mila voti, contro i 16 mila di Ennahda, sommando il populismo alla rete clanica degli ex gerarchi locali, sotto la copertura dell’ideologia laica della tradizione. Questo nella Tunisia più profonda, a parziale smentita del ruolo portante di Internet e a conferma, invece, della centralità politica delle emittenti private. Potrebbe succedere anche in Egitto: l’esplosione del consenso nei confronti dei partiti dell’islam politico non risolve, ma anzi rende drammatico, il problema della riconversione politica dei referenti locali dei regimi, che hanno gestito il territorio per mezzo secolo. Un’operazione che vede i partiti laici del tutto sprovveduti.

Magna Charta- Costantino Pistilli: " Il costo delle rivolte arabe ?  La modica cifra di 55 miliardi di dollari ".

Cinquantacinque miliardi di dollari, secondo il report pubblicato da Geopolicity, una società di consulenza strategica con base negli Usa e negli Emirati Arabi Uniti. Tanto sta costando il TFR dei vecchi raìs agli Stati travolti più intensamente dall'ondata delle rivolte arabe. Gli autori del report, sviluppato utilizzando i dati del Fondo Monetario Internazionale, oltre a quantificare i costi delle rivolte arabe, hanno voluto tracciare una roadmap indirizzata ai Paesi di G20, Onu, Lega Araba e Consiglio di cooperazione dei paesi del Golfo, affinché “si possa valutare la dimensione dell’aiuto economico da fornire alle nazioni arabe che si sono avviate sulla strada della transizione democratica” si legge nell’introduzione al rapporto. Nonostante la situazione sia in continua evoluzione le economie più colpite sono quelle di Libia, Siria, Egitto, Tunisia, Bahrain e Yemen. I costi della finanza pubblica ammonterebbero a 35,28 miliardi di dollari mentre quelli del prodotto interno lordo sono di circa 20 miliardi ma -va sottolineato- nelle statistiche non è stata valutata la perdita di vite umane né calcolati i danni alle infrastrutture e la caduta vertiginosa degli investimenti esteri. Ma, se si quantificano le somme delle perdite di pil e costi per finanze pubbliche scopriamo che la Siria ha perso intorno ai 27,3 miliardi, l’Egitto 9,79 miliardi di dollari mentre il Bahrein 1,09 miliardi, all’incirca quanto lo Yemen, pressappoco un miliardo, anche se Sana’a ha scapitato il 77 % delle entrate dello Stato. La Tunisia, fresca di elezioni, ha perso circa 2,52 miliardi tra pil e finanze pubbliche e secondo l’Ente Nazionale del Turismo tunisino durante i primi 9 mesi del 2011 il settore turismo ha subito un’inflazione del 38,5% rispetto allo stesso periodo del 2010. In Libia, invece, le entrate pubbliche sono precipitate dell’84 per cento, mettendo a rischio servizi essenziali per i cittadini che almeno in 740 000 hanno lasciato il Paese dall’inizio del conflitto. Senza scordare 'il' problema dei problemi: la produzione di petrolio. Prima dell’inizio delle ostilità, come riportavamo ieri su L’Occidentale, la produzione libica era di 1,7 milioni di barili al giorno mentre ora si stima la produzione a 400 mila barili al giorno. A sostituire la Libia nell’esportazione del greggio ci ha pensato l’Arabia Saudita, nonostante l’oro nero di Riyadh sia di qualità inferiore rispetto a quello di Tripoli. Non a caso, stando sempre allo studio del gruppo Geopolicity, il regno della famiglia Saud insieme a Bahrein ed Emirati Arabi Uniti sono gli unici dell’Area ad aver goduto di vantaggi economici dalle rivolte arabe: nella Penisola arabica, infatti, sarebbe stato registrato un incremento del 25% delle entrate erariali. L'amministratore delegato di Geopoliticy, Peter Middlebrook, si augura che una parte di questi introiti venga reinvestita in aiuti per le nazioni colpite dalle rivolte arabe. Mentre dall’Occidente, ammoniscono gli autori del report, ancora si aspettano i finanziamenti promessi in Normandia lo scorso maggio, quando il padrone di casa e presidente di turno di quel G8 d'allora, Nicolas Sarkozy, delineò un piano per sostenere "il successo delle rivoluzioni arabe e mobilitare aiuti economici considerevoli". Eppure - ça va sans rire - le dichiarazioni e le promesse di Sarkozy ancora devono essere onorate.

Il Giornale-Francesco De Remigis: " Voto col trucco, la Tunisia s'incendia ancora "

Sidi Buzid- La città che ha dato il via alle rivolte tunisine si compatta contro quel­lo che reputa un imbroglio: le consulta­zioni per la formazione del governo av­viate da Ennahda, il partito islamico, e il Cpr di Moncef Marzouki. Dopo l’esclu­sione di alcune liste dal conteggio inizia­le, che aveva attestato il partito Aridha (Petition populaire) come terza forza del Paese, è esplosa però anche la violen­za. La puzza di bruciato è il primo odore che si sente entrando in questa città, as­saltata dai suoi stessi abitanti due giorni fa, che hanno incendiato anche la sede del municipio. Ragazzini, per lo più, pa­gati da ex membri dell’Rcd, l’ex partito del regime che era «rientrato» in alcune di queste liste attraverso candidati-fan­toccio e che oggi è invece totalmente fuo­ri dal sistema dell’Assemblea.
È stato lo stesso leader del partito, il magnate tv Mohamed Hachmi Hamdi, ad annunciare dopo critiche a valanga che avrebbe ritirato i suoi eletti, tutti quelli del Paese, dall’assemblea costi­tuente. La dura accusa di aver candidato persone non gradite alla nuova Tunisia, più quella, più grave secondo alcuni, di aver ottenuto voti inondando l’etere di propaganda scorretta, fuori tempo mas­simo, dal suo canale satellitare tv Al Mu­stakillah. A Sidi Buzid sono arrivati allo­ra i militari, fermi da ieri notte all’ingres­so della città, isolata da una cerniera di sette cingolati e duemila soldati. Per ca­pire lo stato delle cose bisogna fare una passeggiata di fronte alla sede del muni­cipio, data alle fiamme come molte altre cose, perfino la sede di una Ong. Quasi tutte le automobili posteggiate nello spa­zio Bouazizi sono state divorate dal fuo­co. L’esclusione decisa dal tribunale elet­torale, a danno di Aridha (Petition popu­laire) e del suo discusso leader politico, presidente e magnate, era stata digerita. Perché era limitata. Ma il doppio svilup­po di questa post- elezione ha riportato il disordine nella città.
Gli abitanti non sono affatto contenti: dicono che non c’entrano nulla con le violenze. Hanno votato Aridha Chabiya, il miliardario tv Mohamed Hachmi che
qui è nato. Dapprima contro Ben Alì, poi volato a Londra e poi di nuovo tornato in contatto col regime. Ecco perché qui non vogliono sapere nulla di Ben Alì. Qui hanno combattuto il dittatore anche con la musica.Nidhal,che mi accoglie al­­l’arrivo, è salutato da tutti durante il chi­lometro percorso tra i ruderi. I segni del­la d­evastazione fanno parte di questa cit­tà da parecchi mesi, ma la violenza scop­piata due giorni fa è diversa, politica, fol­le.
Lui, quando qualcosa non va, scrive una canzone. Ecco perché lo conosco­no, nonostante la giovane età. Scrive rap politico e tutti gli riconoscono l’autorità di un quarantenne. Parlando con le per­sone, le ultime rimaste prima del copri­fuoco, si capisce perché chi non ha com­messo atti di violenza è già molto triste dopo l’entusiasmo di domenica. Vedo­no una città smembrata, senza più un municipio e con le pareti del centro bru­ciate dalle fiamme. Mentre a Tunisi, con la stessa velocità con cui loro rientrano a casa per il coprifuoco, Rachid Gannou­chi ha iniziato le consultazioni per l’ese­cutivo. Un governo a tre, in cui, però, il terzo partito non è quello nato e cresciu­to qui, sulle macerie del regime di Ben Alì - anche ieri i più arrabbiati sulle stra­de erano ex Rcd finiti nelle liste di Aridha Chabiya, e oggi fuori dai giochi. La prote­s­ta ieri si è allargata anche ad altre locali­tà limitrofe.
Che non credono alla buona fede democratica dell’Isie, l’organismo di controllo sulla regolarità del voto. Cit­tà come Regueb e, più a sud, Mezzouna, Meknassi, a pochi chilometri da qui. Tut­to il circondario di Sidi Buzid è in fermen­to. Ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini ha espresso preoccupazione per l’evolversi di questa situazione, che ha creato un nucleo di città tunisine in cui non è permesso uscire dopo le sette di sera. Sidi Buzid è stata la prima a im­porre il coprifuoco a fronte di questi di­sordini. Perciò chiedo a Nidhal di cerca­re un posto dove non ci siano così tanti occhi a fissare un estraneo, un internet café per raccontare questa situazione: «Non c’è niente di tranquillo adesso». Andiamo a casa sua. 

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