La primavera araba altro non è che un inverno islamista. Informano correttamente sul cambio stagionale Carlo Panella (su Libero e Foglio) e Vittorio Emanuele Parsi (La Stampa).
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 25/10/2011, a pag. 17, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La primavera araba è un buco nero ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 19, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Mustafa Jalil dal titolo " La nuova Libia rinascerà sul Corano. La poligamia non sarà più un tabù ", a pag. 18 l'articolo di Giuseppe Sarcina dal titolo " L'onda islamica conquista Tunisi ", l'articolo di Monica Ricci Sargentini dal titolo " L'allarme delle donne sui diritti acquisiti: Ma non saremo il nuovo Afghanistan ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Se Allah diventa la legge ".
Ecco i pezzi, preceduti dall'intervento alla camera dei Deputati di Fiamma Nirenstein dal titolo " Il burqa offende la donna esprimendo l’idea che essa sia impresentabile al mondo "
Fiamma Nirenstein - " Il burqa offende la donna esprimendo l’idea che essa sia impresentabile al mondo "

In occasione della discussione alla Camera dei Deputati sulla Proposta di legge: Sbai e Contendo: "Modifica all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto di indossare gli indumenti denominati burqa e niqab" riportiamo la dichiarazione dell’On. Fiamma Nirenstein, Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati.
“Sono completamente favorevole alla proposta di legge dell’On. Souad Sbai che prevede la proibizione del burqa, del niqab e di ogni indumento che possa coprire le fattezze di qualunque essere umano in particolare della donna, del suo volto e del suo corpo. A parte che per molti commentatori mussulmani il burqa non ha a che fare con il Corano, ma con la più maschilistica delle tradizioni islamiste che purtroppo tengono la donna in stato di assoluta inferiorità il burqa cancella l’identità stessa dell’essere umano, offende la donna esprimendo l’idea che essa sia impresentabile al mondo, è di fatto una bandiera ideologica che spesso nasconde anche maltrattamenti, violenze, oppressione famigliari che a volte arriva sino al delitto d’onore. Basta leggere “Mille spendidi soli” di Khaled Hosseini per trovare la descrizione dell’orrore di chi indossa il burqa, stretta alle tempie da un peso insopportabile che le crea impaccio nei movimenti più elementari e disturbi permanenti all’udito, alla vista, all’equilibrio e all’umore, che arrivano sino allo stato depressivo. La paralo multiculturalismo non ci incanta: noi lo amiamo quando esprime libertà e non oppressione, parità della donna e non sottomissione e disprezzo. Per secoli la nostra civiltà ha combattuto contro la discriminazione sessuale non sarà per paura o per rientrare nel consenso del politically correct che oggi ci rinunceremo”.
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Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La primavera araba è un buco nero "

Fiamma Nirenstein
I risultati della rivoluzione araba detta “primavera” saranno del tutto diversi dalle nostre aspettative: certo il povero Muhammed Bouazizi che con tragica e spontanea mossa si immolò e dette fuoco ai regimi arabi corrotti non si sarebbe immaginato che le prime elezioni libere nel suo Paese, dove il numero di minigonne è il maggiore di quello di tutto il mondo arabo, sarebbero state vinte, come pare certo, dal partito islamico Ennahda, che si presenta come islamico moderato. Né l’inno alla non violenza che noi occidentali abbiamo cantato per l’insorgenza araba prevedeva nel suo immaginario un linciaggio feroce come quello di Gheddafi. Né si pensava che gli egiziani si sarebbero di nuovo attardati in un regime militare, con morti e violenze sulle donne. La rivoluzione araba è in fase di misteriosa transizione, ha la faccia di un’incertezza violenta e dello scontro millenario fra sunniti e sciiti, specie fra Arabia Saudita e Iran.
Abbiamo esclamato, noi occidentali, che si è aperto un mondo migliore. In realtà, con tutto il rispetto per l’aspirazione alla libertà che ha portato tanti giovani, tanti coraggiosi, a sfidare la morte contro orribili dittatori assassini come Gheddafi, se guardiamo negli occhi la realtà, è un buco nero. Abbiamo il dovere verso noi stessi e verso il mondo arabo di cercare di influenzarlo per quel che possiamo.
Sul terreno interno alle rivoluzioni, gli islamisti liberati dalla condanna al silenzio si presentano nelle più diverse varianti. Egitto, Tunisia, Libia, Siria, sono tutti luoghi in cui per lunghi anni si sono organizzati nella clandestinità e hanno raccolto larghi consensi nelle moschee. Alla lunga è possibile che, facendosi interlocutore a fronte di gruppi peggiori, Ennahda in Tunisia o la Fratellanza Musulmana in Egitto diventino interlocutori apparentemente praticabili nell’immediato, ma certo non amichevoli nel futuro.
A livello internazionale, la ricerca dei musulmani moderati è sempre stata popolare. Ma la Turchia, molto blandita, è ormai il migliore difensore dell’Iran e di Hamas, il peggior nemico di Israele, un Paese in lotta per l’egemonia e vedremo i risultati nel futuro. L’Arabia Saudita, disorientata dall’attacco che lambisce il suo territorio, investe molti soldi perché i “suoi” musulmani siano i vincitori. Ma i moderati sono davvero tali?
Se guardiamo al nostro investimento per esempio nel conflitto israelo-palestinese, non funziona: alla fine Hamas ha successi di popolo e Abu Mazen per emularlo rifiuta le trattative. È impressionante anche come Abu Mazen si sia entusiasmato per il ritorno dei prigionieri assassini terroristi scambiati con Gilad Shalit, e di come abbia già costruito loro, e quindi al terrorismo più accanito, un monumento ideologico (e anche economico: ha regalato a ciascuno 5000 dollari contro i 2000 elargiti da Hamas) che non potrà essere tanto facilmente rimosso. L’Arabia Saudita sarebbe gratificata dall’ascesa nelle rivoluzioni di un modello islamista che tiene a bada i salafiti e non rompe con gli americani, ma è un gioco scivoloso.
L’Iran, sostenitore di Assad, non è credibile nel sostegno delle rivoluzioni anche per la terribile repressione contro i propri dissidenti ed è a rischio nell’area mediorentale perché l’alleato siriano assediato gli mette in crisi anche il rapporto con gli Hezbollah in Libano. In Libia ha sostenuto Gheddafi per contrastare gli Usa, in Tunisia non ha influenza, e soprattutto i rapporti con gli Usa sono al punto più pericoloso a causa del complotto contro l’ambasciata saudita a Washington e dopo che le indagini sul nome di Gholam Shakuri, un alto ufficiale delle forze Quds, ne hanno fatto un sospetto in prima linea. Qualche consolazione l’Iran l’ha ottenuto da un’alleanza inedita con l’Egitto in concorrenza con i sauditi. Ma il suo scontro duro per l’egemonia è appena cominciato.
Una cosa è certa: la gratitudine verso il mondo occidentale, piani Marshall o meno, svanirà presto. I bisogni di questi Paesi, sempre ricchi di ogni bene solo per le loro elite corrotte, resteranno inesausti, nessun ritiro dall’Irak cancellerà l’antagonismo di un mondo che si sente ferito e incompatibile col nostro sui diritti umani, la condizione delle donne, l’antisemitismo, il cristianesimo. L’impero ottomano fu distrutto da noi occidentali, i mujahidin hanno cacciato i sovietici con l’aiuto americano, l’Irak e la Libia hanno messo fine con lo stesso aiuto alle loro dittature. Questo non ha cambiato la percezione dell’Occidente.
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CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " La nuova Libia rinascerà sul Corano. La poligamia non sarà più un tabù "

Mustafa Jalil
BENGASI — «Non c'è alcun dubbio, la legge della nuova Libia renderà legale la possibilità per qualsiasi cittadino di avere sino a quattro mogli come permette il Corano. Ci adopereremo perché la Sharia (la legge islamica, ndr) divenga fonte primaria della nuova Costituzione. Siamo uno Stato musulmano e non vedo cosa vi sia di strano. Per rassicurare le paure dell'Occidente, voglio aggiungere che i libici sono musulmani moderati. Non abbiamo nulla a che vedere con l'estremismo. Dunque anche la nostra interpretazione della legge islamica sarà estremamente tollerante». Così Mustafa Abdel Jalil spiega al Corriere la sua visione per la Libia del futuro.
Ex ministro della Giustizia di Gheddafi, poi sostenitore della prima ora dei moti rivoluzionari, Jalil venne nominato in febbraio presidente ad interim del Consiglio nazionale transitorio (Cnt). I primi mesi, caratterizzati dagli esiti incerti della guerra, lo hanno visto mantenere il basso profilo: uomo del cambiamento, destinato a dimettersi alla fine dei combattimenti. Ma il suo discorso della vittoria domenica pomeriggio a Bengasi ha stupefatto non pochi dei suoi antichi sostenitori. L'aria determinata con cui avvalla la poligamia in nome di Allah, la critica all'interesse bancario liberista, la rivendicazione dell'identità islamica nazionale, sollevano forti critiche tra gli ambienti laici del Paese. «Jalil cerca il sostegno dei gruppi legati ai Fratelli musulmani, usa la religione come argomento populista per restare in sella», è una delle accuse più diffuse. Gli stessi «circoli degli avvocati», che furono il motore primo delle sommosse tra le classi dirigenti e filo-occidentali di Bengasi, si dicono «delusi, traditi, scoraggiati». Ancora non vogliono uscire in pubblico, molti si sono ritirati dalla politica attiva sin dai tempi della presa di Tripoli. Altri stanno pensando di fondare un partito laico in opposizione al fondamentalismo religioso e nel timore che si passi dalla dittatura alla teocrazia islamica. Jalil ieri mattina ha tenuto una conferenza stampa per chiarire, puntualizzare, rassicurare. Questo è il riassunto delle sue risposte in un incontro col Corriere e durante lo scambio allargato con gli altri media a Bengasi.
Come può rassicurare la comunità internazionale? I suoi riferimenti alla legalizzazione della poligamia e alla centralità della Sharia nella prossima Costituzione sollevano forti timori in Occidente.
«Il mio riferimento alla Sharia non significa che noi aboliremo tutte le leggi, semplicemente cambieremo quelle che contraddicono l'Islam. Per me la poligamia è stata solo un esempio, come del resto l'accenno ai futuri regolamenti contro il principio del tasso d'interesse sul denaro prestato dagli istituti di credito. Questo è un principio che viene dall'Islam e dunque non è negoziabile. La via islamica è dividere perdita e profitto, si tratta di un valore fondamentale della nostra vita sociale. Sia ben chiaro che non faremo alcun compromesso sui dettami della nostra santa religione. Ogni Costituzione si basa su di un sistema di valori che parte dall'alto verso il basso. Per noi prima viene la legge islamica, poi la Costituzione con le sue indicazioni di massima e infine arrivano le leggi specifiche e dettagliate. Sulla questione dei matrimoni, è chiaro che per noi musulmani è possibile avere più di una moglie. E ciò sarà in Libia».
Il tema è controverso. Negli ambienti laici c'è addirittura chi ricorda che negli ordinamenti legiferati durante la dittatura di Gheddafi il marito può prendere altre mogli (sino a quattro) solo dopo l'approvazione delle precedenti. Ora non ci sarebbe più bisogno di tale permesso. Jalil si limita a ribadire che «comunque i libici sono musulmani moderati, non c'è spazio per estremisti fondamentalisti». E aggiunge: «Comunque tutto ciò verrà definito nella Costituzione, prevista dopo le prime elezioni tra otto mesi. E la Costituzione dovrà venire approvata da un referendum nazionale. Il processo politico è già cominciato, in un paio di settimane sarà formulata la composizione del prossimo governo ad interim».
È personalmente d'accordo per un'inchiesta sulla morte di Gheddafi?
«Su richiesta della comunità internazionale ci stiamo adoperando per un'inchiesta accurata sulle circostanze della sua morte. Verrà stabilito se sia spirato per uno scambio a fuoco tra le nostre truppe e le sue, oppure per altri motivi».
Avrebbe preferito venisse preso vivo e processato?
«Avrei voluto vederlo in tribunale. Per lui sarebbe stata un'agonia infinita. Sia ben chiaro che gli unici interessati a una morte veloce di Gheddafi sono stati i suoi famigliari e sostenitori».
CORRIERE della SERA - Giuseppe Sarcina : " L'onda islamica conquista Tunisi"

Rachid Gannouchi
TUNISI — Il primo messaggio è in linea con la campagna elettorale. Moderato, rassicurante: «Faremo tutti gli sforzi per dare stabilità al Paese». Ennahda, il partito di ispirazione islamica, ha vinto le prime elezioni democratiche nella storia della Tunisia. Il successo è largo, come previsto. Ma la forza politica guidata da Rachid Ghannouchi non diventa il padrone assoluto del Paese: almeno stando ai numeri ricostruiti mettendo insieme proiezioni elaborate da diverse fonti, visto che i risultati ufficiali saranno comunicati solo oggi pomeriggio dall'Isie, l'Istanza superiore che garantisce la regolarità delle consultazioni. Ennahda, dunque, dovrebbe raggiungere il 35% (con possibile estensione fino al 37-38%). Il secondo partito, il Cpr (Congresso per la Repubblica), di orientamento socialdemocratico, sotto la leadership di Moncef Marzouki, non raccoglierebbe neanche la metà dei voti: intorno al 15%. Seguono a breve distanza, Ettakatol, sempre della famiglia del centrosinistra, con il 12%. Sotto questa soglia si entra in un pulviscolo di formazioni (ce n'erano 110 in corsa e circa 1.500 liste) da cui dovrebbero affiorare altri due schieramenti laici: gli indipendenti di Destourna (rete di liste indipendenti) con il 10% e il Polo democratico per la modernità (8%).
Ieri c'è stato qualche segnale di possibile contestazione dei risultati: un centinaio di persone si sono presentate davanti alla sede dell'Isie. Anche se gli osservatori internazionali, finora, non hanno denunciato brogli. Secondo Gabriele Albertini e Antonio Panzeri (presidente e vice della delegazione dei parlamentari europei) le operazioni di voto si sono svolte in modo trasparente. Si vedrà oggi se verranno presentati ricorsi e di quale portata. È un'incognita da non sottovalutare e che potrebbe riportare soprattutto i giovani nelle piazze.
Ma la risposta delle urne, al netto degli aggiustamenti sulle singole percentuali, è di una chiarezza perfino sorprendente. Sulla carta ci sarebbero anche i numeri per assemblare un blocco laico in grado di bilanciare (se non superare) Ennahda nella ripartizione dei 217 seggi dell'Assemblea costituente e quindi nella formazione del nuovo governo e nella designazione del presidente della Repubblica, cioè delle istituzioni che avranno un anno di tempo per rifondare lo Stato e riconsegnarlo ai cittadini per nuove elezioni politiche. Ma non è questa l'aria che tira nel Paese. Gli islamici hanno stracciato tutti nelle grandi città come nei villaggi. A Nord e a Sud. Si possono tagliare fuori? I laici sopravvissuti alla valanga non lo ritengono possibile e neanche consigliabile. Marzouki (Cpr) è il più esplicito (intervista trasmessa da SkyTg24): «Dopo aver riconquistato la libertà non possiamo cominciare la guerra civile tra religiosi e secolaristi».
Come è naturale, il vertice di Ennahda si candida a occupare il ruolo centrale che spetta al punto di riferimento di circa 2 milioni e mezzo di tunisini (ha votato l'80% dei 7,5 milioni aventi diritto). Davanti a due-trecento militanti (la grande festa è prevista per oggi) Abedalhamide Jellassi (uno dei dirigenti di punta) ha preso la parola per mettere in chiaro, a scanso di equivoci, un paio di concetti. Il primo: «Siamo il primo partito in tutte le circoscrizioni, abbiamo ottenuto il 20, il 25, il 30%». Secondo: «Nell'assemblea costituente non ci sarà frammentazione, al massimo 5-6 partiti. Noi vogliamo costruire un clima di collaborazione e alcune forze politiche hanno già riconosciuto la nostra vittoria». Ennahda, dunque, ora vuole governare. Ma non da sola. La trama delle possibili alleanze, con annessa distribuzione delle poltrone, è già cominciata.
CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " L'allarme delle donne sui diritti acquisiti: Ma non saremo il nuovo Afghanistan "

ROMA — Istruzione, diritti, rappresentanza politica. Fatima Chellouche è una persona che bada alle cose concrete. E sulle questioni delle donne, dice, bisogna tenersi ai fatti. «Lei mi parla di una possibile islamizzazione della Tunisia con la vittoria di Ennahda. Ma io le rispondo: aspettiamo di vedere quanto è consistente il risultato. E poi quello che mi interessa sapere è: quante donne sono state elette in Parlamento? Sono più o meno di prima?». Parla con forza e con passione Chellouche, deputata algerina e vicepresidente della Commissione dei diritti della donna nei Paesi euromediterranei dell'Assemblea parlamentare dell'Unione per il Mediterraneo. La incontriamo a Roma nella splendida cornice della sala Mappamondo della Camera dei deputati dove si svolge la conferenza su «Le donne agenti di cambiamento nel Sud del Mediterraneo», organizzata dalla deputata Deborah Bergamini, presidente del Centro Nord-Sud del Consiglio d'Europa. «Conosco la situazione in Tunisia — spiega al Corriere — e secondo me è molto remoto il rischio che le donne possano tornare indietro. I loro diritti vengono da lontano. Nel 1956, con l'indipendenza il primo presidente tunisino Habib Bourguiba affermò subito i diritti delle donne e li incluse a chiare lettere nel codice di famiglia. Poi Ben Ali ha continuato sulla stessa strada: la democratizzazione dell'insegnamento, l'accesso al lavoro, il ruolo paritario all'interno della famiglia. Parliamo di una società ben organizzata con un alto livello di maturità».
Ma per qualcuno in sala, dove si confrontano diverse protagoniste della Primavera araba, il rischio di islamizzazione è concreto. La pensa così Sondes Ben Khalifa, giornalista e blogger tunisina, capelli neri corti, lo sguardo grintoso. «Io non ho votato per Ennahda perché non mi piacciono i partiti unici, penso sia meglio una coalizione dopo tanti anni di Ben Ali — spiega al Corriere proteggendo come di riflesso il pancione (è al sesto mese di gravidanza) —. È vero che in campagna elettorale i loro candidati hanno proposto un Islam moderato, limitando gli interventi agli stili di vita incentrati sulla visione musulmana. Ma questa è in ogni caso la direzione verso cui andremo».
L'algerina scuote la testa. La sua visione è molto diversa. «Non siamo nel Medio Evo — dice — ma nel 2012, ci sono convenzioni internazionali che sono state firmate. Ennahda dovrà prenderne atto. Non credo si possa così facilmente tornare indietro. E sono convinta di una cosa: la Tunisia non sarà mai l'Iran o l'Afghanistan».
L'Occidente, però, ha gli occhi puntati su Rachid Ghannouchi e le sue prossime mosse. Soprattutto dopo l'assalto alla sede di Nessma Tv da parte di gruppi islamici radicali. «Cosa spaventa così tanto voi occidentali? — dice Chellouche infervorandosi —. I vostri partiti democristiani minacciano forse la laicità dello Stato? Anche la storia del velo non la capisco. In Ennahda, come ovunque, ci sono donne che lo portano e altre che non lo portano. Non mi sembra che sia questo a fare la differenza. In democrazia un partito islamico ha diritto di esistere. O no?».
E poi, è l'altro argomento, la Tunisia è un Paese che si sostiene con il turismo. «A differenza dell'Algeria che ha anche il petrolio, loro non hanno altro. Ammesso che il piano sia quello di islamizzare veramente la società, non credo che i dirigenti di Ennahda vogliano rovinarsi l'immagine all'estero. E di cosa vivranno dopo?».
La STAMPA - Francesca Paci : " Se Allah diventa la legge "

Sharia, frustate in pubblico per aver lavorato
durante il ramadan
Sarà la sharia a soffocare nel nome di Allah i sogni della primavera araba? Dopo l’impegno all’adozione della legge coranica da parte del presidente libico ad interim Jalil e l’affermazione del partito islamico Ennahda nelle elezioni tunisine, la domanda sintetizza tutti i dubbi che da dieci mesi l’occidente alterna all’entusiasmo pasionario per il risveglio del mondo nordafricano e mediorientale.
In realtà, avvertono gli esperti, sebbene concordi nel considerare il Corano e i detti del Profeta la fonte prima del diritto, i paesi della regione hanno storie, tradizioni e vocazioni giuridiche assai diverse. E il ricorso teorico o pratico alla sharia non è il metro migliore per stabilire se Muammar Gheddafi fosse compatibile con la democrazia più dei suoi pii successori. Uno studio del 2007 del Council on Foreign Relations rivelava che oltre il 60% dei marocchini, degli egiziani, dei pachistani e degli indonesiani desiderava un governo democratico ma, senza paura di contraddirsi, auspicava nel 71% dei casi una rigida conformità alla sharia. I tunisini in coda alle urne, che hanno finito per premiare i religiosi, confermano quella foto.
«L’applicazione della sharia dipende dalla scuola giuridica di riferimento e nell’islam sunnita ne esistono 4: hanbalita, malikita, hanfita, shafi’ita» spiega il presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia Ezzedin el-Zir. Alla prima, ortodossia pura, si rifanno l’Arabia Saudita e l’Afghanistan taleban con la loro equiparazione di donna e fitna, ossia scandalo. Alla seconda e terza, d’ispirazione moderata, sono orientati il Nordafrica, la Turchia, i Balcani. L’ultima, ritenuta più riformista, è diffusa in Indonesia. C’è poi l’islam sciita che nella sua istituzionalizzazione iraniana basa l’ordinamento statale sulla figura del giurista islamico, somma guida della società dai tribunali alla famiglia.
Le differenze sono tutt’altro che formali. Laddove per esempio a Riad chi voglia fare l’elemosina di fine Ramadan deve donare ai poveri due kg e mezzo di datteri come indicato a suo tempo da Maometto, a Rabat può aggiornare il precetto al secolo XXI e versare un assegno. Per non parlare dei ladri, che a Kabul pagano il fio con il taglio della mano mentre al Cairo finiscono in cella nonostante dal 1980 l’articolo 2 della Costituzione definisca la sharia «legge dello Stato».
«In gran parte del mondo musulmano la nascita degli Stati contemporanei ha portato all’elaborazione di codici penali europei relegando la sharia a un ruolo simbolico che rassicurasse società ancora conservatrici, tanto che sebbene la Libia prevedesse il taglio della mano “ladra” sin dal 1973 non l’ha mai applicato» nota Massimo Papa, docente di diritto musulmano all’università Tor Vergata.
Se però la sharia coincide con il codice penale esclusivamente in Arabia Saudita, Nigeria, Somalia, Sudan e Afghanistan, dove l’adulterio è punito con la lapidazione secondo l’interpretazione più retriva della fustigazione originaria, la vera sfida dell’islam con la modernità si gioca sul diritto di famiglia e di successione, estrema roccaforte dei puristi dentro e fuori Riad. Ad eccezione della Turchia, raro paese musulmano nella cui Costituzione del ‘26 non è neppure citata la sharia, la Tunisia è finora l’unica ad essersi emancipata dalla canonizzazione islamica del patriarcato. Perfino nel Marocco riformista il codice di famiglia del 2005 non è riuscito a eliminare il diritto del marito a ripudiare la moglie. Per non parlare della «secolare» Siria di Assad o della Giordania, in cui, a pari grado di parentela, le donne ereditano la metà.
«La sharia è spesso un manifesto di valori per sottolineare l’indipendenza dei paesi musulmani dall’occidente» ragiona l’arabista Paolo Branca ricordando come il diritto islamico non sia mai stato codificato e, proprio per questo, si sia adattato nei secoli a diverse realtà. La Libia come la Tunisia vanno seguite ma senza panico: «Dopo quella guerra civile a quale senso comune deve appellarsi il governo libico se non alla religione?».
Il vero esame della primavera araba insomma sembra essere culturale più che legislativo: sapranno le piazze ribelli liberarsi da quel vecchio nodo di tradizioni, tribalismo e diffidenza della modernità additato dallo storico palestinese Hisham Sharabi nel celebre saggio «Neopatriarchy»?
«Basta guardare le donne tunisine al voto che formano una fila separata senza essere obbligate da nessuno per capire come, sharia o meno, nel mondo arabo-musulmano manchi la cultura politica» chiosa l’analista libico Karim Mezran. La partita è aperta e potrebbe non essere breve.
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