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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
21.10.2011 Bashar al Assad destinato a fare la stessa fine di Gheddafi ?
Commenti di Maurizio Molinari, redazione del Foglio

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Redazione del Foglio
Titolo: «Prossima tappa Damasco - Mosca riceve Hezbollah e invia segnali di conforto a Damasco»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 21/10/2011, a pag. 1-45, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "  Prossima tappa Damasco  ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Mosca riceve Hezbollah e invia segnali di conforto a Damasco " .
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Prossima tappa Damasco "


Maurizio Molinari, Bashar al Assad

Muammar Gheddafi è il primo dittatore ucciso dalle rivolte arabe in un evento spartiacque destinato ad avere profonde ripercussioni nel mondo musulmano, ed anche oltre. A svelarlo, con feroce rapidità, è Ahmed, il cittadino siriano che poco dopo l’annuncio della morte del rais invia alla tv Al Jazeera il messaggio «Congratulazioni al popolo libico, spero che lo stesso possa avvenire anche qui». «Il pensiero di tutti è rivolto verso Damasco» osserva Fuad Ajami, arabista della Stanford University, in ragione delle «somiglianze con la situazione libica». Bashar Assad guida una repressione più sanguinosa di quella di Gheddafi - le vittime per l’Onu sono oltre tremila - e a sentire Robert Ford, combattivo ambasciatore Usa a Damasco, «la gente nelle strade inizia a chiedersi perché non passare alla rivolta armata». Il fatto che ieri a Homs almeno sette militari siano stati uccisi a colpi di arma da fuoco lascia intendere quanto l’ombra di Gheddafi incomba su Assad. Damasco ha dimostrato di saper resistere a massicce rivolte non violente come quelle che hanno travolto Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto ma il successo di una sollevazione popolare armata cambia lo scenario.

A temere l’impatto della caduta di Gheddafi sono anche i due grandi rivali del Golfo, l’Iran di Mahmud Ahmadinejad e l’Arabia Saudita di re Abdallah, accomunati dall’essere avversari feroci dei moti di piazza mentre sul fronte opposto ci sono le nuove potenze emergenti, accomunate dal sostegno alle sollevazioni. Anzitutto la Turchia di Recep Tayyp Erdogan che vuole costruire il nuovo Parlamento libico, ha accolto il generale Riad Assad intenzionato a creare un «Esercito di liberazione siriano» ed è volato al Cairo per promettere al dopo-Mubarak i sostegni economici che l’Europa esita a far arrivare. Se la credibilità di Erdogan viene dal guidare una nazione disposta ad elargire aiuti, con un potente esercito e l’eredità dell’ultimo impero musulmano, quella del più piccolo Qatar nasce dall’abilità dell’Emiro Hamad Bin Khalifa Al Thani di sfruttare la tv Al Jazeera, che ha sede a Doha, come vettore dei cambiamenti in atto, affiancandole mosse in sintonia con quanto sta avvenendo: dall’invio di aerei a fianco della Nato sulla Libia alla proposta di dialogo Assad-manifestanti. Senza contare che sempre in Qatar il Pentagono ha l’avveniristica centrale di comando e controllo per le operazioni in Medio Oriente, che fino al 2003 si trovava in Arabia Saudita.

Ci troviamo di fronte ad un Islam dove Turchia e Qatar emergono, Iran e Arabia Saudita sono sulla difensiva, e Assad è sotto assedio. Ma anche in Occidente l’impatto della morte di Gheddafi si fa sentire. In primo luogo per la capacità della Nato di «aver dimostrato di saper vincere una guerra aerea a sostegno di una rivoluzione armata» come dice l’ex generale americano Mark Kimmitt, veterano dell’Iraq, sottolineando che «qualcosa del genere non era mai avvenuto». Pur segnata da dissidi interni e carenza di munizioni aeree, l’Alleanza esce dall’intervento in Libia rafforzata nel ruolo di garante della stabilità nel Mediterraneo. Essere riuscita in tale missione nonostante la coincidenza con la guerra in Afghanistan significa aver dimostrato di poter combattere su due fronti, come molti avevano dubitato possibile. Ma il successo Nato preannuncia delicati equilibri fra alleati perché Parigi e Londra, che più hanno voluto e guidato l’intervento, puntano ad ottenere un ruolo maggiore nella gestione degli ingenti giacimenti energetici in Libia a dispetto di altri partner, Italia inclusa.

Per Barack Obama si tratta della seconda eliminazione di un nemico dell’America in poco più di cinque mesi. Se nel caso di Osama bin Laden il merito fu di un blitz militare, in Libia il risultato è frutto della scelta di sostenere una coalizione «guidando dal di dietro» in una declinazione della leadership americana nel mondo che finora si pensava destinata al fallimento. «I fatti hanno dato ragione a Obama» commenta Leslie Gelb, presidente del «Council on Foreign Relations» di New York e sebbene sia presto per valutarne il possibile impatto sulle elezioni del 2012 non sembrano esserci dubbi sul fatto che la Casa Bianca sta cogliendo sulla sicurezza nazionale i risultati che ancora le mancano sull’economia. Obama è riuscito a far cadere Mubarak e a rovesciare Gheddafi con tattiche opposte ma ispirate dallo stesso approccio pro-rivolte, dando mostra di pragmatismo e capacità di rischiare che incombono ora sugli altri dittatori. Ma per Obama come per la Nato si tratta di risultati che potrebbero rivelarsi precari se la transizione in Libia dovesse fallire. Ecco perché la convergenza fra i partner della coalizione anti-Gheddafi è nel premere sul governo ad interim di Tripoli per risolvere le questioni più urgenti: unificare le milizie, trovare i 20 mila missili terra-aria mancanti, estendere la nuova amministrazione su tutto il territorio ed iniziare il cammino verso nuove elezioni.

Il FOGLIO - " Mosca riceve Hezbollah e invia segnali di conforto a Damasco "


Hezbollah                Russia

Mosca. Tre uomini di Hezbollah sono da ieri a Mosca per incontrare gli alti ufficiali della Duma e del Cremlino. E’ la prima volta che le autorità russe si prendono il rischio e il lusso di ricevere il gruppo sciita che controlla la vita politica del Libano, ha rapporti solidi con l’Iran ed è considerato fuorilegge in Israele e negli Stati Uniti. Non si può dire che Hezbollah abbia scelto il basso profilo per l’occasione. Il capo della legazione è Mohamed Raad, il deputato che guida il blocco radicale nel Parlamento di Beirut; con lui ci sono il responsabile della propaganda di Hezbollah, Hassan Fadlallah, e il numero due del partito, il potente Nawar as Sakhili. Una volta all’aeroporto di Mosca, Raad ha dichiarato che Hezbollah vuole rapporti migliori con la Russia. A quanto pare l’interesse è reciproco: i tre hanno già incontrato il vicepresidente della Duma, Vladimir Zhirinovski, e Konstantin Kosachev della commissione Affari esteri. Altre riunioni sono previste fra oggi e domani. La Russia ha sempre cercato di avere un canale aperto con Hezbollah, lo ha fatto nel 2006, nei giorni della guerra in Libano, e ha continuato quando la comunità internazionale ha scritto il nome del Partito di Dio nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Ma il viaggio a Mosca di Raad e soci segna una svolta. Per il sito internet Debka.com, non è un caso che la visita sia avvenuta proprio ora. Il Cremlino avrebbe scelto di muoversi secondo un ragionamento preciso: se Israele tratta con Hamas per liberare Gilad Shalit, perché noi non dovremmo parlare con Hezbollah alla luce del sole? Ieri Kosachev ha assicurato il sostegno della Russia alla stabilità del Libano, e molti hanno letto le sue parole come una benedizione alla presenza di Hezbollah nel governo di Beirut. Zhirinovski ha discusso temi più generali, dal nuovo assetto del medio oriente dopo la stagione delle rivolte sino al caso della Siria, dove ancora si vedono proteste anti regime e stragi delle forze di sicurezza. Il Partito di Dio, armato e finanziato da Teheran e da Damasco, ha difeso le maniere forti dell’esercito siriano nella lotta contro gli oppositori, questa scelta ha mostrato il vero volto del movimento e ha sollevato critiche a Nasrallah anche nel mondo arabo. Così, la visita in Russia rappresenta un successo per Hezbollah sul piano diplomatico e permette di alleggerire la pressione sui vertici. La Russia ha una visione dettagliata dell’equilibrio in medio oriente e questa visione è molto diversa da quella di Israele. Il presidente in carica, Dmitri Medvedev, ha visitato la Cisgiordania in gennaio e ha ribadito il proprio favore alla nascita dello stato palestinese nell’incontro con il leader dell’Anp, Abu Mazen. Pochi giorni fa, il suo ambasciatore alla Nato ha respinto la richiesta di appoggiare le sanzioni contro il regime della Siria: quando la notizia è arrivata a Damasco, migliaia di persone hanno manifestato nella piazza dei Sette Mari ringraziando Mosca per l’amicizia e gli elicotteri dell’esercito hanno attraversato il cielo con le bandiere della Russia e della Cina, l’altro paese che si è opposto alle sanzioni. Grazie alle trattative con l’asse sciita, il Cremlino può ancora esercitare un po’ d’influenza sulla regione. In Siria non si difende soltanto il principio – discutibile – secondo il quale Damasco deve risolvere da sé i problemi di casa: esiste anche una grande installazione militare che ha già offerto riparo alle navi russe in viaggio nel Mediterraneo. Ci sono molte differenze fra gli ufficiali di Mosca e gli uomini di Hezbollah, ma è possibile che gli incontri di ieri siano serviti soprattutto a rafforzare i punti in comune.

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