Potremmo titolare i pezzi che seguono 'cronache prevedibili della primavera araba', sottolineando il fatto che le informazioni che contengono non indignano nessuno nel nostro paese e in Occidente in generale. Guai a parlare di 'scontro di civiltà', pena l'immediata sollevazione di coloro che credono sia sufficiente diluire il significato delle parole per eliminare le verità che contengono. Leggete dunque, cari lettori, ciò che avviene in Siria, Iran, e quanto è costata fino ad oggi la 'primavera araba'.
Sul CORRIERE della SERA, oggi 16/10/2011, a pag.18, sul GIORNALE a pag.16, su LIBERO a pag.21.
Ecco gli articoli:
Corriere della Sera- Alessandra Muglia: " Il martirio del piccolo Ibrahim "

Ibrahim Shayban aveva soltanto 9 anni. Era sceso in piazza con il papà a Damasco nel 33esimo venerdì di protesta anti-Assad quando un proiettile gli ha trafitto il petto. Si è accasciato Ibrahim, ha chiuso gli occhi e non li ha più riaperti. Il suo cuore ha smesso di battere sotto gli occhi impietriti del padre. I suoi ultimi istanti tra la vita e la morte sono stati ripresi in un raccapricciante video amatoriale postato su YouTube. Lo si vede disteso su un letto d'ospedale, coperto di tubi e mani che tentano — invano — di rianimarlo, il petto sporco di sangue, il foro di una pallottola in vista. Niente da fare. Con lui poi resta solo il padre che lo accarezza, lo bacia e inveisce contro Assad e il veto posto da Russia e Cina sulle sanzioni Onu alla Siria. «Grazie Medvedev, grazie presidente cinese, questo è quello che volete — dice l'uomo in lacrime — E grazie ad Assad per le riforme».
Mentre il presidente siriano continua a promettere cambiamenti — ieri l'annuncio di una nuova Costituzione in quattro mesi — crescono le preoccupazioni che gli scontri degenerino in guerra civile, soprattutto dopo le ripetute diserzioni di membri dell'esercito (le proteste di venerdì sono state chiamate «Soldati liberi» proprio in onore degli ufficiali schieratisi con i manifestanti). E la repressione non si ferma: sempre ieri, durante i funerali di Ibrahim, sarebbero state uccise altre due persone, riferisce la Reuters.
Erano in migliaia i partecipanti al corteo funebre per l'ultimo saluto al «piccolo martire», come è stato commemorato anche su Facebook. L'ultimo di una lunga serie: sono almeno 187 secondo l'Onu i bambini uccisi in sette mesi di scontri, oltre 240 stima il Syrian Observatory for Human Rights. «Di queste piccole vittime, più di 110 avevano un'età inferiore ai 10 anni» spiega al Corriere il coordinatore Mousab Azzawi. La maggior parte finite come Ibrahim, «ucciso dal fuoco indiscriminato delle forze di sicurezza siriane che stavano cercando di disperdere i dimostranti. Il ragazzino è stato colpito da due proiettili, nell'alto addome e a un fianco», precisa Azzawi.
Non si è potuto verificare l'autenticità del video per via del divieto d'ingresso nel Paese ai giornalisti occidentali. Ma la mano pesante di Damasco verso i minorenni è stata evidente fin dall'inizio: all'origine delle proteste, a metà marzo, l'arresto a Deraa di 15 ragazzini che avevano scritto sui muri di scuola «basta con il regime».
«I nostri bambini sono attaccati sistematicamente dal regime», osserva l'attivista Radwan Ziadeh, che con il suo Damascus Centre for Human Right Studies ha collaborato al Rapporto della Fidh sulle violazioni dei diritti umani in Siria. Sul perché i genitori portino in piazza i piccoli, un esponente dell'opposizione all'estero, in contatto diretto con il Consiglio transitorio siriano, risponde: «Molti credono che la presenza dei bambini possa essere un deterrente. All'inizio a volte lo è stato, ci sono stati casi di soldati che non hanno sparato contro i dimostranti per la presenza di bambini. Ma ultimamente non è più così: i soldati che non hanno obbedito agli ordini del regime sono stati eliminati».
Il Giornale-Fausto Biloslavo: " Così l'Iran spegna gli artisti ribelli. Al regista film vietati per 20 anni"

Jafar Panahi, uno dei più noti registi iraniani a livello internazionale, marcirà in galera per sei anni reo di non essere allineato con gli ayatollah. Lo ha confermato ieri la corte di appello di Teheran. Pochi giorni fa un’attrice iraniana è stata condannata a 90 frustate per aver recitato in un film controcorrente.
Restano ancora in carcere tre dei sei cineasti che stavano girando un documentario, proprio su Panahi, per la Bbc.
In questo clima è attesa a Teheran, dal 31 ottobre al 4 novembre, una delegazione del parlamento europeo. La missione sarebbe la prima dell’attuale assemblea di Strasburgo, dopo che per tre volte era saltata. Panahi è stato arrestato nel marzo 2010 con l’accusa di girare, senza permesso, un film sulle proteste dell’Onda verde contro l’elezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. La sentenza di appello ha confermato anche il divieto di girare film e di espatrio per i prossimi 20 anni. Panahi è stato riconosciuto colpevole «di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale e fatto propaganda » contro la Repubblica Islamica. La polizia lo aveva fermato la prima volta quando aveva partecipato alla commemorazione di Neda Agha-Soltan uccisa durante una manifestazione.
Lunedì scorso l’attrice iraniana Marzieh Vafamehr è stata condannata ad un anno di carcere e 90 frustate. La sua colpa è aver recitato in un film che denuncia le difficoltà di espressione degli artisti nella Repubblica islamica. La pellicola, la «Mia Teheran in vendita», è stata girata da Granaz Moussavi, una regista che il regime ha messo al bando. Non solo: tre cineasti di origine iraniana su sei sono ancora in carcere dopo essere stati arrestati il 17 settembre perché stavano realizzando un documentario su Panahi. Il ministro dell’intelligence Heidar Moslehi, ha spiegato che la Bbc «non è un organo di informazione, ma un’organizzazione di ispirazione sionista» che fa spionaggio politico. La visita degli europarlamentari di fine ottobre rischia di far da foglia di fico all’isolato regime iraniano. I fautori dell’iniziativa sono l’ex presidente della commissione europea che si occupa di Iran, Barbara Lochbihler, ed il vice, Kurt Lechner. La prima è una pasionaria dei Verdi tedeschi, che ha sempre spinto per una linea più morbida con gli ayatollah. Il vicepresidente fa parte del Ppe, ma tiene conto degli interessi commerciali tedeschi in Iran.Con una lettera del 22 settembre la strana coppia ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione dalla presidenza del parlamento europeo per inviare una delegazione di 5 membri a Teheran. Secondo i documenti in possesso de Il Giornale i paletti nei confronti degli ayatollah sono deboli. La delegazione dovrà «sollevare il caso della signora Asthiani come prioritario » è il messaggio più forte. Stiamo parlando di Sakineh, l’adultera condannata alla lapidazione, che, come conferma l’ambasciata polacca a Teheran, «rimane nel braccio della morte».Tre europarlamentari italiani Marco Scurria, Potito Salatto e Salvatore Tatarella chiedono «in una lettera inviata al Presidente (del parlamento europeo nda) Buzek di annullare l’ipotesi che una delegazione europea si rechi in un paese, l’ Iran, che non offre garanzie in tema di rispetto della legalità e della democrazia ». Giovedì verrà presa una decisione finale sulla missione.
La delegazione europea arriverebbe a Teheran dopo il revival di impiccagioni che contraddistinguono la fine del Ramadan. Secondo Iran human rights almeno 50 persone sono state giustiziate dall’inizio di settembre, compreso un minorenne. Non solo: è finita nella mani della Guida Suprema, l’ayatollah Alì Khamenei, la sorte del pastore cristiano iraniano, Youcef Nadarkhani, condannato a morte e accusato di apostasia.
Libero-Alessandro Carlini: " Il conto della primavera araba: 40 miliardi "

È arrivato il conto salatissimo della cosiddetta “primavera araba”, l'ondata di sommosse popolari che avrebbero dovuto portare libertà e prosperità nel Medio Oriente. E invece hanno avuto un costo esorbitante, che potrebbe addirittura scatenare una forte crisi finanziaria in Paesi come Egitto, Libia e Siria. A dirlo è un allarmante rapporto del gruppo di consulenza Geopolicity, che ha usato i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi). Si calcola che la perdita complessiva dovuta alle rivoluzioni abbia superato i 55 miliardi di dollari (più o meno 40 miliardi di euro), quasi quanto il Pil della Libia che è di poco più di 60. Mentre le nazioni produttrici di petrolio che hanno evitato o ridotto al minimo le ribellioni hanno tratto significativi benefici economici. Libia, Siria, Egitto, Tunisia e Yemen sono stati tutti colpiti. La perdita per i loro Pil ammonterebbe a 20,6 miliardi di dollari, quello per le loro finanze pubbliche a 35,3 miliardi. In Yemen e Libia le spese statali sono crollate insieme alle entrate. C'è stato un calo del 77 per cento di ricavi in Yemen, e dell'84 per cento in Libia, senza contare i danni alle infrastrutture, agli affari e alle perdite di investimenti stranieri. Chi ha subito più danni dalle rivolte è stata senza dubbio la Libia, dove è stato abbattuto il regime di Muammar Gheddafi. L'attività economica ha subito un calo pari a 7,7 miliardi di dollari, mentre per le finanze pubbliche l'ammanco è stato di 14,2 miliardi. Non solo: oltre 740 mila persone hanno lasciato il Paese dall'inizio del conflitto. E per riportare il Paese alla normalità serviranno anni e soldi. Per gli aiuti umanitari, indispensabili visto che la guerriglia va avanti, e per far ripartire i servizi minimi, come la scuola e gli ospedali, per pagare gli stipendi, riaprire le strade, per la bonifica dalle mine e dalle munizioni inesplose. Poi ne serviranno altri per ricostruire le infrastrutture, a partire da quelle distrutte dai raid della Nato. In tutto si parla di almeno 100 miliardi di dollari, 20 all'anno per il prossimo quinquennio, stima Lahcen Ashy, del Carnegie Middle East Center di Beirut. Non è andata meglio nell'Egitto del deposto Hosni Mubarak. In nove mesi di tumulti e di occupazione del centro del Cairo, è andato in fumo il 4,2% del Pil, con un costo per le casse dello Stato pari a 9,7 miliardi di dollari. In Siria, dove le proteste e la repressione del governo vanno ancora avanti, non è facile calcolare l'impatto della (tentata) rivoluzione ma si può fare comunque una stima di 6 miliardi, il 4,5% del Pil, oltre ai 27 miliardi di costi per la spesa pubblica. In Yemen addirittura i tumulti hanno inciso sui livelli di povertà del Paese. È stata superata la soglia del 15% della popolazione che sopravvive a stento. In Tunisia il Pil ha perso circa il 5,2%, pari a due miliardi di dollari, con impatti negativi in tutti i settori: turismo, pesca, industria mineraria. Si calcola che si sia creato un buco nelle casse dello Stato di 500 milioni di dollari. C'è chi però ha tratto beneficio dalla situazione di caos del Medio Oriente. E sono proprio quegli Stati in cui non si sono verificate rivoluzioni. Hanno potuto garantire gli approvvigionamenti di petrolio, il cui prezzo è passato dai 90 dollari al barile all'inizio dell'anno, ai 130 di maggio, fino a scendere attorno ai 110. L'Arabia Saudita ha investito circa 30 miliardi di dollari in una serie di programmi di investimento per evitare il dilagare delle proteste all'interno del Paese. I rincari dell'oro nero hanno poi prodotto un aumento della ricchezza nazionale pari a 5 miliardi, e fatto salire le entrate pubbliche a 60,9 miliardi di dollari. Il Bahrein, grazie a una crescita della spesa pubblica di 2,1 miliardi, è riuscito a garantire assegni per ogni famiglia da 2660 dollari e così a limitare le conseguenze delle proteste. Si spera che le nazioni meno colpite si associno per aiutare i vicini che hanno subito di più la “primavera araba”. Ma il rischio è che ancora una volta nella storia debba essere l'Occidente a intervenire, subendo così i contraccolpi non certo positivi dei mutamenti nella regione.
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