Sulla fuga dei cristiani copti dall'Egitto, IC ne aveva dato notizia ieri. Oggi, 04/10/2011, viene ripresa da alcuni quotidiani, che mettono in risalto il vero volto della 'primavera' egiziana, o, almeno, quello che è diventata.
Un destino facilmente individuabile sin dall'inizio.
Su LIBERO, Carlo Panella, sulla STAMPA Giacomo Galeazzi, entrambi gli articoli mettono in evidenza cronache e analisi diverse, ugualmente interessanti, sul FOGLIO Daniele Raineri, dal Cairo, che si segnala sempre per le accurate corrispondenze. Senza tema di smentite, ci sembra che nessun giornalone abbia mai pubblicato servizi così informati, ed accurati, come i suoi, da una sede, Il Cairo, al centro dei cambiamenti che stanno cambiando la storia del Medio Oriente. Complimenti da IC !
Ecco gli articoli:
Libero-Carlo Panella: " I cristiani in fuga dall'Egitto
"

Centomila cristiani copti sono fuggiti dall’Egitto verso gli Stati Uniti, Canada, Australia ed Europa da marzo a oggi per timore delle violenze degli islamisti. La notizia proviene dall’Unione egiziana per i Diritti umani, ed è attendibile, anche se va verificata e anche se sicuramente tra le motivazioni di questa migrazione conta molto il fattore economico: la primavera di piazza Tharir ha provocato una spaventosa flessione del turismo (meno 28% presenze), e in generale un netto peggioramento di un quadro economico già difficile. Ma, al di là dei numeri, è fuori discussione che il quadro politico egiziano è ben poco rassicurante per questa grande minoranza religiosa che conta tra gli 8 e i 10 milioni di adepti su una popolazione di 80 milioni. Naguib Gabriel, direttore dell’organizzazione che ha denunciato la diaspora cristiana sostiene infatti che «i copti non stanno abbandonando l’Egitto volontariamente, ma vengono costretti a fuggire dai salafiti con tattiche aggressive». Il fatto è che la giunta militare del feldmaresciallo Hussein Tantawi, oggi al potere al Cairo, è composta dai generali che fedelissimi a Hosni Mubarak, salvo poi voltargli le spalle all’ultimo minuto, e si mostra molto sensibile alla pressione crescente degli islamisti. Lo scambio offerto dai generali ai Fratelli Musulmani punta ad assorbire le loro richieste islamizzazione della società egiziana, in cambio di un colpo di spugna sul loro passato di complici di Mubarak. Beninteso, i copti in Egitto erano perseguitati anche sotto il regime precedente, tanto è vero che l’attentato kamikaze contro la chiesa dei Santi di Alessandria durante la messa di mezzanotte del 1 gennaio 2011, che fece ben 21 vittime, è avvenuto quando Mubarak sembrava ancora regnare senza problemi, così come centinaia erano stati i copti morti al Cairo e nel sud del Paese durante scontri confessionali negli ultimi decenni. Non solo, il grande Imam della moschea di al Azhar, massima autorità religiosa sunnita, il 3 gennaio, ebbe parole durissime e ruppe ogni dialogo religioso col Vaticano, per protestare contro le inesistenti “in - gerenze” di Benedetto XVI che si era solo limitato, con parole di pace, a chiedere garanzie di libertà religiosa per i cristiani in Egitto. Un episodio odioso, indicativo di un clima di intolleranza musulmana che ha radici secolari, ma che ora, in un quadro politico incerto e burrascoso, non trova nessun bilanciamento nel governo. I copti in Egitto, peraltro, non sono mai stati coinvolti nella gestione del regime (come lo erano stati ampiamente nell’Iraq di Saddam Hussein e lo sono oggi nella Siria di Bashar al Assad) e quindi la persecuzione nei loro confronti non ha nessuna implicazione politica, ma è motivata solo dalla più classica intolleranza musulmana. Il dramma però è che queste campagne d’odio settario non solo non vengonocontrastate dai “nuovi” regimi che si sono sostituiti – con troppi elementi di continuità – a quelli caduti con la “primave - ra araba”, ma vengono ignorati anche dall’Occidente. Nel vertice G8 del maggio scorso in Francia, su impulso di Nicolas Sarkozy e Barack Obama, è stato infatti deciso un fumoso “Piano Marshall” di ben 40 miliardi per i Paesi della “primavera araba” di cui ben 20 destinati a Egitto e Tunisia, purtroppo, senza condizioni, senza chiari e specifici vincoli di garanzia di una effettiva libertà religiosa. La classica elargizione “politically correct” di consistenti finanziamenti non finalizzati a costruire democrazia, che finiranno per perpetuare le peggiori storture delle società musulmane.
La Stampa-Giacomo Galeazzi: " Cristiani in fuga dall'incubo di un Egitto islamico"

L’ Egitto non è un Paese per cristiani. O almeno rischia di non esserlo più visto il potere sempre più forte delle correnti salafite salite alla ribalta dopo l’uscita di scena di Mubarak, in febbraio. Secondo l’Unione egiziana delle organizzazioni per i diritti umani, l’aumento delle tensioni religiose ha portato oltre 100 mila cristiani a lasciare il Paese. Una fuga-esodo che potrebbe portare a modificare gli equilibri demografici interni e la stabilità economica.
«La comunità internazionale non può assistere in silenzio a un dramma di queste proporzioni», è l’appello della Segreteria di Stato vaticana. Di fronte a «intolleranze fondate su pregiudizi»e a «strumentalizzazioni della fede per giustificare la violenza» in Curia si ribadisce che «la libertà religiosa è un diritto fondamentale da rispettare». Secondo gli analisti, la fuga dal Paese è «conseguenza delle rivolte della primavera araba iniziate nel dicembre 2010» che avrebbero aumentato il potere della componente islamica della società. In un documento inviato al governo del Cairo e al Consiglio supremo delle Forze Armate, l’Unione egiziana afferma che «i copti rappresentano un forte pilastro dell’economia» e che se stanno lasciando la loro terra natale «non lo fanno per necessità di lavoro, dal momento che costituiscono la classe imprenditoriale e professionale del Paese, ma per paura della linea dura adottata dai salafiti». Il documento ricorda l’escalation di violenze contro la comunità copta. Tra quelli più recenti, l’uccisione di nove cristiani all’inizio di settembre nel distretto di Mokatam Hills sopra al Cairo, la bomba alla chiesa copta di Alessandria a Capodanno e il taglio delle orecchie a un anziano copto a Qena. Una situazione più volte denunciata dai cristiani, che in maggio hanno manifestato a piazza Martin al Cairo per ribellarsi alle violenze.
Molti di loro non hanno dubbi nel far coincidere la deposizione di Mubarak con l’aumento dell’intolleranza religiosa nei confronti dei cristiani. Dall’Egitto, la maggior parte di copti cerca rifugio negli Stati Uniti. Emigrare è difficile, ma la comunità vive con «il terrore che la corrente islamista si rafforzi e prenda di mira i copti», commenta lo scrittore Adel Girgis: «Ora in Egitto vi sono molte mani che agiscono per sfruttare il caos a loro vantaggio». Una situazione che Girgis riassume ricordando una precedente sommossa, quando «dopo il colpo di Stato del 1952 che vide l’ascesa al potere di Nasser seguirono tensioni con la comunità copta». Ad alimentare i dissidi sono spesso i matrimoni interreligiosi e soprattutto la nuova legge sui luoghi di culto approvata dal Consiglio supremo delle forze armate. La riforma è stata osteggiata dalle Chiese copte, anglicane e cattoliche che contestano le regole sulla grandezza e la distanza tra i luoghi di culto: non devono superare i mille metri quadrati e devono sorgere a una distanza di un chilometro l’uno dall’altro.
Sul numero dei cristiani egiziani le cifre sono diverse. Secondo il governo sarebbero 6-7 milioni, quasi il doppio ne contano i leader copti. Fonti indipendenti ritengono che i cristiani siano circa 8-9 milioni, circa il 10% della popolazione totale. La maggior parte di loro aderisce alla Chiesa copto-ortodossa di Alessandria.
Il Foglio-Daniele Raineri: " Un prigioniero politico sta morendo al Cairo "

Maikel Nabil Sanad
Il Cairo, dal nostro inviato.
Maikel Nabil Sanad è oggi al quarantaduesimo giorno di sciopero della fame dentro una prigione del Cairo. Secondo chi ha potuto vederlo è in pericolo di vita, ma giura che non interromperà il digiuno fino a quando non sarà liberato. Considerato che è malato di cuore e che il 10 aprile è stato condannato da un tribunale militare a tre anni di carcere, lui che pure è civile, ma questa è la norma, rischia di diventare il primo prigioniero politico a morire dopo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak a febbraio. Il fratello Mark, disperato, dice ai giornalisti che in queste condizioni anche una condanna minima a otto mesi sarebbe stata una condanna a morte. Nabil è stato un problema per i militari egiziani quando ancora la rivoluzione sembrava un’improbabilità della storia. E’ stato il fondatore dello sparuto gruppo di obiettori di coscienza egiziani che rifiutano di prestare il servizio di leva, in un paese dove ancora oggi una parte della popolazione venera le Forze armate, custodi fedeli del paese – così vuole la versione che immancabilmente viene fuori nelle discussioni – davanti allo spettro dell’anarchia. Il gruppo ne ha ispirato un secondo gemellato in Siria, ed entrambi sono confluiti nei grandi movimenti antiregime. Prima di febbraio, però, le tesi di Maikel erano terribilmente indebolite da un dettaglio: lui è un fan esplicito di Israele, in un Egitto che è ancora preda dei suoi demoni peggiori, dove dichiararsi non anti israeliani a prescindere è come minimo un errore di buona educazione, se non un indizio grave di debolezza mentale. “Sono un pacifista – diceva il refusnik proprio un anno fa al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth che si era incuriosito della sua storia – sono contrario a portare armi e ad arruolarmi in organizzazioni militari o paramilitari. Non voglio agire contro la mia coscienza e non voglio agire come una pedina sulla scacchiera delle lotte sanguinose in questa regione. Non voglio puntare un’arma contro un giovane israeliano, obbligato anche lui a fare il servizio militare, che sta difendendo il diritto del suo stato a esistere. Il servizio militare è una forma di schiavitù e ho lavorato anni per avere la mia libertà”. Persino Roee Nahmias, l’intervistatore di Yedioth Ahronoth, ammetteva nel pezzo di essere sconcertato dalla foga del giovane egiziano, che diceva: “Sto con Israele, non voglio prendere parte a operazioni antisemite scatenate da chi nega il suo diritto a esistere in questa regione. Considero Israele uno stato moderno e liberale a carattere religioso. Ho amici in Israele e penso che gli israeliani abbiano il diritto di difendere se stessi”. E ancora, sull’operazione Piombo fuso: “Se i palestinesi avessero una leadership democratica, non sarebbe successo. Hamas ha cominciato. Rifiutano le elezioni a Gaza e la tengono sotto il loro regime, rifiutano di parlare con Israele e sparano razzi, provocandone la reazione. Piombo fuso è stata un’operazione normale: non vedo la differenza con quello che fa la Turchia contro i curdi nel nord dell’Iraq. E’ esattamente la stessa cosa”. Alla domanda se avesse paura a parlare così in pubblico, scrollava le spalle: “Sono otto anni che lo faccio. Sui giornali sono stato accusato di essere una spia, e sono stato arrestato più di una volta. Naturalmente non posso andare in Israele. Gli arabi che sono là e che ho sentito mi hanno detto che preferiscono vivere sotto il governo israeliano che sotto uno arabo”. Dopo le dimissioni a febbraio del presidente Mubarak, Maikel Nabil s’è preso il ruolo di cane da guardia del Supremo consiglio delle Forze armate che è arrivato a prendere il posto del vecchio regime – senza neanche spostarsi più di tanto: il generale Hossein Tantawi, che in questi giorni apre fabbriche e gira in abiti civili come fosse un candidato alle presidenziali (che cominceranno però non prima dell’estate 2012) è stato ministro della Difesa di Mubarak per vent’anni. Era solo uno tra i tanti blogger inebriati dall’aria di cambiamento, ma l’8 marzo ha scritto sul suo sito un lungo post che analizza perché “la rivoluzione è finora riuscita a liberarsi del dittatore, ma non della dittatura”. “Nello studio seguente presenterò tutte le prove e i documenti che dimostrano come l’esercito non fosse schierato al fianco della gente, neanche durante la rivoluzione, e che la condotta dell’esercito è stata ingannevole per tutto il tempo, orientata soltanto a tutelare i propri interessi”. Seguono congetture sul fatto che l’esercito egiziano in realtà aderì al regime fino all’ultimo, ma non si mosse perché preferì abbandonare Mubarak al suo destino per prenderne il posto e cominciare fin da subito ad aiutare una nuova generazione di profittatori politici, e segue soprattutto un lungo elenco di soprusi, dentezioni arbitrarie, torture con getti d’acqua, percosse e scosse elettriche, che dimostrano il carattere autoritario del potere militare. Non tutte le denunce del blog sono fondate. Scrive Maikel: “Sebbene la rivoluzione abbia scardinato la Costituzione del 1971, le Forze armate hanno rifiutato la proposta di una nuova dichiarazione costituzionale. Di fatto l’esercito non vuole emendare quella del 1971 fondata sulla tirannia. Questo dimostra ancora la posizione ambigua delle Forze armate. Allo stesso modo l’esercito insiste su indire nuove elezione presidenziali, prima della formazione di un Parlamento. Un processo inverso garantirebbe l’esistenza di un Parlamento migliore e più sano del precedente”. In realtà, oggi c’è una nuova Carta provvisoria e il presidente secondo un calendario elettorale fissato da poco sarà eletto dopo il Parlamento (anzi, forse con molto ritardo rispetto al Parlamento: ieri si diceva addirittura nel 2013). Il caso Grapel L’ingenuità di Maikel è stata credere che con la caduta di Mubarak fosse scomparso anche il controllo ubiquo sul pensiero e sulle intenzioni degli egiziani. Più ingenuo di lui è stato Ilan Grapel, un cittadino israeliano arrivato nell’Egitto dopo la rivoluzione per vedere il paese e imparare l’arabo. “S’è messo nei guai da solo – dice al Foglio chi lo ha conosciuto al Cairo – Continuava a vantarsi di avere combattuto con l’esercito di Israele in Libano, di essere stato ferito”. E’ in cella da tre mesi con l’accusa di spionaggio. Il Supremo Consiglio, dopo normali verifiche, ha accertato che non si tratta di un agente del Mossad. Eppure per liberarlo aspetta la visita del nuovo segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, oggi al Cairo, per ottenere in cambio un aumento degli aiuti americani alle Forze armate egiziane.
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