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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Informazione Corretta-Corriere della Sera-Il Foglio Rassegna Stampa
01.10.2011 Dopo Bin Laden, eliminato anche al-Awlaki
I commenti di Piera Prister, Guido olimpio, Daniele Raineri

Testata:Informazione Corretta-Corriere della Sera-Il Foglio
Autore: Piera Prister-Guido Olimpio.Daniele Raineri
Titolo: «Anwar al-Awlaki e i suoi compagni-Infranto un tabù che neppure Bush aveva oltrepassato-Obama colpisce in Yemen l'aspirante erede di Bin Laden»

Dopo Bin Laden eliminato anche il suo vice, Anwar al-Awlaki. Pubblichiamo il commento di Piera Prister, di Guido Olimpio dal CORRIERE della SERA, a pag.17, di Daniele Raineri dal FOGLIO, a pag.1/4.

Informazione Corretta-Piera Prister: " Anwar al-Awlaki e i suoi compagni"

 Piera Prister       Anwar al-Awlaki

Awlaki ucciso da un drone della CIA in Yemen Anwar al-Awlaki era una figura carismatica del movimento jihadista mondiale nel cyber space e costituiva una grande minaccia per l’Occidente, come lo fu Bin-Laden. Ormai entrambi sono stati uccisi e non sono piu’ in grado di nuocere. La notizia della sua morte qui in America, e’ stata data dal presidente Barack Obama, e’ risuonata alle televisioni e alle radio ma senza tanti strombazzamenti, non come accadde quando si seppe dell’uccisione di Bin Laden. E’ giusto che sia cosi’, tutto deve essere cauto e calibrato, visto che siamo in guerra con il terrorismo e l’esultanza ci puo’ costare cara con possibili postume vendette che comunque non tarderanno ad arrivare, come e’ stato con il dopo Bin Laden (Bin Laden aftermath). Oggi 29 settembre 2011 il terrorista di al-Qaeda, Anwar al-Awlaki, non esiste piu’. Americano di San Diego, California, di origine yemenite e appartente a una famiglia benestante -suo padre era stato ministro dell’Agricoltura in Yemen- reclutava jihadisti su Internet ed era la mastermind dell’invio dei due pacchi contenenti bombe a due sinagoghe di Chicago del 29 ottobre 2010. Attentato fallito. Awlaki era stato anche in contatto Internet con il maggiore Nidal Hasan quello psichiatra “folle”, nato negli USA da genitori palestinesi e autore della carneficina di Fort-Hood, in Texas. Fu fermato quando gia’ aveva assassinato 13 suoi indifesi commilitoni, da un coraggioso poliziotto texano, Mark Todd e da una sergente, di nome Kimberly Munley dalla bionda coda di cavallo, che rimase anche ferita nella sparatoria e attaccata per giorni ad un respiratore artificiale, in ospedale. Insomma un’eroina da frontiera alla Calamity Jane nel selvaggio West, una donna, che umiliazione per Hasan! (Cosi’ come e’ stato confermato da WikiLeaks nel documento,”Hasan colpito da una donna soldato”). al-Awlaki, inoltre era stato in contatto con l’altro potenziale terrorista Umar Farouk Abdulmutallab, ingegnere nigeriano, laureatosi a Londra, che viaggiava con una microbomba infilata nelle sue mutande, “the underwear bomber”, sul volo di Natale 2009 diretto a Detroit da Amsterdam. Era stato indottrinato alla Guerra Santa da vari imam e convinto da al-Awlaki che la jihad gli avrebbe aperto le porte del paradiso. Il suo nome era gia’ incluso nella lista dei passeggeri sospetti, ma non era stato pero’ preso sul serio dai funzionari della “US Homeland Security”. Anche Faisal Shahzad, l’attentatore pachistano che il primo maggio 2010, stava preparando un attacco, con la sua macchina imbottita di tritolo in Time Square a New York era in collegamento con lui. Ma quello che e’ passato quasi in sordina e’ che lo stesso al-Awlaki avesse posto nello spazio cibernetico una fatwa contro Molly Norris, la giornalista vignettista del Seattle Magazine, costretta a cambiare la sua identita’ e a darsi alla macchia, perche’ su Facebook aveva divulgato il messaggio, “Everybody draw Mohammed” un appello a disegnare tutti il profeta in difesa dei vignettisti danesi e olandesi. La Norris minacciata di morte fu abbandonata, dimenticata e da nessuno difesa. Lo stesso Giulio Andreotti in Italia, a sproposito disse: “Ben le sta, se l’e’ cercata!” come di fronte a un fatto di mafia di fronte al quale l’unica risposta e’ l’omerta’. Invece l’unico articolo in sua difesa fu quello di Daniel Pipes, “Dueling Fatwas” del 4 ottobre 2010, sul Washington Times che tra l’altro ci informava anche che l’amministrazione americana aveva posto una taglia sulla testa dello stesso al-Awlaki sfidando la legge Miranda, “Miranda Law”, che in 250 anni ha impedito che si condannasse a morte un cittadino americano prima di un regolare processo.
Piera Prister Bracaglia Morante

 Corriere della Sera-Guido Olimpio: "  Infranto un tabù che neppure Bush aveva oltrepassato "

                            Guido Olimpio

Per alcuni esperti la Casa Bianca ha violato la legge. Per i liberal, infuriati, Barack Obama ha infranto un tabù. Una mossa che neppure George Bush aveva osato fare. Uccidere due cittadini americani senza sottoporli a un regolare processo e sulla base di informazioni incomplete. L'imam Al Awlaki e il suo complice Samir Khan erano infatti statunitensi a tutti gli effetti. E dunque protetti dalla Costituzione. Ostacolo aggirato dalla Casa Bianca con un'interpretazione allargata dei poteri concessi dal Congresso dopo l'11 settembre. Loro sono in guerra con noi, Khan si era detto «fiero di aver tradito», hanno spiegato i funzionari, e allora è legittimo difendere con ogni mezzo l'America. Così, un anno fa, Obama, ha detto sì all'inserimento di Al Awlaki in una lista di terroristi da eliminare. Decisione subito contestata dalle associazioni per i diritti civili e dal padre dell'imam che ha invano presentato istanza legale in tribunale. Un passo affondato dal verdetto di un giudice. Ieri i critici sono tornati a protestare con veemenza trovando un alleato nel repubblicano Ron Paul, sempre duro verso la guerra al terrore.

Come spesso accade in America, s'è trovata una copertura formale per compiere qualcosa di illegale. Se la Cia ha l'ufficio di avvocati più grande degli Usa è proprio per questo. Dieci di loro lavorano a tempo pieno per fornire le pezze d'appoggio ai piloti dei droni. Compilano rapporti in base alle segnalazioni degli 007, quindi preparano quello che è chiamato, in gergo, l'avviso di morte. Ossia l'inserimento del terrorista nella lista dei bersagli. Ma l'assistenza degli avvocati non si ferma qui: non è raro che seguano l'operazione d'attacco dei droni dalla stazione di comando. Per evitare — è stato spiegato — che possano essere compiuti errori fatali, come l'uccisione di civili che non c'entrano nulla. A volte funziona, a volte no. Molto dipende dai dati che arrivano dal campo. La catena burocratica creata sotto Bush è continuata anche con Obama. Anzi, la presidenza, in piena sintonia con l'intelligence, ha scelto i droni come l'arma principale nella lotta ad Al Qaeda. Veri mietitori del cielo che hanno incenerito militanti arabi, ceceni, uzbeki, pachistani, somali scovati nei loro inaccessibili rifugi. Inevitabile che toccasse anche a al Awlaki. Essere americano per lui non era un'attenuante.

Il Foglio-Daniele Raineri: " Obama colpisce in Yemen l'aspirante erede di Bin Laden "

                                                              Daniele Raineri

Il Cairo, dal nostro inviato. Martedì è arrivato l’ultimo numero in formato pdf della rivista in lingua inglese Inspire, edita su Internet dal gruppo terrorista al Qaida nella penisola arabica. Copertina dorata con foto della stazione centrale di New York e fascia che annuncia un editoriale dello sceicco Anwar al Awlaki sulla necessità “di colpire le popolazioni dei paesi che sono in guerra con l’islam”. Ieri la parte più importante della redazione di Inspire, Awlaki stesso e il suo caporedattore Samir Khan, è stata incenerita da un missile mentre era in macchina vicino ad al Jawf, nello Yemen. Dopo la morte in Pakistan di Osama bin Laden, il predicatore con passaporto americano era il primo sulla lista dei terroristi più ricercati dall’Amministrazione Obama. A mezzogiorno il ministro della Difesa yemenita ne ha annunciato l’uccisione con un bombardamento aereo. Era già stato dichiarato morto dal governo in altre tre precedenti occasioni, ma questa volta due funzionari senza nome dell’Amministrazione americana ne hanno confermato l’identità, appena tre ore dopo l’annuncio del ministro di Sana’a. La sicurezza e la disinvoltura ostentate da Washington nell’identificare un corpo davvero importante ma che giace dentro una Toyota Hilux del 2005 distrutta da un missile su una strada in una zona disabitata centoquaranta chilometri a est della capitale dello Yemen, assieme al fatto che gli aerei yemeniti non hanno le capacità tecniche per effettuare questo tipo di operazioni di precisione, fanno pensare alla sola altra alternativa possibile, ovvero a un colpo degli aerei senza pilota americani e fanno pensare anche che al Awlaki fosse già inquadrato da tempo dai suoi inseguitori, come Osama nel suo rifugio pachistano di Abbottabad. Si tratta di un secondo grande successo per il presidente Barack Obama, il cui governo è diventato una macchina inflessibile e infallibile contro al Qaida, e per il comando delle forze speciali del Pentagono che assieme alla Cia si occupa della caccia ai terroristi. La differenza è che questa volta c’è stata la collaborazione dei servizi yemeniti, che hanno trovato il ricercato e ne hanno indicato la posizione in un villaggio nella parte est del paese, secondo le notizie che arrivano da Sana’a. Fino a ieri si credeva si nascondesse a sud, lontano dalla capitale. L’uccisione di al Awlaki cade al momento giusto per il regime dello Yemen. Il presidente Saleh, sopravvissuto a giugno a un attentato con una bomba nel suo palazzo, è appena tornato da una difficile convalescenza in Arabia Saudita. Durante la sua assenza, i membri del clan famigliare – che formano l’ossatura del suo potere – hanno soffocato nel sangue le proteste degli yemeniti e hanno spinto il paese vicino alla guerra civile, tanto da convincere l’Amministrazione Obama a chiedere a Saleh di dimettersi e di cedere alle richieste di cambiamento dopo più di trent’anni ininterrotti di presidenza. La questione terrorismo condiziona tutta la politica di Washington in Yemen. A maggio, quando il missile di un drone americano mancò di poco al Awlaki – era l’inizio del mese, l’America avrebbe potuto sbarazzarsi di due ricercati pericolosi nello spazio di una settimana – un articolo dell’inviata nel Golfo del Wall Street Journal, Margaret Coker, fondato su notizie da dentro il Palazzo di Saleh, spiegava che il presidente yemenita era deciso a far vedere agli alleati quanto si considera prezioso nella lotta al terrorismo – non ha bisogno di molti sforzi, le critiche dall’esterno contro di lui sono prudenti e blande, nulla a che vedere con Gheddafi in Libia o Bashar el Assad in Siria. La testa di al Awlaki in cambio della mia permanenza al potere: questo il patto di Saleh, difficile da ignorare per l’America e anche per l’Arabia Saudita, i cui servizi segreti avevano intrapreso una caccia senza sosta al predicatore perché al Qaida in Yemen ha tentato già quattro volte di uccidere il direttore, il principe al Nayef, e ora forse non sono estranei alla sua morte. Oggi le voci sul patto “lotta al terrorismo in cambio di credenziali politiche internazionali” si ripropongono, soprattutto perché Saleh è tornato da una sola settimana e ieri ha ricordato il proprio ruolo centrale in una doppia intervista a due giganti dei media americani come il Washington Post e il Time. L’intervista è uscita ed è stata subito seguita dalla notizia dell’uccisione di Awlaki. Negli anni passati il regime di Sana’a è stato accusato, come il Pakistan, di avere contatti opportunistici con al Qaida e di conoscerne bene i movimenti, ma di non fare nulla in attesa di sfruttare meglio il capitale politico della situazione. Anche la rivoluzione non sta bene L’uccisione di al Awlaki è la notizia del giorno, e nei circoli dell’antiterrorismo è la notizia dell’anno dopo la morte di Osama, ma in Yemen se ne sono a malapena accorti. Al Awlaki per la maggioranza degli yemeniti è soltanto un cognome comune che si legge sulle insegne dei negozi, o il nome di una valle cara a tutti per la sua bellezza, e l’argomento centrale resta la rivoluzione che sta fallendo. La Cia ha un programma di spionaggio e di uccisione dei leader terroristi nella penisola arabica, che di recente si è allargato con la costruzione di una nuova base in Etiopia e di un’altra in un paese arabo del Golfo non identificato, da cui fare decollare i droni. Le basi segrete sono disposte in modo che gli aerei senza pilota possano coprire, e in certi casi anche sovrapporsi su alcune aree precise, soprattutto sul territorio dello Yemen e della Somalia, appena al di là dello Stretto di Bab el Mandab tra mar Rosso e Golfo di Aden. Al centro di queste aree e quindi degli sforzi c’era al Awlaki. Il suo inquadramento nei ranghi dell’organizzazione di al Qaida è atipico, anche se ieri le televisioni americane semplificavano attribuendogli il ruolo di capo di al Qaida nello Yemen. Al Awlaki era piuttosto un ispiratore dal carisma diabolico, con un ottimo inglese, articolato, persuasivo, capace di manipolare e di convincere a distanza, tra gli altri, anche il maggiore dell’esercito americano Nidal Malik Hasan, che nel 2009 uccise 13 soldati a Fort Hood in Texas. Lo studente inglese di 21 anni che accoltellò un parlamentare a Londra disse di non conoscerlo di persona, ma di avere agito dopo avere visto cento ore dei video di al Awlaki su Internet. Quando era a San Diego, nel 2001, il predicatore incontrò due attentatori dell’11 settembre. In Yemen, al Awlaki si era inserito, forse ispirandolo dal principio, nel progetto ambizioso del gruppo, che punta a diventare il nuovo fronte del terrorismo internazionale, la nuova fonte di preoccupazioni per la Casa Bianca, più del nucleo originale di al Qaida sottoposto in Pakistan alla caccia dei droni. Il fallito attentato del Natale 2009 su un aereo passeggeri a Detroit e il grande piano per far esplodere aerei in volo l’anno successivo portano anche la responsabilità di al Awlaki. Obama e il direttore della Cia, David Petraeus, hanno trasferito la campagna in Yemen contro un americano senza farsi problemi legali.

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