Riprendiamo dalla STAMPA l'intervista ad A.B.Yehoshua di Albero Mattioli, a pag.3, nella quale lo scrittore israeliano riconferma come lo Stato palestinese debba nascere attraverso un accordo bilaterale con Israele.
L'intervista di Alessandra Farkas sul CORRIERE della SERA, a pag.15, con il capo dell' Organizzazione della Conferenza islamica, ribadisce invece la mala fede dei leader palestinesi nel rievocare i motivi per i quali non esite oggi un loro Stato. Finchè questa menzogna prevarrà, i palestinesi non capiranno mai a chi attribuire la responsabilità della loro condizione. L'ha capito persino la sinistra pacifista israeliana, come riporta Francesco Battistini, sempre sul Corriere, nell'intervista a Alon Hilu, scrittore, vincitore di un importante premio letterario isrealiano, che però dovette restituire quando si seppe che il presidente della giuria era suo zio, Yossi Sarid, icona pacifista.
Ecco i pezzi:
La Stampa- Alberto Mattioli: " Soltanto la trattativa potrà portare allo Stato palestinese "

A.B.Yehoshua
Anche sulla questione palestinese, la Francia gioca in solitaria. Nicolas Sarkozy è andato all’Onu a proporre un compromesso che salva sia la capra dei buoni rapporti con gli Usa e con Israele (Sarkò è il più americano dei presidenti della Quinta repubblica) sia i cavoli del prestigio francese nel mondo arabo, perso in Tunisia ma riconquistato in Libia. L’idea è quella di ammettere la Palestina all’Onu ma, per il momento, solo come osservatore, senza diritto di voto. Come il Vaticano, insomma.
Dalla sua casa in Israele, lo scrittore Avraham Yehoshua (fra due mesi esce in Italia l’ultimo romanzo, «La cena perduta») approva: «L’idea francese non è male. Può essere lo stimolo per continuare il processo di pace e tornare finalmente a negoziare. L’importante è uscire dallo stallo, il come è secondario».
Ma per lei uno Stato palestinese deve esserci?
«Certamente. Non mi interessa se all’Onu si discute di un riconoscimento de facto o de iure. Va bene tutto, purché si riesca a evitare il veto americano e una disfatta palestinese. Il problema non è il riconoscimento, ma l’esistenza dello Stato palestinese. E questa si ottiene solo negoziando: se va bene alle Nazioni Unite, se va male in altre sedi».
Uno Stato palestinese, ma come?
«Basato sui confini del ‘67, quindi con la Cisgiordania. Smilitarizzato, come il primo ministro israeliano ha giustamente chiesto. E che viva in pace con noi».
Perché i palestinesi hanno fatto questo passo all’Onu quando sanno benissimo che non ha nessuna possibilità di successo?
«Perché anche loro hanno interesse, in questo momento, a rivitalizzare il negoziato. E sperano che il dibattito all’Onu lo farà ripartire. Sono perfettamente consapevoli che, anche se le Nazioni Unite dovessero riconoscere la Palestina, in pratica non cambierebbe nulla».
Come al solito, l’Europa agisce in ordine sparso. Perché?
«Guardi che l’europeo è lei, io sono israeliano. Però credo che l’Europa, lasciando tutto il dossier mediorientale in mani americane, stia perdendo una grande occasione. I principali Stati europei, la Francia, l’Italia, la Germania e la Gran Bretagna, dovrebbero prendere l’iniziativa di riconoscere la Palestina, purché smilitarizzata, offrendo in cambio a Israele una garanzia sulla sicurezza».
Tanto più che si è visto in Libia che alcuni Stati europei possono prendere l’iniziativa e portarsi dietro gli Usa...
«Esatto. E qui non si tratta nemmeno di bombardare. Una garanzia militare è molto meno impegnativa di un’operazione militare. E molto più facile da mettere in pratica».
Se Obama metterà il veto in Consiglio di sicurezza sarà per ragioni di politica estera o interna?
«Non credo che sia colpa della solita lobby ebraica. La relazione sentimentale, molto profonda che esiste fra gli Stati Uniti e Israele tocca in realtà milioni di cristiani americani, che vedono negli ebrei dei fratelli maggiori e hanno una visione un po’ mitica di Israele. Ma proprio perché la politica americana è così vile si aprono ampi spazi per l’Europa. Basta che voglia prenderseli. E, del resto, a pace fatta l’Europa ci potrebbe anche dare un modello».
E quale?
«Il Benelux. Io sogno un Benelux mediorientale formato da Israele, Palestina e Giordania, legati da vicinanza territoriale e vincoli di collaborazione economica. E in pace, finalmente».
Corriere della Sera-Alessandra Farkas: " Soltanto due Stati sullo stesso piano possono negoziare"

Ekmeleddin Ihsanoglu (a destra)
NEW YORK — In un'intervista al Corriere, nel settembre 2009, aveva definito Barack Obama «un presidente americano diverso da tutti gli altri»; «il primo a riconoscere la sofferenza dei palestinesi, collegandola a quella degli ebrei e degli afroamericani». Ma due anni più tardi, il Segretario generale dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oic) Ekmeleddin Ihsanoglu ha cambiato registro.
«Avrei tanto voluto vedere il presidente Obama mantenere la promessa fatta alla 65a Assemblea generale Onu», spiega il leader della seconda più grande organizzazione intergovernativa dopo l'Onu, con 57 Stati membri in 4 continenti, «nel 2010 egli auspicò la creazione di uno stato palestinese indipendente e sovrano entro un anno».
Obama vi ha deluso?
«La leadership politica non è uno scherzo. Obama deve fare i conti con fattori di politica interna e bilanciarli. Non voglio aggiungere altro».
Come giudica la decisione dei palestinesi di dare più tempo al Consiglio di sicurezza prima del voto?
«La nostra posizione è chiara: non esistono motivi per cui il Consiglio di sicurezza o l'Assemblea generale debbano rifiutarsi di votare e approvare subito la richiesta di Abu Mazen sulla creazione di uno stato».
Perché non aspettare una ripresa dei negoziati diretti tra Israele e Palestinesi?
«Aiutare i palestinesi adesso è un imperativo morale. La risoluzione Onu del 1947 prevedeva la creazione di due stati, uno ebraico e l'altro palestinese, uno vicino all'altro. Da allora il primo è diventato realtà, il secondo no. È tempo di risultati».
Molti, non solo in Israele e in Usa, temono gli effetti di un'azione unilaterale.
«Una volta che saranno finalmente una realtà, Stato ebraico e Stato palestinese potranno tornare ad incontrarsi per negoziare la pace, ex aequo. Solo allora si potranno decidere i confini del nuovo Stato, secondo parametri stabiliti dalla comunità internazionale».
E la parte dei palestinesi che non si riconosce nel nuovo stato?
«Le differenze finiranno per ricomporsi di fronte alla gioia di avere una nazione dopo 64 anni. Le fazioni che oggi dividono i palestinesi lasceranno il passo a un processo democratico vero. Si deve iniziare con un referendum sullo Stato, per passare poi a elezioni democratiche».
Israele è assediata da Stati che mettono in discussione la sua stessa esistenza.
«Quando esisterà uno Stato palestinese, tutti riconosceranno i due Stati, che coopereranno tra loro invece di farsi la guerra. Solo allora la regione diventerà un luogo di prosperità, invece che di terrorismo».
Nel suo libro The Islamic World in the New Century lei parla dell'importanza del processo di democratizzazione nei paesi musulmani.
«L'ho scritto nel 2009, prima della primavera araba. Sostengo da sempre che i paesi islamici vivono fuori dalla storia e che prima o poi cercheranno di entrarvi, come hanno fatto tanti ex regimi totalitari, dall'Europa dell'Est all'America Latina. Sono profondamente convinto che dalla primavera araba scaturirà una vera democrazia, anche se sarà un cammino lungo e tortuoso».
Corriere della Sera-Francesco Battistini: " Non sono pronti, non hanno strutture, lo sanno anche loro"

Alon Hilu
GERUSALEMME — «Lo Stato di Palestina. Che parola. La sento pronunciare da quando sono nato. Se non altro, è un modo per smuovere acque immobili. Se è utile a risolvere il conflitto, ne siamo tutti felici. Ma ho qualche dubbio...». C'è un israeliano più indifferente che preoccupato, da quel che va in scena all'Onu. Più diffidente che allarmato. È giovane come Alon Hilu, il romanziere della Tenuta Rajani che sulla terra palestinese diventata israeliana ha narrato un'urticante allegoria politica, è liberal e abbastanza critico verso i padri per chieder loro che cosa ne sarà dei figli: «Ma ha visto l'età di Abu Mazen, Netanyahu, Erekat, Barak? Da quanto "negoziano" su questa cosa? Facebook sta facendo crescere nuovi leader. Gli indignati di Tel Aviv hanno mostrato l'impegno d'una generazione senza passato politico. È su questo che si deve puntare. Anche se m'impensierisce una cosa: che anche lì, nei social network, alla fine arrivino le solite idee pro o contro Israele. E che questo finirà per rafforzare l'odio reciproco delle vecchie generazioni».
Che cosa cambia con uno Stato palestinese, nella vita d'ogni giorno?
«Invocandolo unilateralmente, Abu Mazen ha messo in mano un'arma a chi vuole fare una guerra a Israele. I palestinesi purtroppo non sono pronti ad avere uno Stato indipendente, con strutture civili e militari. Lo sanno anche loro. Senza una soluzione condivisa, è solo un'occasione di scontro. Senza un dialogo vero, un voto all'Onu cambia poco».
Tu fai un discorso generazionale: come dovrà parlare, la tua, ai palestinesi di domani?
«Ci sono tanti tipi d'israeliano: il telavivi e il colono, il religioso e il laico, l'orientale e il russo... C'è fra tutti loro una fascia comune che ormai ha voglia solo di silenzio, di pace, di risolvere la questione in modo politico e non militare».
Due popoli, due Stati. Vicini. Ma non trovi strano che dopo 60 anni siano i palestinesi a parlare l'ebraico e siano pochissimi gl'israeliani che parlano l'arabo?
«In tutto il mondo, è la minoranza che impara la lingua della maggioranza: non si tratta d'odio o d'amore, ma di sopravvivenza. Io lo parlo, l'arabo. Ma ho 39 anni e non ho mai avuto un amico palestinese. Su Facebook, per me, è più facile legare con un iraniano che con un palestinese. Perché? A questo punto, non importa. Israeliani e palestinesi non stanno cercando d'innamorarsi: si farebbero bastare una convivenza normale».
La primavera araba fa arrivare all'Onu un Israele molto isolato.
«In Israele, molti hanno paura e non vedono nulla di primaverile in quelle rivolte, ma solo una crescita d'odio contro di noi. In Egitto, hanno cercato di linciare la nostra gente in ambasciata. Chiamiamola primavera solo quando vedremo fiorire germogli di cambiamento, di democrazia non violenta, di pazienza nel dialogo».
C'è una cosa che i palestinesi possono prendere da Israele, nel costruire uno Stato?
«Difficile. Sono due società troppo diverse. Faccio una proposta: cominciamo, insieme, a educare i nostri ragazzi alla pace?».
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