Con pochissime eccezioni, i titoli dei quotidiani di oggi, 24/09/2011, sono tutti schierati dalla parte palestinese. Questo riconferma il giudizio sui nostri media che da più di dieci anni IC sottolinea e critica. I commenti variano, ovviamente, ma la scelta dei direttori è quella.
Fra le eccezioni, IL GIORNALE, che apre la nostra rassegna con il commento di Fiamma Nirenstein a pag.14. Segue Maurizio Molinari, sulla STAMPA a pag.5, accurato come sempre, nell'individuare il perchè della scelta di Obama. Interessante per le opinioni che riporta, il FOGLIO, a pag.3, anche se chi scrive (il pezzo non ha firma) sembra quasi essere dispiaciuto, quando osserva che " Abu Mazen dovraà accontentari...",che ci ricorda il pezzo di ieri, pieno di elogi nei confronti del presidnete palestinese e di forti critiche verso Netanyahu.
Segue Tramballi, preceduto - non poteva essere diversamente - da un nostro commento.
Ecco i pezzi:
Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " Abu Mazen, tanto rumore per nulla, è solo Israele che vuole trattare".

Fiamma Nirenstein
L’arena della corrida dell’Onu ieri ha infilzato il suo solito toro,Israele.La richiesta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di stabilire unilateralmente, senza nessuna trattativa, uno Stato Palestinese è stata consegnata e annunciata con suono di trombe. Abu Mazen, il presidente palestinese, l’ha annunciato nel suo discorso dopo aver porto a Ban Ki Moon la richiesta scritta. Dall’altra parte Benjamin Netanyahu, il premier israeliano ha invece riproposto molto decisamente la strada della trattativa diretta, «Sediamo e trattiamo “dughri”» (si dice sia in arabo che in ebraico), subito, adesso, qui a New York, perché altrimenti non verrà mai la pace, un Paese piccolissimo come Israele deve trattare la sua sicurezza, non regalarla all’Onu, organizzazione - ha detto Bibi - «sempre prevenuta contro di noi».
«Sarà bene - ha detto Netanyahuche i palestinesi trattino per due stati, lo stato ebraico e quello palestinese, invece di sottrarsi sperando nella nostra scomparsa e negando la nostra appartenenza a questa terra ». Ma il primo ministro ha preso la parola dopo un discorso aggressivo oltre ogni aspettativa, carico di eco arafattiane, di delegittimazione di Israele non dal ’ 67, per gli insediamenti, ma dal ’48, la fondazione; carico di demonizzazioni estremiste quali non si pensava potessero essere usate altro che da Ahmadinejad o da Erdogan, come di fatto è accaduto nei giorni scorsi. Il discorso di Abu Mazen, tutto costruito sulleragioni per cui i palestinesi non si vogliono più sedere al tavolo delle trattative, ha fornito il film di un’Israele diabolica,portata per natura all’oppressione. Il presidente palestinese l’ha accusata di tutti i crimini possibili, fino al paradosso, costruendo il punto d’arrivo nell’accusa di pulizia etnica e di apartheid, assurditàche illuminano le intenzioni vere di Abu Mazen: non lo Stato, che comunque Abu Mazen sa non passerà da qui perché quando si arriverà al Consiglio di sicurezza gli Usa porranno il veto, ma una grande campagna che punta sugli umori della primavera araba e sulle incertezze degli europei.
Abu Mazen ha anche puntato per motivi di leadership sulla sfida agli Usa dopo il discorso contrario alla dichiarazione unilaterale fatto da Obama. Il discorso ha descritto Israele come un Paese sadico, paracadutato nell’area senza motivo, senza volontà di pace, una caricatura che ha forse poi meglio illuminato, invece, il pacato racconto di Netanyahu dei disperati tentativi di pace e anche degli sgomberi ( il Sinai, Libano, Gaza) in cui Israele si è giuocata fino in fondo. La «Naqba» del 1948 è stata descritta come un assalto assurdo alla popolazione civile, come se gli arabi non avessero rifiutato la partizione e poi attaccato Israele che aveva invece accettato, come se fosse esistito allora uno stato palestinese poi invaso da colonialisti ebrei. Abu Mazen si è avventato su Israele fino ad arrivare alla parola «apartheid »: assalti ai civili innocenti, terrorismo di stato, occupazione senza pietà, assassini mirati, detenzione di prigionieri colpevoli solo di reati di opinione!, attacchi a scuole, ospedali, muro e check point, senza menzionare mai il proprio terrorismo. Secondo Abu Mazen è stata colpa di Israele se i negoziati sono falliti: si è dimenticato il suo stesso svanire nell’aria non appena trovato un accordo completo con Olmert, il rifiuto di Arafat di fronte a Barak e Clinton, le mille occasioni fornite da Israele compreso il congelamento degli insediamenti, tutte vicende ricordate da Netanyahu pacatamente. Bibi non ha detto una parola contro Abu Mazen, è stato molto lieve, ma ha ricordato i pericoli del terrorismo e dell’islam militante. Ha parlato anche dell’Iran come del maggior pericolo, annunciando: «Noi non lasceremo che il terrorismo atomico ci minacci». Ma soprattutto ha invitato i palestinesi a trattare, e subito. Ma Abu Mazen era già sull’aereo di ritorno a Ramallah, dove lo attendono i suoi con festeggiamenti e una domanda pressante: qual è la prossima mossa? Abu Mazen ha voluto mostrarsi duro, un nuovo Arafat; ha riproposto «il diritto al ritorno» che distruggerebbe Israele con le armi della demografia, ha chiamato Gerusalemme «territorio occupato », non ha detto una parola di condanna per il terrorismo. Abu Mazen ha suonato la bucina della mobilitazione globale. E ha preso gli applausi dell’Onu, naturalmente.
La Stampa-Maurizio Molinari: " Obama ha scelto Bibi pensando alla sfida delle presidenziali "

Maurizio Molinari
L’ opposizione al riconoscimento Onu dello Stato palestinese è il frutto di un cambio di marcia di Barack Obama sul Medio Oriente che nasce da ragioni di politica interna e irritazione nei confronti di Ramallah con la conseguenza di aprire una nuova fase di impegno negoziale che potrebbe portare presto il Presidente americano a recarsi in visita in Israele. Questo si evince da una serie di conversazioni con diplomatici che seguono da vicino l’agenda internazionale di Obama e con analisti del Medio Oriente dei centri studi di Washington. Il consenso è unanime sulla genesi della svolta: i motivi sono domestici. «Durante l’estate il Presidente si è reso conto che nel 2012 la rielezione si giocherà sull’economia e in particolare sull’occupazione - spiega Patrick Clawson, del Washington Institute - e di conseguenza ha deciso di abbassare il profilo su tutti i temi di politica internazionale, incluso il negoziato israelo-palestinese».
Larry Korb, responsabile delle questioni strategiche nel pensatoio democratico del «Center for American progress» di John Podesta, aggiunge: «Nel
2012 l’elezione finirà in un testa a testa, ogni settore dell’elettorato può rivelarsi decisivo e la Casa Bianca si è resa conto che in America c’è una percezione di Obama come Presidente più vicino ai palestinesi che a Israele mentre la grande maggioranza della popolazione, non solo gli ebrei, guarda con più favore a Israele che ai palestinesi». Ciò spiega perché nelle riunioni avvenute fra i consiglieri del Presidente per la redazione del discorso poi pronunciato all’Assemblea Generale dell’Onu a prevalere è stata la volontà di «riequilibrare la percezione di Obama nell’opinione pubblica americana» mandando un segnale diverso rispetto al passato.
Ma c’è dell’altro perché se l’approccio del pragmatico Ben Rhodes, lo speechwriter sui temi di sicurezza nazionale e strategia, ha prevalso su quello più liberal e pro-palestinese di Samantha Power, consigliere sulla politica estera, è stato in ragione del «disappunto di Obama nei confronti di Abu Mazen». Clawson lo riassume così: «In maggio Obama dicendosi a favore delle frontiere del 1967 per il futuro Stato palestinese aveva compiuto un importante passo verso Abu Mazen, che però anziché ricambiare con un’altrettanto significativa apertura negoziale ha scelto di andare in tutt’altra direzione, puntando sul riconoscimento dell’Onu». Questo passo ha causato un corto circuito fra Washington e Ramallah perché sostituire l’Onu alla trattativa bilaterale implica l’abbandono dalla formula negoziale sulla quale si basano gli accordi di Oslo del 1993, siglati sotto l’egida dell’amministrazione Clinton.
«Obama non ha mai avuto alternative al veto Onu - spiega un diplomatico americano - perché sostenere Abu Mazen avrebbe significato smentire Oslo, facendo saltare la cornice legale e politica del negoziato israelo-palestinese». La conseguenza è «che oggi Obama si è allontanato da ciò che realmente pensa sul Medio Oriente - sottolinea Larry Korb - e che ha espresso nel discorso del Cairo e in quello a favore confini del 1967».
Cosa avverrà adesso? La convergenza con Benjamin Netanyahu suggerisce che Obama potrebbe recarsi presto in visita in Israele, dove da tempo vuole andare, al duplice fine di continuare a ribilanciare la sua immagine pro-palestinese e di fare leva sul legame con Gerusalemme per tentare di ottenere con il sorriso le concessioni negoziali che ha invano inseguito esercitando forti pressioni. Tale prospettiva spiega anche il via libera di Obama alla vendita a Israele di 55 potenti bombe anti-bunker Gbu22 che nel 2005 l’amministrazione Bush aveva bloccato nel timore potessero servire ad attaccare l’Iran. Ma se i piani di viaggio restano in bilico, più sicuro appare lo scenario che si apre a Capitol Hill, dove il Congresso è determinato a includere gran parte degli 600 milioni di dollari annuali di aiuti all’Autorità nazionale palestinese nelle ingenti riduzioni della spesa governativa che saranno entro fine anno.
«Questi tagli avranno conseguenze pesanti per l’amministrazione nei Territori governati dai palestinesi, porteranno ad un indebolimento delle forze di sicurezza - prevede Clawson - e ad un aumento delle violenze, complicando ulteriormente i rapporti con gli Stati Uniti».
Il Foglio: " Standing ovation, ma ora i palestinesi devono tornare a trattare "

Gerusalemme. Efraim Halevy è stato capo del Mossad israeliano fra il 1998 e il 2002. Ora è convinto che l’azzardo di ieri di Abu Mazen alle Nazioni Unite, con la richiesta di dichiarare stato la Palestina, finirà per essere un gigantesco regalo a Hamas. La richiesta al Consiglio di sicurezza – dice Halevy – è destinata ineluttabilmente a infrangersi contro il muro del veto americano, che è l’unica certezza di questa Assemblea generale dove il presidente Barack Obama ha pronunciato uno dei discorsi più filo israeliani della sua storia (e Newsweek fra due giorni pubblicherà uno scoop del proprio esperto di difesa, Eli Lake: Obama ha concesso agli israeliani le bombe antibunker di profondità che il suo predecessore George W. Bush aveva negato e che servono a Gerusalemme per bombardare i siti sotterranei dove l’Iran lavora al nucleare). Il ridimensionamento di Abu Mazen seguirà in automatico al veto: l’Anp, che a Ramallah campa anche grazie ai finanziamenti di Washington e ai legami economici con Israele – migliaia di palestinesi lavorano per l’economia di Gerusalemme – rivelerà di essere impotente. Hamas guadagnerà prestigio e considerazione. “Una sconfitta palestinese non equivale sempre a un successo israeliano”, scrive Halevy: in questo caso, il no ad Abu Mazen sarà paradossalmente un segno del declino nella forza strategica di Israele in medio oriente, come lo è stato l’attacco al Cairo contro l’ambasciata israeliana (sebbene quest’ultimo è stato più facile da decifrare). Halevy non è l’unico scettico sul tentativo di indipendenza palestinese. Lo sono pure i diretti interessati. Da un sondaggio fatto tra il 4 e il 10 settembre dall’agenzia di Nabil Kukali del Centro palestinese per l’opinione pubblica in collaborazione con il Pechter Middle East Polls di Princeton, riasisulta che soltanto il 23 per cento dei 300 mila palestinesi che abitano a Gerusalemme vorrebbe avere la cittadinanza palestinese: gli altri vorrebbero avere quella israeliana. Il 42 per cento sarebbe persino pronto a spostarsi e a cambiare quartiere per restare sotto la potestà israeliana piuttosto che sotto quella palestinese. Negli scontri che ieri sono avvenuti al checkpoint di Qalandia, che segna il passaggio dal territorio di Gerusalemme a quello di Ramallah, nessun dimostrante cantava slogan a favore del nuovo stato, sebbene Abu Mazen stesse cerimoniosamente forzandone la nascita. Per Aaron David Miller, su Foreign Policy, il desiderio dei palestinesi di passare dall’arena su cui hanno un’influenza limitata – ovvero i negoziati bilaterali con Israele – a quella internazionale dove ne hanno di più è tanto comprensibile quanto poco saggia. “Nulla succederà a New York ora o nel prossimo futuro che porterà i palestinesi più vicini a realizzare un vero stato: anzi, potrebbe portarli, in effetti, più lontani”. Tutto cospira perché l’Anp, dopo la sua giornata dell’orgoglio al Palazzo di Vetro, e Israele, dopo un anno di indifferenza sulla questione, tornino assieme al tavolo dei negoziati bilaterali. E anche se si è parlato di reazioni drastiche, come la richiesta agli Stati Uniti affinché tagli i fondi alle Nazioni Unite, come successe con Ronald Reagan nel 1989, o l’annessione al territorio di Israele delle colonie, per adesso si tende a escluderle. Ofer Zalzberg, dell’International Crisis Group di Gerusalemme, scommette che le due parti troveranno un’intesa per cooperare. Se i palestinesi insistono e il voto dovesse diventare realtà, “il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu spera di mantenere lo status quo, non vuole cambiamenti. Cercherà di guadagnare tempo, di modo che, qualsiasi cosa succeda all’Assemblea generale, perda d’importanza, non sia percepita come qualcosa di grande. Ma Israele non farà i passi radicali di cui si è parlato in questi giorni: bloccare il trasferimento delle tasse, congelare gli accordi di Oslo, annettere blocchi di insediamenti. E’ molto improbabile. Israele cercherà di evitare violenze cooperando con l’Autorità nazionale palestinese”. Per Avraham Diskin, professore di Scienze politiche all’Interdisciplinary Centre di Herzliya, è necessario aspettare che passi il momento del voto e che il governo di Gerusalemme dia i segnali giusti: “Molto dipende dai colloqui tra America e Israele di queste ore. Il governo israeliano non è soltanto pronto, ma è persino ansioso di andare ai negoziati con i palestinesi. E’ un governo falco, tuttavia in passato ha fatto mosse in favore dei negoziati, come congelare per dieci mesi la costruzione di insediamenti. Per ora siamo in una specie di impasse e i palestinesi non sono interessati a negoziare. Israele farà pressioni per testare la situazione. Ci sono diverse strade possibili: Israele potrebbe dichiarare pubblicamente la volontà di negoziare senza precondizioni, lo dirà in privato alla controparte palestinese con cui ha contatti. Non farà pressioni all’Anp. Si è parlato della possibilità che Israele blocchi il trasferimento di tasse, che annetta blocchi di insediamenti. Non penso sia furbo e non penso possa accadere”. Una buona mossa, dice il Telegraph Il quotidiano britannico Telegraph dice in un lungo editoriale non firmato che non è stata una cattiva mossa da parte di palestinesi chiedere alle Nazioni Unite un riconoscimento formale, perché in questo modo hanno messo tutti gli attori chiave davanti a una scelta da fare e si sono assicurati che il tema fosse ancora una volta all’attenzione del mondo, “dove merita di stare”. Ma tanto ai negoziati si deve tornare ed è meglio accantonare fin da ora ogni scetticismo sulla proposta di Netanyahu di trattare perché tanto “la pace passa soltanto per gli incontri bilaterali con Israele”. Considerato che la richiesta di adesione di Abu Mazen al Consiglio di sicurezza sarà bloccata, spiega l’Economist, che lo definisce “il leader palestinese più disposto alla pace di cui gli isreliani possono disporre”, il leader dell’Anp dovrebbe tornare all’“opzione Vaticano”, ovvero di accontentarsi dello status di osservatore non membro, e concedere delle rassicurazioni agli israeliani, come la rinuncia a portare Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia e l’ammissione davanti ai rifugiati palestinesi che la maggior parte di loro non tornerà alle loro case in territorio israeliano. “E’ il prezzo della partizione”.
Il Sole24Ore-Ugo Tramballi:" Senza compromessi disgelo difficile"

Deluso,Tramballi, senza però questa volta le abituali 'menzogne omissive', ma con menzogne decisamente tali. Come può infatti scrivere " Israele dovrà accettare di riprendere il negoziato territoriale ..." quando è lo stesso Bibi a ripeterlo da sempre, mentre è Abu Mazen che rifiuta di incontrarlo ? Lo scrivono persino UNITA' e MANIFESTO, ma il quotidiano della Confindustria continua a delegare a Tramballi la mistificazione delle relazioni israelo-palestinesi. Come mai ?Saranno forse gli interessi economici degli associati alla confederazione degli industriali a dettare la linea anti-Israele, nella convinzione che così aumenteranno gli affari con il mondo arabo-musulmano ? In questo caso, Tramballi sarebbe solo un fedele esecutore di ordini che arrivano dall'alto. Niente ideologie, solo danè. Potrebbe essere la spiegazione.
Ecco il pezzo:
La richiesta palestinese non passerà al Consiglio di sicurezza. Il 27 settembre verrà ripresentata all'Assemblea generale. Quest'ultima riconoscerà i diritti della Palestina ma non quello fondamentale della sovranità statale. Questo sarà più o meno l'iter previsto alle Nazioni Unite, salvo sorprese. Abu Mazen potrebbe anche fermarsi al Consiglio di sicurezza.
E poi? Cosa accadrà quando l'happening globale di New York sarà finito e tutti torneranno a casa? Se la Cisgiordania non esploderà in una nuova protesta generale, se Israele non punirà i palestinesi per la "provocazione" all'Onu, rendendo più difficile loro la vita da occupati, non restano che due eventualità: la questione palestinese tornerà dietro le quinte della scena internazionale come in questo ultimo anno, come probabilmente si augura Bibi Netanyahu, o riprenderà il negoziato.
E a sua volta il negoziato ha senso che ricominci dopo un lungo periodo di gelo se i due nemici concederanno cose importanti l'uno all'altro. Israele dovrà accettare di riprendere il negoziato territoriale sulla base della linea verde, la frontiera precedente alla guerra dei Sei giorni del 1967. Certamente ci sarebbero correzioni ma concordate dalle parti. I palestinesi hanno due possibili concessioni da offrire: ammettere che gli israeliani possano costruire all'interno dei blocchi di colonie che dovrebbero essere annesse a Israele nella trattativa territoriale; oppure riconoscere l'"essenza ebraica" dello Stato d'Israele chiedendo garanzie per il 10% della popolazione araba. Questo ultimo punto è una richiesta avanzata nel modo e nel momento sbagliato, per impedire la ripresa della trattativa. Ma l'ebraicità d'Israele è implicita nella sua storia: è per accogliere la diaspora perseguitata che è nato il Paese; e già il piano di spartizione Onu del 1947 prevedeva la divisione della Palestina mandataria britannica in «uno Stato per gli ebrei» e un «Stato arabo».
Queste concessioni reciproche servirebbero solo per riprendere il negoziato che ha molti altri snodi difficili: Gerusalemme, la sicurezza d'Israele, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Se la diplomazia riprenderà il sopravvento dipende dall'atmosfera che la battaglia all'Onu si lascerà alle spalle quando sarà finita, all'inizio d'ottobre. Ieri in Cisgiordania ci sono stati incidenti e un palestinese è morto. È difficile essere ottimisti. Netanyahu e Abu Mazen non mostrano segni di compromesso. Servirebbero pressioni politiche. Ma dal dibattito all'Onu gli Stati Uniti escono da mediatori tutt'altro che equidistanti e senza potere. L'Europa è ancora molto lontana da poterne prendere il posto.
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