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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
22.09.2011 La pace non si raggiunge con le risoluzioni dell'Onu
Obama dixit. Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Giulio Meotti

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari-Giulio Meotti-
Titolo: «Per la pace niente scorciatoie-Per la pace niente scorciatoie-All'Onu c'è un piano B per evitare lo scontro frontale con Abu Mazen»

"Il no di Obama al Palazzo di Vetro frena il sogno della Palestina", così REPUBBLICA, oggi, 22/09/2011, seguita dall'UNITA' " Obama gela la Palestina", per il giornale dell' Ing.De Benedetti Obama 'frena', qui 'gela', è già un passo avanti, sul MANIFESTO invece "La Palestina può attendere", un titolo meno roboante, persino un po' possibilista.
Ma veniamo alle analisi serie. Sulla STAMPA,  a pag.16, lo scenario è presentato da Maurizio Molinari, sul FOGLIO, a pag.2, Giulio Meotti mette in guardia sul voto di domani, raccontando i rapporti israelo-palestinesi per quello che sono e i pericoli che incombono sullo Stato ebraico se la soluzione non dovesse arrivare da colloqui bilaterali. Sempre sul FOGLIO, da New York, una analisi sul piano B suggerito da Sarkozy.
Ecco gli articoli:

La Stampa-Maurizio Molinari: " Per la pace niente scorciatoie"

«Le risoluzioni dell’Onu non servono, per arrivare alla pace l’unica strada è il negoziato diretto»: il presidente americano Barack Obama sfrutta il discorso dal podio dell’Assemblea Generale per opporsi alla richiesta dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di essere riconosciuta come Stato membro delle Nazioni Unite, ribadendo così la validità degli accordi di Oslo del 1993.

Dittatori in ritirata

Obama esordisce definendo «notevole» l’anno trascorso per le svolte democratiche in più teatri: «Il Sud Sudan è indipendente, il regime di Gheddafi è finito, Gbagbo, Ben Ali, Mubarak non sono più al potere, Bin Laden se n’è andato, Al Qaeda è in rotta e i dittatori sono in allerta» perché «la tecnologia consegna il potere nelle mani del popolo». Ciò non toglie che «le difficoltà rimangono» perché nello Yemen e Bahrein le transizioni sono ostacolate mentre «il regime iraniano opprime la sua gente e quello siriano la uccide». Obama chiede al Consiglio di Sicurezza di «agire in fretta» e schierarsi «dalla parte del popolo siriano», confermando che il suo timone è «sostegno ai diritti universali degli individui ed alle transizioni delle nazioni verso la democrazia».

«Sostegno a Israele» Obama ammette però «amarezza e frustrazione» perché l’anno trascorso non ha portato alla nascita della «Palestina indipendente» da lui auspicata proprio all’Onu. Parla di «stallo» e ammette che «la pace è difficile» ribadendo che l’obiettivo resta quello dei due popoli e due Stati, per concludere che «per raggiungerlo non servono le scorciatoie ma i negoziati diretti». Da qui il no alla richiesta che l’Anp presenterà domani al Consiglio di Sicurezza di essere riconosciuta come «Stato membro»: «La pace non arriverà attraverso dichiarazioni e risoluzioni dell’Onu, devono essere israeliani e palestinesi a raggiungere l’accordo sui temi che li separano: confini e sicurezza, rifugiati e Gerusalemme». Nel parterre dell’Assemblea Generale il silenzio è totale, con il presidente palestinese Abu Mazen che si mette una mano sulla guancia mentre un suo collaboratore scuote la testa. Obama termina ribadendo il sostegno per «uno Stato sovrano palestinese» e «l’incrollabile sostegno alla sicurezza di Israele», aggiungendo: «Dobbiamo essere onesti, è circondato da Stati che lo hanno aggredito e che minacciano di cancellarlo dalla carta geografica, ha la memoria di sei milioni di vittime, merita relazioni normali con i vicini».

Il plauso di Netanyahu Appena uscito dall’aula, Obama incontra il premier israeliano Benjamin Netanyahu, gli ribadisce la scelta di «non imporre la pace alle parti» e di «sostenere i negoziati diretti» previsti dalle intese di Oslo, risalenti all’amministrazione Clinton. Netanyahu replica: «Aver difeso questa posizione di principio in un’aula dove c’è un’automatica maggioranza antiisraeliana equivale ad una medaglia d’onore che la ringrazio di indossare». Netanyahu è convinto che il tentativo dell’Anp di «usare l’Onu come una scorciatoia verso lo Stato» dimostri che «non sono ancora pronti a fare la pace» ma si dice sicuro che «questa mossa fallirà». La stretta di mano finale, sullo sfondo delle bandiere dei due Paesi, rassicura Israele e consente a Obama di provare a respingere l’assalto dei repubblicani che puntano a strappargli l’elettorato ebraico nel 2012.

La mossa di Sarkozy

Neanche due ore dopo sul podio sale il presidente francese, Nicholas Sarkozy e avanza all’Anp una proposta tesa a scongiurare la battaglia dei voti. «Il veto americano nel Consiglio di Sicurezza innescherebbe le violenze, lo Stato palestinese diventi osservatore» con la promessa di una adesione a pieno titolo «entro un anno». La mossa francese cela la richiesta del Quartetto (Usa, Onu, Ue e Russia) all’Anp di non accelerare i tempi del riconoscimento in cambio di forti garanzie.

Abu Mazen rilancia

Con le città della Cisgiordania imbandierate in attesa del riconoscimento, Abu Mazen confessa «delusione» per Obama ma poi fa un mezzo passo indietro. «Sappiamo che questo processo prenderà tempo», spiega il negoziatore Nabil Shaat, lasciando intendere che la richiesta sarà fatta «senza chiedere subito il voto». In serata Obama e Abbas si vedono al Waldorf Astoria, presente Hillary. A suggerire prudenza all’Anp è anche la conta dei voti perché su 15 membri ne servono 9 favorevoli e al momento sono 8: Russia, Cina, Gabon, Nigeria, Sudafrica, Brasile, Libano e India. È la Bosnia che, schierata con europei, Usa e Colombia, fa mancare il quorum.

Il Foglio-Giulio Meotti: " Per la pace niente scorciatoie

Roma. “Mestani Dawla be Aylol”, uno stato per settembre, recita lo slogan della campagna palestinese per l’ammissione alle Nazioni Unite come stato membro. Per l’ennesima volta le pietre e la sabbia del medio oriente vedono giorni fatali con la richiesta di indipendenza che domani Abu Mazen, presidente dell’Anp, rivolgerà al Palazzo di Vetro. Potrebbe diventare lo stato numero 194. Il significato simbolico dell’operazione è altissimo e drammatico. Israele può contare sul veto americano in Consiglio di sicurezza, ma nessuno vuole arrivare a bloccare una maggioranza mondiale a favore dello “stato di Palestina”. Abu Mazen sarà applaudito dalla maggioranza dell’Assemblea generale come il grande vindice palestinese. Sarà come un ritorno a quel lungo periodo in cui il processo di pace ha avuto, agli occhi del mondo, un passo a dir poco inarrestabile, fatto di strette di mano, di premi Nobel che fioccavano, di delegazioni che viaggiavano dal Kuwait alla Giordania, di sorrisi che si sprecavano. Solo che stavolta Israele non ci sarà e i palestinesi faranno tutto da soli. Questa risoluzione non segnerà parole definitive, su quella metafisica pietra bianca bagnata di sangue che è Gerusalemme, che Israele reclama come una e indivisibile; sullo sradicamento, da insediamenti, che sono pezzi di cuore, di oltre 500 mila ebrei; o sulle poche gocce d’acqua che dai tempi degli assiro-babilonesi sono oggetto di mortale contesa. Sarà un momento drammatico perché, come da annuncio dell’Olp, sarà uno “stato senza ebrei”, non come Israele che ha in seno un venti per cento di cittadini arabi. Il rush diplomatico all’Onu, spiega Barry Rubin, fra i massimi analisti di medio oriente, distrugge vent’anni di diplomazia con Israele. Diciotto anni fa esatti, il 13 settembre 1993, i palestinesi firmavano la Dichiarazione dei princìpi con Israele sul prato della Casa Bianca, con cui si impegnavano a negoziati bilaterali con lo stato ebraico. Abu Mazen allora era il braccio destro di Yasser Arafat e l’Autorità palestinese ottenne soldi, terra e armi sulla base di quell’impegno. E’ un momento drammatico perché Abu Mazen ha già detto che non rinuncerà ai profughi, arma demografica contro Israele, né accetterà il riconoscimento dello stato ebraico. Il danno diplomatico per Israele è senz’altro pesante. E’ un momento drammatico anche perché, come scrive Yigal Walt sul maggiore quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth, “l’Autorità palestinese non dispone di gran parte delle condizioni basilari che uno stato funzionante dovrebbe avere”. Sarebbe l’unico stato al mondo senza una popolazione permanente, senza confini riconosciuti, che non avrà un governo eletto ma almeno due autocrazie, quella dominata da Fatah a Ramallah (in Cisgiordania) e quella di Hamas a Gaza (dove Abu Mazen non può nemmeno mettere piede). Il rischio che la piazza palestinese voglia ottenere tutto questo con una nuova Intifada è sempre nell’aria. Da venerdì Israele potrebbe avere assiepato sulle proprie spalle un nuovo stato. Non sparirà l’occupazione che garantisce il diritto alla vita degli ebrei, l’esercito israeliano non lascerà sguarnita la valle del Giordano, né consentirà a nessuno di dominare il proprio vitale spazio aereo. Ma i palestinesi avranno messo a segno la più sensazionale vittoria politica da quando Yasser Arafat nel 1964, in nome della distruzione dello stato ebraico, fondò l’Olp. E’ un momento drammatico, perché se la dichiarazione palestinese venisse approvata, i palestinesi potrebbero rivolgersi alla Corte dell’Aia per far condannare le politiche di sicurezza di Israele e gli insediamenti come “illegali”. E’ un momento drammatico per la sicurezza dello stato ebraico: dall’ipotetico confine palestinese sulla linea del 1967 bastano sei chilometri per raggiungere l’unico aeroporto internazionale (quello di Ben Gurion). Cosa accadrebbe allora se Hamas vincesse le elezioni in Cisgiordania? O se la Giordania e l’Iraq cadessero di nuovo nel caos islamista? Troppo spesso il sogno palestinese, ingigantito dall’abbraccio della comunità internazionale, si è tramutato in incubo. Nel 2000, poche settimane dopo Camp David, esplose la Seconda Intifada e furono duemila morti israeliani e diciassettemila feriti. Tutto partì un 29 settembre a Qalqilya, durante una ronda comune di guardie israeliane e di poliziotti palestinesi. Uno dei palestinesi sparò in faccia all’israeliano seduto sulla stessa camionetta. Per questo, mentre all’Onu i palestinesi festeggiano, in Israele ci si riarma fino ai denti. Ad agosto ci sono stati 178 attacchi terroristici. Mai così tanti da due anni.

Il Foglio- " All'Onu c'è un piano B per evitare lo scontro frontale con Abu Mazen "

New York. Quando al terzo intervento sul podio delle Nazioni Unite il presidente dell’Assemblea generale invita i delegati ad abbassare il tono delle chiacchiere di sottofondo è chiaro anche ai più distratti che le parole che contano davvero si dicono altrove. Soprattutto sulla richiesta palestinese di un pieno riconoscimento da parte dell’Onu: “Daremo un po’ di tempo al Consiglio di sicurezza per valutare la nostra richiesta”, ha detto il consigliere palestinese Nabil Shaath lanciando l’ennesimo messaggio ambiguo. Le trattative febbrili del quartetto per il medio oriente (Stati Uniti, Europa, Nazioni Unite, Russia) per convincere Abu Mazen a ritirare la richiesta presso il Consiglio di sicurezza e rilanciare i negoziati diretti con Israele sta prendendo consistenza e a Barack Obama, che dal podio ha detto che “la pace non si raggiunge con le risoluzioni dell’Onu”, l’Autorità nazionale palestinese ha risposto con una cauta apertura: “Siamo disposti a tornare al tavolo delle trattative nel momento in cui la parte israeliana accetterà i confini del 1967 come base del negoziato e metterà fine alla costruzione degli insediamenti”. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ieri mattina ha incontrato Obama – “che merita una medaglia” per aver negato l’appoggio allo stato palestinese – e ieri sera è stato il turno del bilaterale con Abu Mazen: sono i riflessi pubblici di quel lavorìo con cui i negoziatori stanno cercando di formulare una proposta accettabile per entrambi. Una proposta fatta di date e scadenze, perché a questo punto nessuna dichiarazione di principio convincerebbe il leader palestinese a rimangiarsi la parola data. Parlando con i giornalisti, il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, non ha potuto svelare i termini delle conversazioni (anche se i temi sono di una chiarezza ancestrale: colonie, confini, status di Gerusalemme est, profughi) ma ha fatto capire che “il Consiglio di sicurezza si può ancora evitare”. Una bozza di timetable l’ha data l’attivissimo presidente francese, Nicolas Sarkozy: un mese per stabilire le precondizioni e riattivare i negoziati, sei mesi per trovare un accordo di massima e altri sei mesi per arrivare a un accordo finale. L’ottimismo di Sarkozy serve a esorcizzare la contraddizione di un paese (e non è il solo) che ha fatto bella mostra di stare dalla parte giusta della primavera araba – due settimane fa ha licenziato l’inviata Valerie Hoffenberg perché era contraria alla candidatura palestinese – e ora non vuole essere costretto a camminare sui carboni ardenti del voto al Consiglio. La contropartita per Abu Mazen sarebbe l’elevamento a “stato osservatore” con il voto dell’Assemblea generale (l’America ci sta, ma a condizione che non possa accedere alla Corte penale dell’Aja, cosa che Sarkozy, fra un vento di libertà e l’altro, non cita). L’accordo con le parti permetterebbe all’America di evitare il veto e all’Europa di nascondere le divisioni sotto il cappello di una posizione comune. Ma data la fluidità della situazione, si continua a lavorare sugli indecisi più aleatori del Consiglio: Gabon, Nigeria e Bosnia Erzegovina.

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