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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.09.2011 Onu: Cronache e commenti
di Maurizio Molinari, Giulio Meotti, David Makovsky, Cecilia Zecchinelli

Testata:La Stampa-Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari-Giulio Meotti-David Makovsky-Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Cina, sgambetto agli Usa, sì allo Stato palestinese-La madre di cinque terroristi imbuca la lettera ufficiale all'Onu-Come siamo arrivati fin qui ?-lo Stato palestinese ? Per noi profughi è un tradimento»

Amche oggi, 21/09/2011, l'Onu in primo piano sui giornali italiani. Riprendiamo dalla STAMPA, a pag.17, l'articolo di Maurizio Molinari con due cronache brevi ma interessanti, sul FOGLIO, tre articoli,  un redazionale su Rick Perry, candidato repubblicano alle prossime elezioni Usa, un' analisi di Giulio Meotti, che descrive con l'abituale accuratezza la società palestinese che vuole farsi Stato, e un pezzo di David Makovsky che riassume le posizioni palestinesi e israeliane. Dal CORRIERE della SERA l'intervista di Cecilia Zecchinelli a  Murid Barghouti, uno scrittore di origine palestinese, che contesta la linea di Abu Mazen, preceduto da un nostro commento.
Ecco i pezzo:

La Stampa-Maurizio Molinari: " Cina, sgambetto agli Usa, sì allo Stato palestinese"

Maurizio Molinari

Pechino fa lo sgambetto a Washington nella battaglia alle Nazioni Unite sul riconoscimento dello Stato palestinese mentre il Quartetto lavora ad una formula di compromesso per scongiurare la crisi e rilanciare i negoziati in Medio Oriente. E questa mattina Barack Obama vedrà Abu Mazen e Benjamin Netanyahu.

Il passo cinese è arrivato con una dichiarazione del portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, che ha espresso «comprensione, rispetto e sostegno» per la richiesta dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di «diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite» recapitando all’amministrazione Obama la richiesta di «non ostacolarla adoperando il veto al Consiglio di Sicurezza». Per Pechino si tratta di «ripristinare i legittimi diritti etnici palestinesi ed arabi» al fine di «garantire una pacifica coesistenza fra palestinesi e Israele in Medio Oriente». L’irritazione dei diplomatici americani era palpabile, ieri mattina nel quartier generale del Waldorf Astoria, perché si tratta di un passo compiuto in coincidenza con l’arrivo di Barack Obama a New York, teso a cercare un compromesso attraverso consultazioni con tutte le parti. Alcune fonti diplomatiche, chiedendo l’anonimato, hanno parlato di «intervento a gamba tesa» da parte dei cinesi, lamentando il rischio di «spingere l’Anp sulla linea dura nel momento in cui si sta tentando di salvare il negoziato in Medio Oriente».

Per comprendere l’entità della trattativa in corso bisogna ascoltare i diplomatici europei che affiancano Lady Ashton, Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, che ipotizzano un «congelamento» della richiesta di riconoscimento palestinese da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu subito dopo la formale presentazione, che il presidente Abu Mazen farà venerdì. Il «congelamento» da parte del comitato delle ammissioni consentirebbe, poche ore dopo o nella giornata di sabato, la presentazione da parte del Quartetto di una formale proposta di ripresa del negoziato sulla quale Anp e Israele stanno lentamente convergendo. Il testo prevede, secondo indiscrezioni, la ripresa dei negoziati diretti entro poche settimane, il raggiungimento di un’intesa sui confini entro una massimo di sei mesi, frontiere «basate» su quelle del giugno 1967 «con concordati scambi di territori» e «garanzie di sicurezza» per Israele dopo il ritiro dalla Cisgiordania. Il fatto che il Quartetto (Ue, Onu, Usa e Russia) stia convergendo su questa posizione, tenendo aggiornati Anp e Israele, prospetta una possibile via d’uscita alla crisi ma «la situazione resta fluida», assicura un diplomatico coinvolto nei negoziati, e ciò spiega le mosse delle opposte parti. Nabil Shaath, consigliere di Abu Mazen, ribadisce che «la scelta di presentare la richiesta di adesione è stata fatta e avverrà venerdì nonostante i rischi che comporta e le minacce subite» mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in volo per New York, ammette di «aspettarsi una situazione difficile all’Onu» promettendo di «dire la verità su come stanno le cose in Medio Oriente».

Netanyahu ribadisce di essere «pronto alla ripresa dei negoziati» e il Segretario di Stato Hillary Clinton lo sostiene perché «è l’unica strada attraverso la quale i palestinesi possono arrivare ad avere un loro Stato» come previsto dagli accordi di Oslo del 1993. Anche il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, lascia intendere di credere nell’iniziativa del Quartetto auspicando «una ripresa dei negoziati in un quadro bilanciato fra le due parti».

Ma poiché la trattativa può fallire, Anp e Netanyahu si preparano ad affrontare la gara dei voti. Il primo match sarà al Consiglio di Sicurezza e il presidente israeliano Shimon Peres ha telefonato ai colleghi di Gabon, Nigeria e Bosnia - che ne sono membri - per chiedere di contro il riconoscimento dello Stato palestinese, al fine di far mancare il quorum di 9 voti favorevoliche obbligherebbe Washington a mettere il veto. Abu Mazen, ieri, al termine dell’incontro con il presidente franceseSarkozy, ha ribadito che in caso di bocciatura al Consiglio di Sicurezza la contromossa sarebbe andare al voto in Assemblea Generale. Ma il passaggio che potrebbe essere decisivo nella giornata di oggi sono i due incontri che il presidente americano avrà con il leader di Anp e Israele.

Maurizio Molinari: dietro le quinte:

1) Raffiche di proteste per Ahmadinejad:

Il presidente iraniano è atteso da una raffica di proteste. L’associazione «United Against Nuclear Iran» chiede all’Hotel Warwick di non ospitarlo e posizionerà poster di condanna a Times Square e all’Onu. Alla Columbia University negano una cena con gli studenti ma «alcuni privati» potrebbero incontrarlo.


2) I repubblicani: No allo Stato per l'Anp

Rick Perry

 Per il repubblicano Perry «l’Anp non merita il riconoscimento dell’Onu». Domani Mike Huckabee e John Bolton terranno un comizio contro la conferenza Durban III poiché promuove il «razzismo dell’Onu».

Il Foglio- redazione:

Ieri Rick Perry ha usato l’espressione che ogni critico della politica di Obama su Israele deve usare per essere accreditato come tale: “Spingere Israele sotto il bus”. Mitt Romney l’aveva esibita dopo il riferimento obamiano ai confini del 1967 e per non essere da meno dell’avversario alle primarie repubblicane, il governatore del Texas ha messo in chiaro la sua visione sulla cosa. Al W hotel di New York, a pochi isolati dall’Onu, Perry ha partecipato a un incontro organizzato dai supporter americani del Likud. “Siamo indignati per il fatto che certi leader del medioriente abbiano scartato il principio dei negoziati diretti. E allo stesso modo siamo indignati che la politica di appeasement dell’Amministrazione Obama abbia incoraggiato un inquietante atto di malafede”, ha detto Perry, che ha parlato di “disastro” riferendosi alla richiesta palestinese al Palazzo di Vetro. Confermando il suo sostegno alla costruzione di nuovi insediamenti Perry ha spiegato: “Come cristiano, ho una direttiva chiara a sostenere Israele. Come americano e come cristiano, starò dalla parte di Israele”.

 

Il Foglio-Giulio Meotti: " La madre di cinque terroristi imbuca la lettera ufficiale all'Onu"

 Le milizie del futuro Stato ?

Roma. Alcuni giorni fa la tv palestinese in un programma intitolato “Le migliori madri” intervistava la madre di un terrorista, Yusuf Shaker Al Asr, e le chiedeva perché suo figlio aveva voluto lanciarsi in una operazione terroristica suicida. La madre ha risposto che il figlio aveva scelto, piuttosto che un matrimonio ordinario, di sposare le settanta vergini dagli occhi neri. Le uri che aspettano il “martire” in Paradiso. Ed è con un monumento al martirio terroristico che l’Autorità nazionale palestinese ha scelto di presentare all’Onu la propria domanda di ammissione. L’Anp di Abu Mazen nei giorni scorsi doveva selezionare la donna palestinese che avrebbe consegnato all’ufficio delle Nazioni Unite a Ramallah la richiesta formale di indipendenza nazionale. La scelta dell’icona è caduta su Latifa Abu Hmeid, che ha marciato sotto i clic dei fotografi e delle televisioni di tutto il mondo verso l’ufficio Onu. Hmeid è la madre di quattro “martiri”, palestinesei caduti o arrestati durante operazioni terroristiche suicide. Il ministro palestinese per i prigionieri, Issa Karake, dice di averla scelta perché “ha dato la vita ai combattenti, merita che ci inchiniamo di fronte a lei”. Nasser Abu Hmeid, uno dei figli della donna, è stato condannato a sette ergastoli. Comandante di una cellula delle Brigate dei martiri di al Aqsa, Nasser ha ucciso sette civili israeliani. Nasr Abu Hmeid sconta cinque ergastoli: come membro dei Tanzim ha organizzato due attentati. A quattro ergastoli è stato condannato Sharif Abu Hmeid, noto anche come l’autista di kamikaze palestinesi che fecero strage nel marzo del 2002. Muhammad Abu Hmeid deve scontare due ergastoli, mentre un quinto figlio, Abd Al Mun’im Muhammad Yusuf Naji Abu Hmeid, è morto da “martire”: militava in Hamas e ha ucciso un ufficiale israeliano. Nonostante la sua fama di “moderato”, Abu Mazen in questi due anni ha incrementato l’incitamento all’odio attraverso la dedica di strade, edifici pubblici e piazze a kamikaze e terroristi. Il dipartimento di stato americano lo ha duramente attaccato per aver dedicato una piazza presso Ramallah alla “martire Dalal Mughrabi”, la donna che guidò il commando terroristico che nel 1979 ha messo a segno il più grave attentato nella storia d’Israele. Arrivati in gommone dal Libano, lei e i suoi compagni eliminarono una fotografa naturalista casualmente al lavoro sulla spiaggia. Alla fine fecero 37 morti ebrei, di cui 13 bambini, bruciati vivi, dilaniati dalle bombe e dalle raffiche di mitra. Poi l’Anp ha onorato Wafa Idris, la prima attentatrice suicida femmina che uccise un israeliano e ne ferì un centinaio el 2002. La “martire” è stata onorata come simbolo di al Fatah, additata come degna di imitazione, con tanto di videoclip trasmesso dalla tv nazionale (finanziata dall’Unione europea). Un anno fa Abu Mazen ha commemorato Abu Daoud, la mente della strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco 1972. “Ci mancherà”, ha detto Abu Mazen. “Daoud ha speso la sua vita nella resisistenza per il suo popolo”. Il governatore di Jenin ha donato duemila dollari alla famiglia di Khaldoun Samoudi, un terrorista ucciso dopo aver fatto strage di soldati israeliani a un checkpoint. Lo scorso aprile l’Autorità nazionale palestinese ha fatto visita alla famiglia di Abbas al Sayed, donando loro una placca ufficiale che commemora il massacro commesso dal figlio. Si tratta della strage al Park Hotel di Netanya, quando un kamikaze uccise trenta israeliani, molti sopravvissuti all’Olocausto, riuniti per la cena di Pasqua. Sempre un anno fa il potere statuale palestinese di Abu Mazen ha costruito un edificio governativo nella strada di Ramallah dedicata all’“ingegnere”, Yahye Ayash, che fra il 1994 e il 1996 ha ucciso almeno 67 israeliani e ne ha feriti quattrocento con i suoi famosi congegni al tritolo affidati ai kamikaze di Hamas.

 

 Il Foglio- David Makovsky: " Come siamo arrivati fin qui ?"

 David Makovsky

Pubblichiamo alcuni stralci del saggio “The palestinian bid for UN membership. Rationale, response, repercussions”. L’autore è David Makovsky, analista del Washington Institute for the Near East e docente di Studi medio orientali all’Università Johns Hopkins. Le ragioni dei palestinesi. Le origini dell’iniziativa palestinese all’Onu sono poco chiare. Le dichiarazioni fatte dal primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), da due anni a questa parte, hanno per la maggior parte cercato di spiegare il piano messo a punto dal premier palestinese, Salam Fayyad, per costruire le istituzioni nazionali della Cisgiordania, uno sforzo che ha conquistato le lodi della comunità internazionale. Nell’agosto del 2009, Fayyad presentò una bozza dettagliata in cui spiegava il piano biennale dell’Anp per costruire le infrastrutture fondamentali. Il rapporto era intitolato “Palestina: cessare l’occupazione, stabilire uno stato” e, nonostante appartenesse a Fayyad, fino a oggi è stato il rais Abu Mazen ha fare le maggiori pressioni per portare avanti il tentativo palestinese di essere riconosciuto all’Assemblea dell’Onu. In un’intervista del giugno scorso, Fayyad ha espresso il suo scetticismo su un possibile riconoscimento dell’Onu che rimarrebbe soltanto simbolico. Quando gli fu chiesto se ottenere la maggioranza all’Assemblea avrebbe cambiato la realtà sul terreno, rispose: “La mia risposta è no. Se Israele non farà parte del consenso, le cose non cambieranno, perché secondo me, indipendenza significa la fine dell’occupazione israeliana”. Diversamente da Fayyad, per Abu Mazen l’iniziativa all’Onu si basa sulla convinzione che i negoziati con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, siano diventati inutili. Il leader dell’Anp è convinto di essere giustificato nel suo rifiuto di riprendere i negoziati fintanto che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania continuano a essere costruiti. Inoltre, a rafforzare la volontà di Abu Mazen sono stati i costanti bisbiglii dei diplomatici europei che hanno messo in dubbio la volontà di Netanyahu di raggiungere un accordo. Abu Mazen è anche deluso dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che non si è sforzato per ottenere concessioni dagli israeliani. Mentre Abu Mazen ha continuato a sperare che gli Stati Uniti facessero pressione sulla questione dei territori, Washington, senza ottenere nulla da Netanyahu, ha chiesto ad Abu Mazen di riprendere il dialogo con Israele. In risposta, Abu Mazen ha usato il periodo della moratoria sugli insediamenti per insistere che il rallentamento delle costruzioni a Gerusalemme est non era sufficiente. Le motivazioni dietro la richiesta di Abu Mazen all’Onu dipendono anche dalle rivolte arabe che hanno caratterizzato l’ultimo anno: l’Anp ha perso un alleato importante dopo la caduta del leader egiziano, Hosni Mubarak, che è stato a lungo un protettore della causa palestinese. Negli ultimi mesi Abu Mazen si è sforzato di cercare una mossa diplomatica forte in grado di catturare i cuori e le menti, non soltanto dei palestinesi, ma del più vasto pubblico arabo. Spiegato con parole diverse, i disordini del mondo arabo sembrano aver spinto il leader dell’Anp in direzione delle Nazioni Unite per tentare di evitare una rivolta popolare in Cisgiordania. A spingere Abu Mazen è stata anche la paura che una qualsiasi retromarcia sull’iniziativa sarebbe interpretata dal pubblico palestinese come una capitolazione e un segno di debolezza. A rinforzare questa convinzione è l’amaro ricordo del 2009, quando Hamas ridicolizzò Abu Mazen su tutti i media arabi costringendolo a fare retromarcia sull’iniziale decisione di ritardare la pubblicazione del rapporto Goldstone. Le ragioni israeliane. Per Israele, la via del voto all’Onu è, per sua natura, in contraddizione con quella dei negoziati. La scelta di Abu Mazen, vista da Israele, è una rottura degli accordi di Oslo, in cui le due parti si erano impegnate a non cambiare, in futuro, lo status della Cisgiordania. (I palestinesi sostengono che Israele abbia già violato gli accordi, costruendo i suoi insediamenti. Bisogna tuttavia ammettere che la scelta israeliana, per quanto si possa ritenere contraria allo spirito di Oslo, non viola la lettera degli accordi. A Oslo, infatti, Israele si era a tutti i costi rifiutato di concedere qualcosa sul problema degli insediamenti in Cisgiordania. Inoltre, attenendosi alla definizione base di sovranità nazionale, Israele sostiene che l’Anp non abbia i requisiti per chiedere di essere riconosciuta come stato, visto che non è in grado di controllare tutta la Cisgiordania (per non parlare di Gaza). Israele contesta anche la versione di Abu Mazen riguardo allo stallo nei negoziati: per il governo di Gerusalemme, i suoi commenti sull’inutilità delle trattative sono quantomeno frutto di ipocrisia. Il premier Netanyahu lo ricorda spesso: da quando è stato eletto ha fatto soltanto due settimane di negoziati con l’Anp, nel settembre dell’anno scorso. Per questo, per Israele, la mossa palestinese non è che un tentativo di fare saltare i negoziati di pace, in modo da guadagnarsi il premio dell’indipendenza senza dover essere costretti alle concessioni dolorose che sarebbero richieste da un accordo raggiunto con le trattative. In realtà il governo israeliano sospetta che Abu Mazen stia spostando tutto il peso su Israele – chiedendo il congelamento degli insediamenti e il rispetto dei confini precedenti al 1967 – perché sa di non essere in grado di fare le concessioni necessarie. Riguardo alla richiesta di riconoscimento come stato, Israele vede avvicinarsi una serie di conseguenze, nel caso la domanda dell’Anp venga accolta dalle Nazioni Unite. Innanzitutto, Israele crede che la strategia palestinese sia calibrata per accantonare l’intero processo di pace o, almeno, evitare i compromessi sui confini di un futuro stato, perché saranno già stati decisi in sede Onu. In entrambe i casi, Israele si ritroverebbe la porta dei negoziati chiusa in faccia. Il governo israeliano teme anche che un cambiamento di status per l’Anp possa invogliare i palestinesi a sfruttare la macchina dell’Onu a proprio vantaggio, infliggendo il massimo danno politico possibile a Israele. Per esempio, potrebbero chiedere che i generali israeliani vengano processati dalla Corte penale internazionale dell’Aja per presunti crimini di guerra nell’Intifada del 2000-2004 o nella guerra a Gaza (2008- 2009). Israele prende molto seriamente questa possibilità, perché sa che potrebbe accelerare quella spirale di delegittimazione in cui si sente trascinato, danneggiando i rapporti con i palestinesi e impedendo, di fatto, il ritorno al tavolo dei negoziati di pace nel breve termine. Abu Mazen l’ha scritto anche in un editoriale sul New York Times, qualche mese fa: “L’ammissione della Palestina all’Onu aprirebbe la strada all’internazionalizzazione del conflitto come problema legale, non soltanto politico. Ci permetterebbe anche di far arrivare i nostri reclami contro Israele direttamente alle Nazioni Unite, ai suoi organi che si occupano di diritti umani e alla Corte internazionale dell’Aja”. Il ministro della Giustizia dell’Anp, Ali Khashan, aveva fatto una mossa molto simile il 22 gennaio 2009, quando era andato dal procuratore della Corte penale dell’Aia, Luis Moreno- Ocampo, per dichiarare che “il governo della Palestina” si metteva sotto la giurisdizione della Corte. Il Tribunale aveva risposto che l’ufficio del procuratore “avrebbe esaminato con attenzione tutto ciò che riguarda la giurisdizione della Corte, per stabilire se la dichiarazione dell’Anp è in linea con i requisiti, se i presunti crimini rientrano in quelli definiti dallo statuto e se ci sono procedimenti in corso, a livello nazionale, riguardo a quei crimini”. Moreno-Ocampo non ha ancora preso una decisione a proposito, ma qualora l’Onu riconoscesse lo stato palestinese, sarebbe certamente portato ad allargare la propria giurisdizione, accogliendo la Palestina e concedendole la possibilità di citare in giudizio chi desidera. Scenari post risoluzione. Se l’iniziativa palestinese all’Onu non sarà fermata, l’Anp rischia il collasso sia che all’Onu abbia successo sia che fallisca. I sondaggi più recenti suggeriscono che i palestinesi hanno poche speranze nei confronti di ciò che può essere ottenuto dal voto all’Onu. A fine giugno, l’agenzia di rating diretta da Khalil Shikaki, un rinomato sondaggista palestinese, trovò che il 66 per cento dei palestinesi è convinto che dopo il voto all’Assemblea generale Israele renderà l’occupazione della Cisgiordania peggiore e incrementerà la costruzione di insediamenti. Soltanto il 13 per cento dei palestinesi crede che le condizioni potrebbero migliorare. Nonostante i numeri e le basse aspettative in Cisgiordania, se l’Anp fallisse i palestinesi comunque percepirebbero le azioni di Abu Mazen come un fallimento e con ogni probabilità chiederebbero le sue dimissioni, favorendo così Hamas. Nello scenario opposto, dove i palestinesi registrerebbero una vittoria alle Nazioni Unite, gli israeliani reagirebbero, magari con il blocco dei circa trecento milioni di dollari di dazi doganali che l’Anp percepisce annualmente dal governo di Netanyahu. Le risposte del governo israeliano non sarebbero automatiche: la posta in gioco è troppo alta, non si può escludere che qualsiasi reazione sarebbe ritardata o che il premier israeliano decida di rubricare il voto all’Onu soltanto come un’altra delle tante azioni pro Palestina sponsorizzate dall’Onu. L’ultima incognita è data dall’abilità dell’Anp di controllare la reazione del pubblico palestinese se Abu Mazen conseguisse una maggioranza all’Onu. Una decisiva vittoria palestinese potrebbe anche spingere Israele a lanciarsi in una nuova ondata di costruzione di insediamenti, che gli Stati Uniti potrebbero tentare di fermare, perché comporterebbe l’intensificarsi del conflitto. Per assicurarsi questa concessione da Israele, Washington potrebbe fare pressioni sul Quartetto mediorientale affinché pubblichi una dichiarazione ufficiale che metta in evidenza che Israele è uno stato ebraico. Rimane comunque poco chiaro se questa azione diplomatica (che si sta rinvigorendo in queste ultime, frenetiche ore, ndr) possa essere sufficiente per calmare le preoccupazioni israeliane.

Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " lo Stato palestinese ? Per noi profughi è un tradimento"

Cecilia Zecchinelli presenta Murid Barghouti quale "poeta e autore del celebrato romanzo Ho visto Ramallah", celebrato ci pare una esagerazione, visto che è del tutto sconosciuto. Aggiungiamo che gli scrittori, per quanto poco siano critici verso i loro regimi, non hanno vita facile nel mondo arabo.
Non capiamo poi perchè viva "in esilio", potendo vivere, per esempio a Ramallah, invece di stare tra il Cairo e Amman. Non gli piace la Palestina di Abu Mazen ? Può sempre andare a Gaza, dove regna Hamas. Non gli va neanche Gaza ? Ma allora che stato vuole, questo 'palestinese in esilio' ?
Se ama tanto la Palestina, perchè se ne sta all'estero ?


Abu Mazen, Khaled Mashaal

Ecco l'intervista:

«Abu Mazen lo chiami pure Stato, perfino impero se preferisce: anche se avrà il sì dell'Assemblea generale dell'Onu e parlerà di trionfo, quella resterà un'entità sotto occupazione, cantoni isolati tra loro, senza sovranità né un'economia. Non cambierà niente, anzi sarà un passo indietro».

È il più importante scrittore palestinese a parlare: Murid Barghouti, 67 anni, poeta e autore del celebrato romanzo Ho visto Ramallah, racconto del breve ritorno nel suo villaggio dopo 30 anni di un esilio che dura ancora tra Il Cairo e Amman. Un libro chiave per capire la ghurba, l'estraniamento di milioni di palestinesi lontani dalla loro patria. «Saremo noi, gli esiliati, i rifugiati, quelli che vivono in Israele i grandi perdenti della mossa di una leadership che non è nostra».

Perché parla di perdenti?
«Con il seggio all'Onu dello "Stato" perderemo quasi di certo quello di osservatore permanente dell'Olp, rappresentante di tutti i palestinesi, non solo in Cisgiordania e Gaza, l'unico organismo titolato a discutere di autodeterminazione, confini, rifugiati mentre l'Autorità palestinese è solo un'entità amministrativa. La si chiami pure "Stato" non potrà far niente sul diritto al ritorno, gli insediamenti, perfino Abu Mazen per muoversi dovrà sempre avere il permesso degli israeliani. E l'Anp non è stata eletta, il suo consiglio legislativo non esiste nemmeno più, molti membri sono in carcere. Invece di quell'inutile voto, l'Anp dovrebbe disdire gli accordi di Oslo, ascoltare la gente, indire nuove elezioni di tutti i palestinesi, anche quelli in esilio, non solo dei "suoi"».

Ma nemmeno nell'Olp nessuno crede più.
«È vero, Arafat l'aveva già ucciso: l'ultima volta che il suo consiglio nazionale si riunì fu nel 1996 a Gaza per cambiare lo statuto dopo Oslo. Ma Abu Mazen ora lo sta seppellendo, non capisce che quel voto finirà come tutte le risoluzioni dell'Onu: calpestato dagli stivali militari degli israeliani».

Eppure in Occidente molti pensano che il voto servirà almeno a sbloccare la lunghissima impasse.

«L'Occidente s'illude: lasciare a negoziare occupante e occupato non ha senso. Dovrebbe muoversi invece come fece contro l'apartheid in Sudafrica. Anche quei pochi israeliani che dicono di volere una soluzione giusta appena il loro governo è in difficoltà l'appoggiano, non come in Sudafrica dove molti scrittori bianchi si iscrissero perfino all'Anc di Mandela. Israele è ben più potente dei leader sudafricani d'allora, anche se oggi è indebolita dalla perdita di alleati come Egitto e Turchia. Ma certo non ci si può arrendere ai poteri ingiusti. Pure l'Europa ne ha subiti poi sono caduti».

Israele dice di sentirsi minacciata, teme nuove Intifada, gli estremisti islamici.
«La nostra lotta non è mai stata religiosa, è contro i carri armati in giardino e nella stanza da letto, Islam e antisemitismo non c'entrano. La gente vuole giustizia e pace. E non credo in un'altra Intifada, i palestinesi hanno poche aspettative dal voto all'Onu. Piuttosto sono ottimista che il vento della primavera araba arrivi fin qui. I diseredati, gli oppressi, la gente "normale" ha alzato la testa, vinto la paura. E i giovani sono diversi: il nostro amore per la Palestina con gli anni è diventato amore per l'idea della Palestina. La nuova generazione vive invece nella realtà».

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