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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.09.2011 Onu: Cronaca, retroscena,commenti, interviste
di Maurizio Molinari, Alessandra Farkas, Mattia Ferraresi

Testata:La Stampa-Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari-Alessandra Farkas-Mattia Ferraresi-La redazione del Foglio
Titolo: «La Palestina in quattro giorni, lo scontro all'Onu-L'Onu istiga contro Israele-Obama fa di tutto per non esercitare il veto annunciato-Se Hamas svela il trucco-Gli umori dell' Onu dagli 'amici' dela Libia alla farsa di Durban- Palestina si, ma democratica»

L'Onu in primo piano, oggi, 20/09/2011, su tutti i giornali. Tralasciando UNITA' e MANIFESTO, che brindano già alla vittoria, articoli più che prevedibili, guardiamo invece ai commenti equilibrati. Maurizio Molinari sulla STAMPA traccia un quadro completo della situazione, sul FOGLIO, tre analisi approfondite sull' Onu, sul CORRIERE della SERA Alessandra Farkas intervista Rashid Khalidi, direttore del Middle East Istitute della Columbia University, dalle sue parole la risposta a coloro che si chiedevano il perchè dell'orientamento ostile a Israele della Columbia U. Il pezzo è preceduto da un nostro commento.
Ecco gli articoli:

La Stampa-Maurizio Molinari: " La Palestina in quattro giorni, lo scontro all'Onu "

Maurizio Molinari

Maratone negoziali negli hotel di Midtown, duelli diplomatici nel Consiglio di Sicurezza, il Congresso di Washington in ebollizione e il timore di un’esplosione di violenza in Medio Oriente: è l’inizio della battaglia per il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Onu che tiene banco in coincidenza con l’apertura della nuova sessione dell’Assemblea Generale minacciando di innescare un’escalation dagli esiti imprevedibili.

Da un punto di vista formale il tentativo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di ottenere dall’Onu lo status di «Stato membro» inizierà venerdì con l’invio da parte del presidente Abu Mazen di una lettera al Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon nella quale affermerà che la «Palestina» - questo il nome prescelto - è uno Stato «che ama la pace e accetta la Carta dell’Onu». Abu Mazen ha preannunciato ieri, sul volo in arrivo a New York, che illustrerà i contenuti della richiesta nel discorso dal podio dell’Assemblea Generale e dopo la recapiterà a Ban, a cui spetterà di esaminarla prima di inviarla al Consiglio di Sicurezza, che decide l’ammissione di nuovi Stati.

Il passo di Abu Mazen irrompe nelle trattative diplomatiche in atto, che vedono il Quartetto - composto da Usa, Ue, Onu e Russia tentare di modificare il corso degli eventi per evitare il collasso degli accordi di Oslo del 1993, siglati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sotto l’egida di Bill Clinton, nei quali Israele e palestinesi si impegnarono a raggiungere l’obiettivo dei «due popoli e due Stati» in «pace e sicurezza» procedendo «attraverso negoziati». Poiché la richiesta di riconoscimento dell’indipendenza da parte dell’Onu è un atto unilaterale dell’Anp, ciò minaccia di far venir meno la validità di Oslo riproponendo il conflitto totale fra Israele e palestinesi precedente al 1993. È questo scenario che spiega i venti di guerra in Medio Oriente, lo schieramento in forze delle truppe israeliane in Cisgiordania e il monito dell’ex premier britannico Tony Blair, inviato del Quartetto, secondo il quale «bisogna inquadrare il desiderio dei palestinesi di essere riconosciuti dall’Onu in una credibile cornice negoziale» ovvero salvando Oslo.

La maratona di incontri in più hotel di Midtown a Manhattan vede protagonisti Blair, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, l’Alto rappresentante europeo Lady Ashton, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il Segretario generale dell’Onu assieme a ministri di Anp e Israele, nel tentativo di redigere un testo capace di far ripartire da subito il negoziato, arenato da oltre un anno, spingendo l’Anp ad accettare un successo politico in cambio della rinuncia della richiesta all’Onu. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu incalza, e si è detto «interessato» a incontrare Abu Mazen direttamente all’Onu. Cruciale è il ruolo di Mosca, che sulla carta è la più vicina all’Anp. «Bisogna dare ai palestinesi concretezze, non illusioni», riassume il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini.

È un negoziato assai difficile perché punta a risolvere in 4 giorni i nodi che da 12 mesi paralizzano le trattative: Israele non è disposta a riconoscere allo Stato palestinese i confini antecedenti il giugno 1967, l’Anp non vuole riconoscere Israele come «Stato ebraico» e non vi sono intese né sullo status di Gerusalemme né sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948. L’altro possibile compromesso a cui il Quartetto lavora è concordare con l’Anp il testo di una risoluzione dell’Assemblea Generale accettabile anche da Israele ovvero senza riferimento ai confini. Gli inviati Usa Dennis Ross e David Hale hanno proposto ad Abu Mazen una risoluzione capace di assegnare all’Anp «attributi di Stato senza la sovranità» al fine di evitare l’adesione al Tribunale penale internazionale che consentirebbe di denunciare Israele per «crimini di guerra» - o di essere denunciati da Israele per lo stesso reato aprendo un contenzioso giuridico rovente. La risposta di Abu Mazen è giunta ieri, quando ha detto che «oramai è troppo tardi» visto che la lettera a Ban è in arrivo.

Nel tentativo di ottenere un ripensamento in extremis da Abu Mazen, Europa e Stati Uniti non lesinano pressioni. I Paesi dell’Ue fanno presente che senza un riconoscimento di Bruxelles l’indipendenza palestinese sarebbe politicamente debole così come l’amministrazione Obama fa trapelare la possibilità di cedere alle pressioni del Congresso di Washington, dove i leader repubblicanie democratici suggeriscono il blocco degli aiuti economici all’Anp - 600 milioni di dollari annui - se Ramallah «rinuncerà ai negoziati». Abu Mazen è consapevole di tali rischi ma sembra volerli affrontare, preannunciando ai palestinesi che «il periodo seguente al voto dell’Onu per noi sarà molto duro».

Se il Quartetto non riuscirà a impedire il passo di Abu Mazen, da venerdì si aprirà la partita dei voti. Al Consiglio di Sicurezza infatti gli Stati Uniti dispongono del diritto di veto ed hanno minacciato di farvi ricorso per bloccare la richiesta palestinese ma la Casa Bianca, spiegano fonti diplomatiche, non vorrebbe adoperarlo per evitare attriti con il mondo arabo nel bel mezzo della «Primavera» di rivolte. Da qui i tentativi per riuscire a far mancare il sostegno di almeno 7 dei 15 Paesi membri del Consiglio di Sicurezza, perché ciò significherebbe respingere il testo senza dover opporre il veto. Washington conta sul «no» di Francia, Gran Bretagna, Colombia, Germania e Portogallo con la Bosnia in bilico ma Parigi e Londra ancora non si sono pronunciate perché l’altra questione aperta è l’assenza di una posizione coesa dell’Ue, dovuta anche al fatto che al momento manca il testo definitivo della richiesta dell’Anp.

Se comunque Washington dovesse riuscire a bloccare la strada del riconoscimento come «Stato membro», per l’Anp si aprirebbe la possibilità di chiedere all’Assemblea Generale lo status di «Stato non membro», come il Vaticano. L’approvazione di una tale risoluzione richiede un quorum di due terzi dei 193 Stati membri, ovvero 129 favorevoli, e i delegati palestinesi all’Onu hanno fatto circolare la lista di 127 nazioni che hanno già promesso il «sì». Ciò significa che questo risultato è a portata di mano, anche se raggiungerlo al prezzo di una crisi di rapporti con Usa ed Europa, senza contare l’abbandono di Oslo e il collasso dei rapporti con Israele, potrebbe rivelarsi un prezzo molto alto per Abu Mazen che in questa battaglia si trova contro anche i leader di Hamas. Da Gaza lo accusano di «voler tradire il popolo palestinese legittimando Israele» perché dichiarando lo Stato nei confini del 1967 si rinuncia ai territori su cui Israele fu creato nel 1948.

Il Foglio- " L'Onu istiga contro Israele "

 

Roma. “Un progetto totalitario per criminalizzare Israele e fare degli ebrei i più grandi violatori del mondo”. Così Yossi Klein Halevi, figura di spicco della classe intellettuale israeliana, politicamente un “centrista”, politologo dello Shalom Hartman Institute di Gerusalemme, editorialista di Wall Street Journal, New York Times e New Republic, definisce la richiesta palestinese di indipendenza che verrà presentata questa settimana al Palazzo di Vetro. “Il rischio per Israele con il voto all’Onu è quello di una internazionalizzazione del conflitto, che fu il sogno di Yasser Arafat e che è da sempre l’incubo di Israele”, spiega Klein Halevi al Foglio. “Con questa iniziativa si vogliono distruggere i negoziati fra Israele e palestinesi, si vuole fare della Palestina una questione internazionale e si intende creare una maggioranza anti israeliana all’Onu. Poi si vuole incoraggiare il boicottaggio d’Israele in occidente, trasformando lo stato ebraico in entità illegale. Si vogliono ingigantire le aspettative nazionali dei palestinesi e porre fine alla quiete degli ultimi anni, dovuta alla crescita economica della Cisgiordania. Ma, soprattutto, si vuole rendere irrilevante la sicurezza d’Israele. La comunità internazionale all’Onu sta dicendo che è più importante creare lo stato arabo numero 23 e lo stato islamico numero 58 che garantire la sicurezza dell’unico stato ebraico”. La scorsa settimana la missione diplomatica dell’Olp a Washington ha reso noto che il futuro stato palestinese deve essere “senza ebrei”. Elliott Abrams, ex consigliere per la Sicurezza nazionale, lo ha definito “il primo stato ‘Judenrein’ (senza ebrei, ndr) dai tempi di Hitler”. Inoltre la scorsa settimana il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, ha detto che l’Anp non cederà neppure sul “diritto al ritorno”, il che spiega perché si rifiuti di riconoscere Israele come stato sovrano del popolo ebraico. “I palestinesi hanno detto chiaramente che non vogliono ebrei nel loro stato, al massimo si terranno degli ebrei antisionisti ultraortodossi come cartolina, per dire ‘siamo contro i sionisti, non gli ebrei’”, ci dice Klein Halevi. “Il progetto palestinese prevede la rimozione degli ebrei dalla terra. Per gli israeliani la domanda cruciale è quale sia il fine del movimento nazionale palestinese. Creare uno stato che viva in pace con il vicino israeliano? Oppure uno stato in Cisgiordania e Gaza che poi porti al rovesciamento ultimo dello stato ebraico, magari con mezzi demografici come i profughi? La risposta è la seconda. La mia sensazione è che se il movimento palestinese emerge da questo voto con una unanimità pressoché virtuale potrebbe interpretarlo come il permesso per una Intifada contro Israele. Gli israeliani come me vedono lo stato palestinese in termini contraddittori: una necessità esistenziale per preservare uno stato ebraico democratico e una minaccia esistenziale, con i missili su Tel Aviv. La domanda è come creare questo stato senza porre in pericolo Israele”. La fine di Camp David? Veniamo alla politica estera americana. Gli americani stanno facendo un ultimo tentativo per convincere i palestinesi a fermare il loro piano alle Nazioni Unite. “Obama ha una grande responsabilità su quanto accade all’Onu, non solo per la sua naïveté, ma perché Obama ha eccitato i palestinesi nelle aspettative, ha ignorato Hamas e l’unità di Gerusalemme, e oggi i palestinesi sono furiosi con lui. Obama è un misto di debolezza e irresponsabilità”. Il voto all’Onu, dice Klein Halevi, è parte della convulsione che attraversa il medio oriente. “Esiste una mentalità dominante per cui il mondo arabo-islamico non è mai giudicato responsabile, così adesso si ignora il caos nel medio oriente e si preferisce incolpare Israele. La Turchia è in un processo di radicalizzazione interna, vuole sostituire Israele con l’Iran come partner per costruire un fronte antiamericano in medio oriente. La Turchia era la speranza dell’islam, oggi ne è uno dei maggiori problemi. Sull’Egitto a rendermi furioso non è tanto l’assalto arabo all’ambasciata israeliana, ma il fatto che i militari al potere abbiano tradito Israele rifiutando la loro telefonata nel momento del bisogno. Per centinaia di anni le ambasciate sono state luoghi sicuri, oggi non più. Quando è iniziata la ‘primavera araba’ Israele fu l’unico a dire che era come Teheran nel 1979 e anche io fui critico di quella affermazione. Oggi non più. Trent’anni fa sostenni gli accordi con l’Egitto e dissi che era giusto ritirarsi dal Sinai. Quel trattato ci ha dato trentacinque anni di pace. Ma temo sia morto”.

Il Foglio- " Obama fa di tutto per non esercitare il veto annunciato "

Milano. Tutti ci provano, ma Abu Mazen è irremovibile. Vuole andare fino in fondo con la richiesta di riconoscimento dello stato palestinese presso l’Onu, vuole tentare la mossa più azzardata, la sfida agli Stati Uniti nel consesso internazionale più potente del mondo – il Consiglio di sicurezza Onu – e non ammette passi indietro. Perché tanta ostinazione? Secondo l’entourage del rais palestinese, il movente è l’indignazione (oltre che il piacere nel vedere continenti come l’Europa contorcersi perché non sanno come impostare il mandato di scuderia). David Hale e Dennis Ross, inviati americani in medio oriente, sabato hanno presentato ad Abu Mazen una proposta di accordo che – secondo Nabil Shaath, del partito del rais – “sembrava fatta apposta per essere rifiutata”. Era peggiorata rispetto a quella discussa quattro mesi fa, quando il capo dell’Anp oppose il suo rifiuto. Se Abu Mazen aveva qualche dubbio, quel paper li ha dissolti, dicono i suoi uomini. La diplomazia non si è fermata. L’Amministrazione Obama ha annunciato che porrà il veto se la richiesta di riconoscimento arriverà al Consiglio di sicurezza, ma sta facendo di tutto perché ciò non accada. Non vuole e non può mettersi nella condizione di pronunciare quel fatidico no, che risuonerebbe nelle piazze arabe in modo facilmente prevedibile. A Washington chi lavora al dossier è ancora stordito: come siamo arrivati a questo punto? Nella disperazione dell’ultima ora, si discute di tutto, dai finanziamenti all’Anp alle tempistiche di negoziazione, rivelando così la sostanziale debolezza nella trattativa. Il Quartetto (Onu, Stati Uniti, Ue e Russia) ha preparato un documento in cui si rivedono il carattere di ebraicità dello stato di Israele e le tempistiche degli incontri per il dialogo – ma, come ha detto un diplomatico europeo a Foreign Policy, è tipico degli americani “mettersi a discutere delle procedure quando manca la sostanza”. Non resta che andare alla conta, per evitare il veto in Consiglio di sicurezza (servono almeno nove paesi che si oppongano alla richiesta): Regno Unito, Francia, Germania, Portogallo, Bosnia Erzegovina, Colombia, Gabon e Nigeria sono ancora in bilico – quindi da convincere – mentre Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica e Libano hanno già dato il loro sostegno all’iniziativa palestinese. Il premier israeliano Netanyahu continua a sostenere che Israele e Stati Uniti non sono isolati, che la collaborazione nelle ultime settimane è stata intensa e darà ottimi risultati, e che Abu Mazen potrebbe avere una brutta sorpresa. Ma molti dentro a Israele non gli credono: dall’opposizione Tzipi Livni dice che è stata la “stupidità del governo” a mettere gli Stati Uniti nell’angolo, mentre il ministro della Difesa, Ehud Barak, ammette che Netanyahu ha sbagliato a seguire i consigli del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, non scusandosi con la Turchia in un momento in cui il paese deve contenere il proprio isolamento. In attesa del voto dell’Assemblea, Ue e Stati Uniti, hanno chiesto a Netanyahu di evitare le rappresaglie drastiche, qualora l’Onu deluda le sue ottimistiche aspettative. Secondo il Financial Times, Abu Mazen si ostina nonostante i problemi che verranno perché questa è la sua grande occasione per eclissare l’eredità di Arafat e finalmente dare una forma autonoma alla sua leadership. Il Wall Street Journal, invece, in modo più pratico dice che la battaglia condotta con blitz diplomatici non può essere vinta, perché i palestinesi non vogliono soltanto dimostrare di avere il consenso internazionale (all’Assemblea potrebbero ottenere i due terzi dei voti) ma anche ampliare gli strumenti di pressione contro Israele all’Onu e alla Corte internazionale dell’Aja. “L’Amministrazione Obama, che ha buttato via sei mesi implorando i palestinesi di cambiare idea, dovrebbe annunciare che la dichiarazione di uno stato palestinese a New York porterà alla chiusura della sede di rappresentanza a Washington. Il Congresso dovrebbe adottare la proposta della repubblicana Ileana Ros-Lehtinen che dice di tagliare i fondi all’Onu se accetta lo stato palestinese”. Le maniere forti hanno già funzionato, conclude il Wall Street Journal, l’ultima volta che i palestinesi provarono la strada del riconoscimento all’Onu, ai tempi di Bush padre.

Il Foglio- " Se Hamas svela il trucco "

 

Hamas ha spiegato con crudezza il trucco che regge la richiesta di Abu Mazen di associare la Palestina all’Onu quale stato all’interno dei “confini del 1967”: non è vero che i palestinesi sono uniti dall’accordo per un governo nazionale stipulato a maggio e soprattutto non è vero che Hamas sia disposto a partecipare a un governo che riconosca l’esistenza di Israele. Ismail Haniyeh, premier del governo di Gaza, ha definito la mossa di Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese (che governa soltanto la Cisgiordania), “una avventura politica pericolosa per i diritti dei palestinesi”. Non solo, Hamas ha ribadito che non rinuncia all’obiettivo di creare uno stato palestinese sull’intero territorio della “Palestina storica”, eliminando cioè la “entità sionista”, Israele. Dunque, esistono non uno, ma due stati di Palestina uno nazionalista dell’Anp e l’altro fondamentalista e oltranzista di Hamas. Nonostante questa evidenza, è probabile che l’Assemblea dell’Onu approvi quantomeno l’ammissione della Palestina quale “stato non membro”, dando così a Hamas legittimità e forza nel suo contrasto a Israele – razzi inclusi, rapimento di Gilad Shalit incluso – così come nel suo contrasto ad Abu Mazen. La sfida interna tra le due fazioni palestinesi, mai sopita nonostante gli accordi “storici” siglati negli anni, è ancora più pericolosa ora che Barack Obama registra il fallimento della sua strategia mediorientale ed è costretto a una battaglia di retroguardia mirata a evitare di dovere porre quel veto in Consiglio di sicurezza alla nascita dello stato di Palestina che lo condannerebbe a un’impopolarità senza precedenti nei paesi islamici.

Il Foglio-Mattia Ferraresi: " Gli umori dell' Onu dagli 'amici' dela Libia alla farsa di Durban "

 

New York. Mentre la parte sommersa dell’Amministrazione americana tenta in extremis di evitare che la richiesta di riconoscimento palestinese arrivi al Consiglio di sicurezza dell’Onu o all’Assemblea generale (molti insider del Palazzo di Vetro scommettono che Abu Mazen non si farà mancare nulla e procederà per entrambe le vie), la parte ufficiale si dedica ai dossier limitrofi. A margine dei lavori dell’assemblea, il segretario di stato, Hillary Clinton, ha incontrato il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu: ufficialmente il meeting aveva come scopo la preparazione del forum sull’antiterrorismo globale di giovedì organizzato da Washington e Ankara, ma il tema sul tavolo è il filo spezzato con Israele e Clinton ha chiesto ai turchi di “tenere la porta aperta” alle relazioni. Dopo l’inchiesta dell’Onu che ha stabilito la sostanziale legittimità del blocco navale imposto a Gaza da Israele – embargo forzato dalla nave turca Mavi Marmara – Ankara ha ritirato l’ambasciatore da Israele e ha congelato i rapporti. Per suturare le relazioni, Clinton ha sfruttato l’Assemblea generale per far leva sul potente ministro e aprire la pista al presidente, Barack Obama, che ha inserito un incontro con il primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Oggi Obama parlerà anche con il leader del Cnt di Bengasi, Mustafa Abdul Jalil, l’ex ministro di Gheddafi a cui Sarkozy e Cameron in missione a Tripoli alzavano le braccia come a un pugile vittorioso. E’ quando i leader europei sono stati accolti a Tripoli con sventolìo di palme che il ritardo del governo italiano è apparso in maniera compiuta (nonostante Roma sia stata la prima capitale a riconoscere il Cnt e l’unica a siglare accordi nero su bianco). Anche per questo una parte consistente della missione onusiana del ministro degli Esteri, Franco Frattini, è dedicata al consolidamento del ruolo dell’Italia fra i “Friends of Libya”, nome per nulla gradito a diversi osservatori africani all’Onu. Frattini ha incontrato il primo ministro Mahmoud Jibril, ha preso gli accordi di massima per una visita ufficiale a Tripoli (a chi sottolinea il ritardo italiano sugli apripista anglofrancesi, la Farnesina dice che “la guerra di date non ci interessa”) e oggi avrà l’occasione per mettere sul tavolo dei “friends” gli sforzi fatti dal governo per la transizione libica. La candidatura palestinese e la ricostruzione della Libia attutiscono l’impatto solitamente eccezionale di Mahmoud Ahmadinejad, che ieri si è installato al Warwick Hotel sulla Sesta avenue – bersaglio dell’annuale polemica contro chi ospita il dittatore. La Columbia University non conferma le voci su una cena organizzata dal governo iraniano con studenti e professori dell’università, ma fonti del Foglio al Palazzo di Vetro dicono che un giro di inviti è effettivamente partito nel campus. Per uscire dall’inusuale alone d’irrilevanza, il presidente ha anche implorato al Jazeera di accordargli un’intervista, dopo che l’anno scorso aveva rifiutato con disprezzo la richiesta. Una voce indiscreta del network del Qatar dice al Foglio che mercoledì le telecamere saranno nell’albergo di Ahmadinejad. L’accento polemico cade infine su Durban III, la conferenza contro il razzismo boicottata dagli Stati Uniti e da una decina di democrazie occidentali, fra cui l’Italia. A quello che solitamente è un consesso anti israeliano con il sorriso sulle labbra non è stata ammessa l’associazione Un Watch, cane da guardia delle brutture onusiane. Accettata con grandi onori invece l’associazione North-South 21, fondata da Muammar Gheddafi negli anni Ottanta. Ogni anno assegna un premio per i diritti umani che porta il nome del rais.

Corriere della Sera-Alessandra Farkas: " Palestina si, ma democratica"

Rashid Khalidi        Alessandra Farkas

Sotto un titolo troppo ottimista, l'intervista di Alessandra Farkas è un buon esempio di come si devono fare le domande, in modo che l'intervistato esponga con chiarezza il proprio pensiero. Infatti Rashid Kalidi dice che vorrebbe cancellare la lobby ebraica americana, e non si capisce perchè, visto che ce n'è una pro-araba, critica però anche Anp a Hamas, anche duramente, ma poi nega che Israele voglia uno Stato palestinese, ignorando che  sono proprio i palestinesi a non volersi sedere intorno a un tavolo con gli israeliani. Israele si sente troppo sicura, dichiara, e questo, dice, non aiuta la pace. Noi invece riteniamo che la sicurezza di Israele sia essenziale premessa a qualunque soluzione.
Accando all'intervista, c'è una breve, nella quale Netanyahu riconferma la sua disponibilità a trattare con Abu Mazen, persino a Washington, con un negoziato diretto. Sempre che Abu Mazen ci stia. La migliore smentita alle affermazioni di Kahlidi.
Ecco l'intervista:

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK — Rashid Khalidi, direttore del Middle East Institute della Columbia University, l'intellettuale palestinese più celebrato d'America, è scettico. «Un voto pro-Palestina all'Onu cambia poco della situazione sul terreno», spiega lo studioso nato a New York nel 1948. «Non cambia la realtà dell'occupazione e degli insediamenti né la complicità degli Usa, fallimentare nel rilanciare il processo di pace».
Obama ha deluso i palestinesi?
«Non più dei predecessori. Bush padre e il suo segretario di Stato Baker sono stati gli unici che hanno cercato di portare le parti davvero insieme a Madrid. L'elezione di Obama non ha certo fatto sparire la lobby ebraica Aipac. Quando Netanyahu ha parlato davanti al Congresso Usa l'applauso era calorosamente bipartisan. Giorni fa la democratica Pelosi si è appellata ai leader europei perché all'Onu votino no».
Ma gli americani hanno cercato più volte di riavviare il processo di pace.
«Non esiste processo di pace oggi, ma solo un'impasse che ha reso la pace impossibile. Gli insediamenti israeliani sono triplicati in 20 anni, rendendo il controllo israeliano sui territori ancora più forte. Gli unici a trarne vantaggio sono Israele e i politici Usa che pensano solo all'elettorato».
Secondo alcuni un sì dall'Assemblea generale rafforzerebbe il profilo diplomatico dei palestinesi.
«Certo, darebbe loro accesso alla Corte penale internazionale, all'Unesco e ad altre istituzioni mondiali. Ma la prospettiva di un popolo palestinese con più peso contrattuale non va giù ad americani e israeliani che vogliono una Palestina debole, divisa, ricattabile e isolata».
Che passi consiglierebbe alla leadership palestinese?
«Organizzare elezioni vere e una riconciliazione nazionale che nasca in un consenso sull'approccio da tenere nel conflitto. Serve una strategia non violenta che mobiliti le masse palestinesi. Senza questi elementi, il voto Onu è solo un addobbo da vetrina. Anche i palestinesi hanno le loro colpe, il vero problema sono loro. Hamas e Fatah continuano ad anteporre il proprio interesse al bene nazionale. Il fatto che potenze esterne quali Israele, Usa e Iran traggano vantaggio da questa discordia è secondario».
Non basterebbe che Hamas rinunciasse alla violenza riconoscendo Israele?
«Il giorno in cui gli israeliani riconosceranno lo Stato palestinese si potrà chiedere a questi ultimi di fare lo stesso. L'idea che questo non deve essere un processo completamente reciproco tra gente alla pari è inaccettabile. Dov'è il riconoscimento israeliano della patria palestinese? E perché i palestinesi dovrebbero rinunciare alla violenza se non lo fa anche Israele?».
Se si arriverà mai alla pace, sarà attraverso i negoziati?
«Io non sono un pacifista eppure penso che questo conflitto non sarà risolto con la violenza ma quando il rapporto di forza cambierà. Oggi Israele si sente troppo sicura e protetta e non ha incentivi alla pace. Dovrebbe capire che la realtà nella regione è stata stravolta dalla primavera araba e che la sua politica oppressiva verso i palestinesi l'ha lentamente delegittimata di fronte al mondo. Il suo futuro dipende dalla capacità di capire e risolvere queste due insidie. Perché la sua stessa sopravvivenza dipende dalla creazione di uno Stato Palestinese».

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