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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera-La Stampa Rassegna Stampa
18.09.2011 Stato palestinese ? chi sa solo dire sì e chi invece ha buona memoria
Il primo è Stefano Jesurum, il secondo Arrigo Levi

Testata:Corriere della Sera-La Stampa
Autore: Stefano Jesurum-Arrigo Levi
Titolo: «Dico si alla Palestina per il bene di Israele e della sua sicurezza-Israele, la via della pace è palestinese»

Due commenti rispetto alla richiesta all'Assemblea generale dell'Onu di votare il riconoscimento dello Stato di Palestina.
Quella di Stefano Jesurum, che dice sì, portando a suo sostegno alcuni dei nomi meno qualificati in Israele, valga per tutti quello di Avraham Burg, che ha perso ogni credibilità, soprattutto nella sinistra, quando spiegò perchè se ne andava da Israele per diventare cittadino francese. Cosa che ha fatto, ma che è durata un paio d'anni, dopodichè è rientrato in Israele, ma ormai la faccia l'aveva perduta, ripetiamo, soprattutto a sinistra. Queste cose Jesurum forse non le sa, o le dimentica, perchè il suo ragionamento fa acqua da tutte le parti. Come altri, lui crede ciecamente nella buona fede degli arabi, è sicuro che una volta creato lo Stato palestinese, gli arabi si metteranno d'accordo con Israele, persini sui confini. Anche un bambino capisce che la questione 'confini' va concordata 'prima' e non dopo. Ma Jesurum non è insospettito dal rifiuto di Abu Mazen di sedersi al tavolo con Bibi per trovare una soluzione condivisa. No, Jesurum non è preoccupato. Eppure dovrebbe conoscere almeno la geografia di Israele, un paese che dice di amare, e noi lo crediamo. Ma di troppo amore, soprattutto se cieco, si può anche morire. Certo, ci sarà sempre tempo, 'dopo', di rammaricarsene. Ma sarà tardi.

Diverso il taglio della analisi di Arrigo Levi, da sempre aperto a tutte le opzioni pacifiche per la risoluzione del conflitto, ma immune da cecità e buonismi. Sarà perchè ha combattuto nella guerra d'indipendnza nel '48, Levi, a differenza di Jesurum, trasforma quei sì in punti interrogativi. E ricorda un po' di storia di questi ultimi decenni che Jesurum ignora del tutto.
Sbagliato il titolo della STAMPA, che non riflette per niente il contenuto dell'articolo.

Ecco i due articoli:

Corriere della Sera-Stefano Jesurum: " Dico si alla Palestina per il bene di Israele e della sua sicurezza"

Stefano Jesurum

Caro direttore,
Stato palestinese sì, Stato palestinese no, il mondo si confronta. E c'è poi un «piccolo mondo» che si confronta e si divide con ancor maggiore coinvolgimento, con lacerazioni dolorose. Usiamo quindi l'antico Witz, il motto di spirito autoironico, per introdurre un dibattito non facile: due ebrei, tre punti di vista. La vecchia battuta regge più che mai in prossimità della candidatura ufficiale alle Nazioni Unite della Palestina come Stato indipendente. Da mesi infatti Israele si spacca, e la diaspora ebraica non è da meno. Contrari e favorevoli si affrontano a suon di appelli e manifestazioni di piazza (reali — per le strade di Tel Aviv e di Gerusalemme —, virtuali — nei siti, nei blog, nei giornali europei e americani).
Io sto con coloro che dicono «sì», e cercherò di spiegare perché. Non prima però di avere specificato che lo Stato palestinese uscito dall'Onu dovrebbe avere confini provvisori in attesa di un accordo definitivo scaturito dalla ripresa dei negoziati diretti e che il testo della risoluzione non deve in alcun modo suonare come punizione nei confronti di Israele ma essere un ponte reale e concreto verso il compromesso finale. Sì, dunque.
Sì perché — com'è sotto gli occhi del mondo — la politica della violenza e del terrorismo da una parte e la continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania dall'altra hanno reso l'espressione «processo di pace» un suono vuoto e privo di senso che ha come risultato terrificante il lutto di troppe famiglie e la totale, drammatica perdita di ogni speranza da parte delle giovani generazioni di entrambi i campi.
Sì perché lo status quo è il maggior pericolo per Israele che invece deve fare seriamente i conti anche con le luci e le ombre della Primavera araba.
Sì perché l'ammissione della bandiera palestinese alle Nazioni Unite cambierebbe profondamente i termini del conflitto mettendo per la prima volta di fronte due Stati sovrani.
Sì perché mi riconosco nelle parole di Avraham Burg, già portavoce della Knesset, il Parlamento israeliano, quando invita a riconoscere la Palestina e i confini del 1967 — modificabili con concessioni reciproche — chiedendosi «che cosa ci sia di unilaterale nell'appello per essere riconosciuti dalle nazioni del mondo».
Sì perché bisogna fermare il peggio. E si deve fermare il peggio proprio perché per Israele è difficile fidarsi del nemico esattamente come per il nemico è difficile fidarsi del governo israeliano.
Sì perché «la pace è caduta in ostaggio del processo di pace», come sta scritto in vari manifesti firmati — tra gli altri — dall'ex direttore generale del ministero degli Esteri di Gerusalemme Alon Liel, da intellettuali del peso di Amos Oz, Avishai Margalit, Ari Folman, Zeev Sternhell, da politici alla Yael Dayan, da economisti come il premio Nobel Daniel Kahneman, da ufficiali ed ex generali come Shlomo Gazit.
Sì perché sono stufo di sentire che tutti, ma proprio tutti, sono favorevoli al principio di «Due popoli, due Stati»: credo sia arrivato il momento di dimostrarlo. E lo dico — credetemi — perché sono terrorizzato dai pericoli che corrono la sicurezza e la democrazia di Israele, un Paese che amo profondamente.


La Stampa - Arrigo Levi: " Israele, la via della pace è palestinese "

Arrigo Levi

E così Israele, l’Israele di Netanyahu, degli immigrati russi e degli ultraortodossi, sta riuscendo a isolarsi, come non era più stato da decenni, nella regione cui inesorabilmente appartiene, per ragioni di storia e di memorie, ma dove è visto come un ultimo residuo di colonialismo europeo, testimonianza inaccettabile del declino storico della civiltà araba. Per quello che è il terzo Stato ebraico della storia si pone ancora il problema della sopravvivenza. Per quanto irrealistica appaia questa ipotesi quando si visitano le fiorenti città e campagne dello Stato ebraico. Sognavano i profeti che venisse il giorno in cui la via della pace universale corresse dall’Egitto alla Babilonia passando per Gerusalemme: in questa come in poche altre regioni la storia sembra ripetersi a distanza di millenni. Ma, si dirà, non è con i palestinesi, e soltanto con i palestinesi, che Israele deve far pace per essere da tutti accettato? La risposta è un po’ meno sicura di quanto appaia. Avevamo tutti accolto con sollievo quando, dopo i grandi moti rivoluzionari in Tunisia e in Egitto, ci era stato assicurato, non senza qualche sorpresa, che non si erano ascoltati slogan e grida contro Israele. L’assalto feroce all’ambasciata d’Israele al Cairo è stata una brutale smentita a quelle ottimistiche rassicurazioni. Riconosciamo la realtà: lo Stato ebraico, per pregiudizi nuovi ed antichi, è ancora visto con odio dalle masse egiziane, e non solo da loro. Ma ci è stato subito assicurato che i militari egiziani non avrebbero assolutamente rimesso in discussione il trattato di pace con Israele. Ora ci si dice invece dal Cairo che sono possibili cambiamenti. E intanto la gran maggioranza dei Paesi del mondo sta per proclamare all’Onu la propria convinzione che i palestinesi abbiano diritto a un loro Stato, e Israele e l’America non sembrano fino a questo momento capaci di far buon viso a cattivo gioco. Dopodiché, quale che sia la formulazione del pensiero dell’assemblea, ci si attendono assalti o sfide alle frontiere d’Israele, col rischio di incidenti capaci perfino di avere ripercussioni all’interno dello Stato ebraico nella minoranza araba. La maggioranza che oggi governa lo Stato d’Israele riconosce in linea di principio che «uno Stato palestinese dev’essere stabilito», come ha assicurato Dan Meridor a Francesca Paci; e questo è un notevole progresso. Ma in attesa che un giorno, chissà quando, ciò accada, Israele non intende porre fine all’ampliamento delle colonie ebraiche, perché sarebbe «irrealistico» impedire a chicchessia di «comprar casa solo perché è ebreo». Non è bastato che ciò fosse stato proibito con una moratoria di dieci mesi? No, non è bastato. Eppure Israele ha lasciato la striscia di Gaza e richiamato con la forza in patria gli israeliani che vi risiedevano. Questo non appariva «irrealistico» nell’interesse superiore dello Stato. Ma Israele oggi appare paralizzato dai suoi timori, di fronte a una «rivoluzione araba» di cui vede soltanto, non a torto, la pericolosità. E così, le prospettive di un nuovo negoziato sembrano sfumare in un futuro incerto e lontano. Chiedendosi se ce la farà questa generazione a fare la pace, un osservatore mite ed equilibrato come Antonio Ferrari si risponde: è «più che lecito dubitarne». Ammettiamolo: far pace con i palestinesi può non bastare per far pace con tutti gli arabi. Per questo più lontano obiettivo occorrerà forse lasciar passare generazioni. Ma è pur sempre sotto le forche caudine palestinesi che Israele dovrà passare per fare pace con tutti: ed è solo su questo fronte che la diplomazia d’Israele può agire per far sì che Israele non rimanga così tremendamente solo nella terra che qualche millennio fa fu irrevocabilmente promessa agli ebrei; ma fu anche ripetutamente negata. È in questa direzione che la straordinaria forza spirituale del popolo che dopo una millenaria dispersione ha ridato vita a uno Stato ebraico potrebbe e dovrebbe indirizzarsi.

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