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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
13.09.2011 Turchia e 'nuovo' Egitto in prima linea contro Israele
analisi di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti. Cronaca di Francesca Paci

Testata:Il Giornale - Il Foglio - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Giulio Meotti - Francesca Paci
Titolo: «Erdogan apre il tour dell’odio contro Israele - Al Cairo il telefono della giunta squilla a vuoto (e favorisce gli islamisti) - La delusione di Israele: spunta un nuovo nemico»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 13/09/2011, a pag. 15, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Erdogan apre il tour dell’odio contro Israele ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "  Al Cairo il telefono della giunta squilla a vuoto (e favorisce gli islamisti)". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " La delusione di Israele: spunta un nuovo nemico ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Erdogan apre il tour dell’odio contro Israele "


Fiamma Nirenstein

Piazza Tahrir, che magnifi­c­a preda per Tayyip Erdo­gan, e a un prezzo così basso, l’odio contro Israele: dai tempi dell’impero ottomano la Turchia non si presentava sul proscenio come potenza islami­ca internaz­ionale e ora dall’Egit­to parte un suo tour di saluto alle primavere arabe, Egitto, Tuni­sia, Libia. Erdogan, e come no, ha già annunciato che il suo di­scorso al Cairo sarà incentrato sulla laicità e la democrazia. Ma noi sappiamo perché lo si dedu­ce da tutte le carte, che il sottinte­so è il cem­ento che finora ha lega­to Erdogan ai suoi amici e ex ami­ci Siria e Iran. I turchi sono entu­siasti che Erdogan sia colui che ha detto al vecchio Shimon Pe­res: «Tu sai bene come uccide­re ». O che la tv turca abbia man­dato in onda un serial dove i sol­dati israeliani uccidono volonta­riamente i bambini palestinesi. Erdogan va al Cairo dopo aver ap­pen­a cancellato da Ankara l’am­basciata israeliana, dopo che ha minacciato di scortare la prossi­ma flotilla fino a Gaza, dopo aver rotto i rapporti militari, e tutto perché una commissione Onu ha stabilito che Israele ha il dirit­to di­difendere le sue acque da in­filtrazioni verso Gaza.
Erdogan si è offeso perché Isra­ele non è stato condannato, e co­sì ci ha pensato lui. E qui il gemel­­laggio è già fatto, perché l’amba­sciatore d’Israele, con cui l’Egit­to è in pace dal ’79, è stato messo in fuga dal Cairo mentre una enorme folla inferocita aggredi­v­a con fuoco e picconi la rappre­sentanza di Gerusalemme. Un gesto non bloccato dalle forze dell’ordine, molto lodato dagli iraniani, che vi hanno visto un’analogia con l’occupazione dell’ambasciata americana che dette il segno a tutta la rivoluzio­ne khomeinista. Erdogan ha il denaro, la forza militare, la deter­minazione ideologica che può costruire nuove alleanze di cui la Turchia sia al centro. È partito con ministri e business man. Ma il suo biglietto da visita è la rab­biosa, incontenibile, furiosa an­tipatia per Israele, quella scheg­gia di Occidente che non piega il capo,il dhimmi,ovvero l’inferio­re ne­lla humma islamica che si ri­fiuta di essere tale. La Turchia ha già fatto sapere che impedirà a Israele di sfruttare i giacimenti di gas che ha trovato in mare e su cui ha fatto un accordo con Ci­pro. Nel frattempo ha passato al­le a­genzie turche la copia dell’in­tervista a Al Jazeera in cui dice che la vicenda della flotilla avreb­be causato una guerra, se non fosse stato per il grandioso passa­to del suo paese. Guerra è una pa­­rola forte, ma se si pensa al clima e alle immagini di piazza Tahrir negli ultimi giorni, ai discorsi di Erdogan sull’impero ottomano, si capisce che il tour d’onore che comincia da piazza Tahrir e pro­segue in Libia e Tunisia innalza
un vessillo che garrisce.
www.fiammanirenstein.com

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Al Cairo il telefono della giunta squilla a vuoto (e favorisce gli islamisti)"


Giulio Meotti

Roma. Il maggiore giornale egiziano, al Ahram, paragona l’assalto all’ambasciata d’Israele alla caduta del Muro di Berlino. Hamdeen Sabahi, candidato alla presidenza egiziana, esulta dicendo che “la bandiera sionista aveva inquinato l’aria egiziana per trent’anni”. Il quotidiano israeliano Israel Hayom lo chiama “l’esodo”: mai prima d’ora l’intero corpo diplomatico israeliano, ottanta persone fra ambasciatore, assistenti e guardie di sicurezza, era stato costretto ad abbandonare il Cairo. La notizia politica più importante dell’assalto è che senza l’intervento del presidente americano Barack Obama ci sarebbe stata una strage di israeliani. Durante la crisi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Ehud Barak, hanno tentato di telefonare al feldmaresciallo Mohammed Tantawi, l’ufficiale di grado più alto dopo la caduta di Mubarak, per farlo intervenire. La versione ufficiale dice che Tantawi “non si trovava”.
La verità è che non ha accettato la telefonata israeliana. “Farò quello che posso”, ha detto Obama a Netanyahu, riuscendo a costringere gli egiziani a creare una via di fuga per gli israeliani. L’ex generale egiziano Sameh Seif ha detto che l’assalto è colpa della casta militare che governa il paese. E il sospetto che la giunta abbia lasciato mano libera ai manifestanti è forte. Il governatore di Giza, dove sorge l’ambasciata, ha promesso alla folla che non costruirà un altro muro a protezione degli israeliani. La sicurezza attorno al diciottesimo piano era altissima. Non erano ammessi telefonini, c’erano metal detector, telecamere e guardie armate.
Un protocollo voleva che gli israeliani, prima di abbandonare le proprie case diretti all’ambasciata, dovessero accertarsi di non essere seguiti e cambiare spesso il loro itinerario. Alle cinque del pomeriggio di venerdì migliaia di egiziani si ritrovano in piazza Tahrir. L’ordine è di marciare sull’ambasciata israeliana. Giorni prima un influente leader religioso dei Fratelli musulmani, Salah Sultan, aveva emesso una fatwa che legittimava l’uccisione dell’ambasciatore, Yitzhak Levanon. Salah Sultan aveva accusato l’ambasciata di “corrompere” i giovani con prodotti per capelli che ledono le capacità riproduttive. La vice Guida suprema della Fratellanza, Mahmoud Ezzat, aveva accusato il personale israeliano di essere “spie”. “Rappresentante sionista, vattene o muori”, recitava uno dei volantini distribuiti dalla Fratellanza davanti all’ambasciata.
Ieri, mentre arrivava al Cairo il premier turco Recep Tayyip Erdogan, un comunicato della potente confraternita islamica ha giustificato l’attacco, dicendo che l’assalto all’ambasciata è stata “una reazione legittima”. I Fratelli musulmani hanno chiesto una “revisione” del trattato di Camp David. “Israele dovrebbe aver capito il messaggio, l’Egitto è cambiato, la regione è cambiata”, si legge in un comunicato dei Fratelli musulmani. E ancora: “E’ stata una esplosione di sentimento nazionale nel cuore degli egiziani”. Venerdì sera dentro all’ambasciata, chiusa per Shabbat, c’erano sei guardie israeliane. Alle sei i manifestanti abbattono il muro di tre metri a difesa dell’edificio al grido di “Allah Akbar” e “Sinai Sinai”. A mezzanotte da Israele arriva l’ordine di evacuare il personale. I sei israeliani restano chiusi in una “stanza sicura” dell’ambasciata, dietro a una porta di ferro.
Alcuni manifestanti riescono a entrare nell’ambasciata, rubano centinaia di documenti di proprietà d’Israele e strappano la bandiera ebraica. Da Gerusalemme Netanyahu, Barak e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman seguono il raid dalle telecamere. Il capo del Mossad, Tamir Pardo, invia un Boeing 707 al Cairo per portare in salvo tutti. Gli israeliani fuggono indossando la kefiah. L’aereo decolla alle tre e atterra in Israele alle cinque del mattino di sabato.
Oggi resta un solo israeliano nel paese, è il viceambasciatore Yisrael Tikochinsky- Nitzan, trasferito in una località “sicura”. Si sa che tre delle guardie rinchiuse nell’ambasciata hanno sparato in aria per allontanare gli egiziani saliti al diciottesimo piano. L’ordine era di “sparare per uccidere” nel caso gli egiziani avessero sfondato anche l’ultima porta. Il capo delle guardie, “Yonatan”, aveva già spedito un sms d’addio alla moglie: “Ti amo”. Quella predata venerdì scorso era stata la prima bandiera israeliana a sventolare in una capitale araba, dal 17 febbraio 1980.

La STAMPA - Francesca Paci : " La delusione di Israele: spunta un nuovo nemico"


Francesca Paci

Siamo abituati ai nemici, se non è l’Egitto è il Libano, l’Iran, Gaza» commenta Avi scorrendo le notizie sull’iPhone nel cortile del conservatorio di Hadessna, a Gerusalemme. Certo Ankara è una sorpresa, ammette David, amico e socio della casa di produzione video EyeCon: «E’ un voltafaccia che non ci aspettavamo perché eravamo partner. Ma si vede che Erdogan è in crisi di leadership e in questa parte del mondo certi problemi li risolvi solo mostrando i muscoli». L’Economist si chiede se le cose per gli israeliani possano andare peggio, ma loro, «gli assediati», fanno spallucce. Sebbene qualcuno abbia annullato le ferie ad Antalya l’umore nazionale è lo stesso con cui Avi e David continuano a girare il film sui neomusicisti di Hadessna. The show must go on.

La storica visita del premier turco al Cairo allarma i politici e impegna gli analisti come Herb Keinon del Jerusalem Post che vi legge il tentativo d’esacerbare i dissapori tra Egitto e Israele. Un rapido giro nel

Paese però, rivela una distanza tra i vertici e la base che, suo malgrado, ricorda un po’ i cugini arabi.

Gerusalemme è l’epicentro dell’ansia: le colone dalle sottane patchwork a spingere fiere le carrozzine oltre la linea del ‘67, gli ortodossi che passeggiano invocando la volontà divina qualunque essa sia, i palestinesi in attesa del vendicatore ancorché ottomano dietro i muri invisibili della città vecchia. Eppure anche qui il negoziato per 250 grammi di feta balzati a 22 sheckel (oltre 4 euro) appassiona più di quello con i bellicosi vicini.

Nell’odoroso mercato Mahane Yehuda, dove ogni giorno si mescolano bio-radical in abiti di canapa, casalinghe econome e ricciuti religiosi del vicino quartiere Mea Shearim, l’agricoltore Ami Ben Asher vende mandorle e olio Pereg proveniente dalla «parte destra e più ragionevole della mappa israeliana», alias i territori occupati. Erdogan? «Non ci fa paura - afferma -. A 61 anni so che l’unico collante dei musulmani è l’ostilità verso Israele, un sentimento diffuso su cui i politici non hanno influenza». Due ventenni in divisa ascoltano e abbassano lo sguardo sulle Birkenstock informali: «Siamo pronti ma non ci sarà nessuna guerra». Mamma Ossi Bronstein, 40 anni, li osserva come fossero suoi figli: «E’ un automatismo: ci preoccupa più il carovita delle minacce. Certo, Netanyahu dovrebbe essere più accorto sapendo che camminiamo sulle uova. La Turchia però bluffa come gli arabi: ci rimprovera le scuse mancate ma è un pretesto, se avessimo ammesso un po’ di responsabilità nella storia della Flottilla avrebbe rilanciato accusandoci di cercare il gas nel mare di Cipro».

Dalla Gerusalemme popolare dei banchi di mango a quella chic di German Colony, il leitmotiv è lo stesso: se la primavera araba si sta rivelando una delusione la colpa è dei suoi protagonisti. Israele dubita dell’orgoglio ferito di Ankara che l’ha accusato di essere «un bambino viziato incapace di ammettere i propri errori» e sospetta retroscena da Risiko. Secondo un’inchiesta della tv Channel 2, Erdogan potrebbe bloccare i 350 milioni di dollari dovuti dalle aziende turche a quelle israeliane, promuovere una campagna internazionale per riconoscere Hamas o aizzare l’Aiea contro l’unica potenza regionale esente da pressioni sul nucleare.

«La Turchia parla ma non morde, neppure commerciando con 5 Paesi arabi raggiungerebbe i 3 miliardi di dollari garantiti dal mercato israeliano» nota l’architetto Yossi Talshir uscendo dalla libreria Tamir, a metà di Emek Refa’im, dove ormai va per la maggiore il saggio di Ahron Bregman «Israel’s War», le guerre d’Israele.

La prima linea si addice alla Città Santa. Man mano che svanisce insieme all’acrobatico ponte di Calatrava l’aria si rilassa. L’autostoppista ventenne Dan Lavie, partito dalla colonia di Maale Adumin e diretto a Bet Shemesh, è l’ultima trincea: «Se Erdogan urla noi urliamo di più». Detesta il ministro della Difesa Barak e la sua ricerca d’una soluzione palestinese alla crisi: molto meglio il falco Netanhyau. Occhio per occhio. Ma le sue paure s’infrangono tra le colline dominate dal villaggio arabo di Abu Gosh, oasi di convivenza culinaria per israeliani e palestinesi, e il kibbutz Maale Ha Chamishà, antico fortino liberal. «La differenza tra Egitto e Turchia è che nel primo caso i guai vengono dal popolo, nel secondo dal governo» osserva il segretario Mike Rosemberg, ebreo americano emigrato nel ‘67 per combattere la guerra dei Sei giorni. Come finirà? «La democrazia trionferà anche nel mondo arabo ma non la vedremo né io, né i miei sette figli».

All’orizzonte la nivea Tel Aviv si tuffa nel Mediterraneo, lo stesso mare, scrive Amos Oz, che bagna Israele, Egitto, Turchia, Gaza. «Ha ragione il quotidiano Haaretz: la chiave del rebus è la nascita d’uno Stato palestinese, altrimenti saremo sempre in balia di regimi arabi temporanei» ragiona la grafica Rachel Ben-Zeev passeggiando col cane nel Mordehai garden di Shenkin, cuore trendy di Tel Aviv. Anche qui, dove sotto i missili di Saddam i locali distribuivano maschere antigas e tiravano fino all’alba, Yaniv, Sarah e gli altri amici appena tornati da Istanbul, sono abituati ai nemici. Credono però che prima o poi possano cambiare idea.

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