Crisi Egitto Israele, riprendiamo due servizi dalla STAMPA di oggi, 11/09/2011, a pag.11, di Aldo Baquis da Israele, e di Maurizio Molinari da New York.
Dal CORRIERE della SERA, a pag.18/19, quelli di Francesco Battistini - preceduto da un nostro commento - da Gerusalemme, e di Stefano Montefiori da Parigi.
Sui rapporti Egitto-Israele, consigliamo la lettura del commento di Zvi Mazel in altra pagina di IC, così come le analisi precedenti, nelle quali aveva già previsto gli avvenimenti di questi giorni, grazie alla sua esperienza di ambasciatore israeliano al Cairo.
Ecco gli articoli:
La Stampa- Aldo Baquis: " Netanyahu con l'incubo Erdogan, sta diventando un altro Nasser "


Ergodan nuovo Nasser
Il Medio Oriente è sconvolto da un terremoto, e Israele non può influenzarne l’esito. Può solo tenere duro, e affidarsi nei momenti di impellente necessità alla saldezza della alleanza con gli Stati Uniti. Questo il messaggio che il premier Benyamin Netanyahu e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman hanno indirizzato ieri agli israeliani, al termine di una nottata drammatica - dopo che l’ambasciata israeliana al Cairo era stata attaccata da una folla in tumulto - e dopo una settimana di crescenti tensioni con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Il premier turco viene ormai indicato dalla stampa del suo Paese come «un nuovo Nasser».
Per ora il governo di Gerusalemme sceglie la strada dell’autocontrollo. La Turchia minaccia di inviare le proprie navi da guerra per forzare il blocco israeliano a Gaza o minacciare le ricerche di gas naturale nel Mediterraneo? «Vediamo di abbassare le fiamme, di impedire un ulteriore degrado nelle relazioni» è il consiglio concordante di Netanyahu e Lieberman. In Egitto l’ambasciatore di Israele è costretto a una fuga notturna, con tutto il personale diplomatico? «Restiamo vincolati dagli accordi di pace, il dialogo con i dirigenti egiziani è costante, non abbiamo lamentele», replicano Netanyahu e Lieberman. Abu Mazen si accinge a incontrare Erdogan al Cairo, prima di invocare la adesione all’Onu dello Stato di Palestina? «Noi siamo interessati alla pace con i palestinesi», assicura Netanyahu.
Ormai progetti di lungo termine non ce ne sono più. L’importante, pare di capire, è per Israele di superare la bufera della «primavera araba», possibilmente indenne. Ma il quadro strategico è allarmante: due Paesi di importanza vitale per la stabilità regionale Turchia ed Egitto - sono di giorno in giorno sempre più ostili ad Israele.
In pochi giorni, l’ambasciatore israeliano ad Ankara è stato espulso, e l’ambasciatore al Cairo è stato costretto ad una fuga notturna per aver salva la vita. Ad Amman l’ambasciatore di Israele vive barricato da mesi: la sua rimozione potrebbe non essere lontana. Come in una macchina del tempo, sull’onda della sollevazione delle masse arabe la diplomazia israeliana viene adesso riportata indietro di alcuni decenni.
Tutto ciò non sorprende i responsabili militari. «Dopo la primavera dei popoli arabi, rischiamo di dover far fronte ad un inverno islamico radicale» ha detto nei giorni scorsi il comandante delle retrovie, il generale Eyal Eisenberg. Cresce adesso «la minaccia delle armi di distruzione di massa» nei confronti di Israele. «L’Iran non ha messo da parte i progetti nucleari. In Egitto l’esercito crolla sotto le incombenze che gli sono state addossate. Il confine fra Israele ed il Sinai si è trasformato da un confine di pace in un confine di terrorismo. Esiste la possibilità che il Sinai cada sotto una entità islamista», continua il generale. Fatto poi riferimento alla crisi in atto in Siria e al degradarsi delle relazioni con la Turchia, Eisenberg ha raggelato gli israeliani: «La possibilità di un conflitto generale sta crescendo».
Israele si sente con le mani legate. Vorrebbe, ma non può, intercettare nel Sinai cellule terroristiche che preparano attacchi. Vorrebbe, ma non può, bloccare il flusso abbondante di armi verso Gaza. Vorrebbe, ma non può, assicurarsi che le armi non convenzionali della Siria non finiscano agli Hezbollah libanesi. Vorrebbe, ma non può, dissuadere Abu Mazen dal rivolgersi all’Onu.
Mentre la questione della adesione all’Onu dello Stato palestinese si avvicina, a Netanyahu, Lieberman e Barak non resta che trattenere il fiato. Il rischio è che manifestazioni di giubilo palestinesi minaccino le colonie ebraiche in Cisgiordania e che sul terreno si registrino violenze, o che si abbiano vittime. Nella situazione creatasi, scene cruente nei Territori avrebbero riflessi immediati nella piazze di Istanbul e del Cairo. Ad Israele non resta ormai altra scelta che chiudersi a riccio, in attesa di tempi migliori.
La Stampa-Maurizio Mollinari: "lo Stato ebraico si deve preparare a un lungo inverno"

Aaron David Miller
Anziché primavera araba questa stagione dovrebbe essere chiamata inverno arabo». Aaron David Miller è stato consigliere sul Medio Oriente di sei segretari di Stato, inclusi Madeleine Albright e Condoleezza Rice, e nella veste di analista del Woodrow Wilson Center legge l’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo come la conferma che «questa non è una primavera».
Perché in Egitto monta l’avversione contro Israele?
«I motivi sono due. Da un lato le forze armate hanno difficoltà a mantenere l’ordine nelle strade perché soldati e poliziotti non si sentono garantiti da un potere politico che è molto debole. Dall’altro è in atto una profonda trasformazione del rapporto con Israele. Se finora il Trattato di pace siglato a Camp David era stato nelle mani del regime, prima con Anwar Sadat e poi con Hosni Mubarak, ora passa nelle mani della popolazione, dove i sentimenti anti-israeliani sono molto forti».
Significa che il Trattato di Camp David è condannato a diventare carta straccia?
«Non necessariamente, ma gli spazi di manovra in Egitto per la pace, per Israele e anche per gli Stati Uniti tendono a restringersi. È uno dei motivi per i quali sono convinto che l’attuale situazione assomiglia più a un inverno arabo che a una primavera».
Perché parla di inverno arabo?
«Non c’è dubbio che per i popoli arabi quanto è avvenuto e sta avvenendo, dalla Tunisia all’Egitto fino alla Siria, è nel complesso positivo. Dal loro punto di vista si tratta di una primavera. Ma da quello degli Stati Uniti, e dell’Occidente in genere, è piuttosto un inverno, perché la caduta di regimi autocrati acquiescenti, dall’Egitto alla Tunisia, come di regimi autocrati avversari, dall’Iraq alla Libia, sta ridisegnando la mappa del Medio Oriente, rendendo molto più difficile per Washington difendere i propri interessi».
Da che cosa derivano tali difficoltà?
«Dall’emergere di situazioni segnate da incertezza in più nazioni, che aprono più fronti di crisi con interlocutori nuovi, o addirittura inesistenti, in maniera tale da rendere molto più complesso e costoso ogni passo degli Stati Uniti».
A cominciare dalla tutela della sicurezza di Israele?
«Esatto. Difendere Israele è sempre stato un compito molto difficile per gli Stati Uniti e ora lo diventerà ancor più. Ce ne accorgeremo da quanto avverrà nelle prossime due settimane a New York, dove sta per iniziare alle Nazioni Unite la battaglia per il riconoscimento dello Stato palestinese».
È questo scenario che spinge la Turchia di Erdogan a essere più aggressiva nei confronti di Israele?
«Credo di sì. I governanti di Ankara si sono accorti che gli Stati Uniti sono in seria difficoltà, che il Medio Oriente è in rapida trasformazione verso qualcosa di ignoto e che al momento non esistono leader o Paesi arabi sufficientemente forti da poter ambire a ruoli di guida regionale. È uno spazio vuoto nel quale Ankara punta a inserirsi, cavalcando i sentimenti di ostilità nei confronti di Israele, molto diffusi nel mondo arabo».
Tutto ciò sembra destinato a rafforzare i timori di Israele nei confronti dei cambiamenti politici in atto in Medio Oriente. Quali opzioni ha il governo Netanyahu?
«Non molte. Credo che Netanyahu reagirà all’indebolimento strategico di Israele, dovuto all’indebolimento dei rapporti con Egitto e Turchia, tenendo ben attaccate a sé le chiavi della risoluzione del conflitto israelo-palestinese e contando ancor più sul sostegno degli Stati Uniti per la difesa nazionale».
Corriere della Sera-Francesco Battistini: " Ehud e il maresciallo, i carissimi 'nemici', la crisi gestita da Barak e Tantawi"
A Battistini sta antipatico Avigdor Lieberman e non perde occasione di scriverlo, inventandosi anche un Lieberman guerrafondaio quando non è il caso, come nell'attuale crisi con l'Egitto. Se non andiamo errati, la regola d'oro del giornalismo anglosassone alla quale i nostri cronisti si vantano di appartenere, recitava: "i fatti separati dalle opinioni", una regola che Battistini si guarda bene dall'osservare.

Ehud Barak, Hussein Tantawi Suleiman
«Chiamatemi il maresciallo!». «Chiamatemi Ehud!». Quando il gioco si fa duro, come s'è fatto venerdì notte negl'incendi sotto l'ambasciata israeliana, solo i duri dell'ultim'ora continuano a giocare col fuoco: i duri veri, la vecchia guardia che sa cos'è una guerra e quando va fatta, loro continuano a dialogare. S'è visto in trent'anni di pace fredda, in otto mesi post Mubarak, nelle peggiori otto ore delle relazioni recenti fra Israele ed Egitto. Mentre ancora ieri minacciava sfracelli il solito Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri israeliano che una volta propose perfino di bombardare Suez (e per questo di solito lo mandano a occuparsi d'Oceania), mentre il neo capo della Lega araba Al Arabi sognava già di rivedere la pace di Camp David (e per questo l'hanno appena cacciato dal governo cairota), anche stavolta si sono cercati al telefono loro due, i carissimi nemici: il feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi Suleiman, misirizzi supremo della giunta militare, e il più inaffondabile politico di Tel Aviv, Ehud Barak, ministro della Difesa.
Si conoscono da una vita. La vita se la sono giocata l'un contro l'altro. E la vita li ha riportati a parlarsi. Non è un caso se Leon Panetta, dal Pentagono, venerdì notte ha voluto sapere soprattutto che ne pensavano loro. E ha chiesto loro un rimedio veloce. Vecchie volpi del Sinai, Barak e Tantawi. Biografie parallele.
Che s'incrociano una sanguinosa sera di metà ottobre 1973, piena guerra del Kippur. Il giorno 16, per l'esattezza cabalistica, quando il futuro maresciallo comanda il 16° battaglione della 16a divisione della fanteria egiziana. Il tenentino Tantawi ha buoni missili sovietici, i Sagger, e l'ordine di non mollare il fronte est del Canale. Il tenentino Barak ha una brigata corazzata e un manipolo di parà, incaricati di far avanzare i tank. Tantawi è più bravo: quando gli uomini di Barak calano dal cielo di Suez, ormai avviati alla vittoria finale, l'egiziano riesce a scatenare 48 ore di resistenza che entreranno nei manuali militari come «la battaglia della fattoria cinese», e gli varranno una medaglia al valore.
Trentott'anni dopo, eccoli leader. Paralleli anche in politica: dati per finiti, l'uno per essere stato vent'anni ministro della Difesa di Mubarak, l'altro per aver affossato il Labour di Ben Gurion, in questo 2011 sono loro a cercarsi sul telefono rosso ogni volta che s'attenta al gasdotto Egitto-Israele, s'arresta come spia un turista israeliano, s'assalta l'ambasciata al Cairo, si richiama la feluca da Tel Aviv... «Tantawi è un buon partner, almeno per ora», ci spiegò qualche mese fa Barak in un'intervista: l'ammissione di riservate missioni al Cairo, laddove una volta c'era l'asse preferenziale d'un altro laburista, Ben Eliezer, apprezzato per il suo ottimo arabo. Finché c'è Tantawi c'è speranza, dice spesso Barak: il maresciallo non è un amico, perché con Israele ha pur sempre perso due guerre, ma sa bene che è Camp David a garantire all'Egitto tutti gli F-16 americani che servono. Finché c'è Tantawi, già. L'altra notte, è la soffiata a una tv, il maresciallo per la prima volta si sarebbe «negato al telefono, delegando a parlare con gl'israeliani il capo dell'intelligence». Prudenza comprensibile: oggi, al processo Mubarak, Tantawi sarà chiamato in aula. A sorpresa. A porte chiuse. Per spiegare meglio il suo ruolo, nell'era del Faraone. E forse per rispondere d'un reato che nel nuovo Egitto nessuno gli contesta, ma tanti gli rimproverano: non odiare abbastanza il carissimo nemico.
Corriere della Sera-Stefano Montefiori: " Riesplode il vecchio odio tenuto a bada da Mubarak"

Dominique Moisi
L'Occidente era entusiasta della primavera araba anche perché nelle piazze, per la prima volta, non risuonavano i soliti slogan antisionisti e antiamericani, e l'eterno conflitto israeliano-palestinese smetteva di essere l'alibi per l'immobilismo di tutta la regione. I manifestanti sembravano chiedere democrazia, libertà e modernità. Ci siamo sbagliati?
«I fatti del Cairo sono un avvertimento molto serio, ma non bisogna trarne un giudizio definitivo sul significato della primavera araba. Ci ricordano, questo sì, quanto una parte della popolazione continui a covare una profonda avversione verso Israele e gli israeliani». Dominique Moïsi, che nel 1979 fondò l'Ifri (Istituto francese di relazioni internazionali) sotto l'incoraggiamento del suo mentore Raymond Aron, ha studiato e insegnato alla Sorbona, all'Università ebraica di Gerusalemme, a Harvard e al Collegio d'Europa. Nel suo ultimo libro, Un Juif improbable (Flammarion), racconta del primo numero imparato da bambino (159721, tatuato sul polso del padre scampato ad Auschwitz), e della sua triplice identità «francese, europea ed ebraica».
Perché questa esplosione di odio antisraeliano?
«L'ostilità degli egiziani nei confronti di Israele era solo contenuta dal regime del presidente Mubarak, ma non è mai scomparsa. L'uccisione di sei agenti egiziani al confine con Israele l'ha risvegliata».
Qual è il rapporto con la rivoluzione anti-Mubarak?
«Un rapporto diretto. Distruggere l'ambasciata israeliana, prendersela con una bandiera tanto odiata ma che sventola da anni — grazie a Sadat e Mubarak — nel cuore della capitale egiziana, equivale a dire "non accettiamo il vecchio regime e la sua compromissione con il nemico sionista"».
La fine dello status quo, come temeva il premier israeliano Netanyahu, porta nuova minacce.
«I popoli sono molto più virulenti contro Israele di quanto non lo fossero i regimi da poco crollati. Allo stesso tempo, non sono d'accordo con la visione di Netanyahu, che è parso da subito troppo spaventato. Un capo di governo responsabile non può accontentarsi di una pessima situazione, solo perché ha paura del nuovo. La primavera araba è, e resta nonostante tutto, una buona notizia».
Caduto Mubarak, le nuove autorità chiesero subito di rinegoziare i contratti stipulati con Israele sui gasdotti.
«Ma agli occhi degli elementi più radicali questo non basta. Ricordiamo però che non è l'insieme degli egiziani a essere sceso in strada contro gli israeliani, ma la loro parte più estremista. È ancora presto per capire se qualcuno ha pilotato dall'esterno l'assalto all'ambasciata, o se è stata una protesta relativamente spontanea».
La seconda ipotesi appare più preoccupante.
«Sì, perché indicherebbe il ritorno in scena della famosa "piazza araba", una definizione che prima stava a indicare violenti tumulti antiamericani, antioccidentali e antisraeliani, con il loro rituale di bandiere bruciate e minacce. Il calendario è comunque interessante: alla vigilia del decimo anniversario dell'11 Settembre, e a pochi giorni dal voto all'Onu sullo Stato palestinese. Un timing davvero non innocente».
Turchia ed Egitto erano i più importanti alleati di Israele nella regione, e Gerusalemme adesso li sta perdendo entrambi.
«La Turchia, sempre più forte, sicura di sé e ambiziosa, vuole contendere all'Egitto il ruolo di punto di riferimento per il mondo arabo-musulmano, e questa rivalità si gioca contro Israele. Quando l'opinione pubblica ha accusato il premier turco Erdogan di eccessiva comprensione verso la dittatura siriana che massacrava i suoi stessi cittadini, lui ha reagito dirottando i malumori contro Israele, e si è messo a cavalcare la crisi della Freedom Flotilla. Alcuni dirigenti egiziani poi usano la politica estera a fini interni, visto che le elezioni si avvicinano. Si organizzano elezioni ovunque e questo (bel paradosso per noi democratici) complica le cose».
Come reagirà Israele?
«Il Cairo mostra che un processo rivoluzionario è complesso, che può andare in diverse direzioni, e illustra anche che le emozioni arabe restano profondamente antisraeliane. Va detto che il governo israeliano non ha fatto niente negli ultimi tempi per arginare questa ostilità, al contrario. Israele, e tutti noi occidentali, non dobbiamo accettare la profezia che si auto avvera di Netanyahu, che vede in giro solo islamisti e finisce col comportarsi in modo da amplificarne il potere. L'avvertimento è arrivato e non va sottovalutato. La democratizzazione, dobbiamo sperarlo, continuerà».
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