Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/09/2011, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Iraq, 3 mila soldati Usa nel 2012 ", a pag. 13, l'articolo di Joseph Nye dal titolo " Ma la guerra al terrorismo ha danneggiato l’America", preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 26, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " L'Occidente e l'islam moderato insieme hanno fermato al Qaeda ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Iraq, 3 mila soldati Usa nel 2012 "


Maurizio Molinari
Il capo del Pentagono Leon Panetta ha redatto un piano che prevede il mantenimento in Iraq di un contingente compreso fra 3.000 e 4.000 soldati dopo il 31 dicembre, termine ultimo per il ritiro di tutte le truppe americane che fu concordato con Baghdad dall’Amministrazione Bush e poi confermato da quella Obama. Il passo di Panetta è un tentativo di mediazione fra gli impegni presi dalla Casa Bianca e le richieste dei comandanti militari in Iraq, secondo i quali sarebbe opportuno mantenere almeno 14-15 mila soldati al duplice fine di addestrare gli iracheni e contrastare le infiltrazioni dell’Iran. Al momento in Iraq restano circa 50 mila soldati Usa e sarà dunque il presidente Barack Obama a decidere come procedere.
Il portavoce della Casa Bianca Jay Carney spiega: «Stiamo operando sulla base di un accordo raggiunto dal governo iracheno con la precedente Amministrazione per il ritiro delle forze e i negoziati con l’Iraq continuano per stabilire relazioni salde che dureranno nel futuro». La cautela è d’obbligo in quanto si tratta di un passaggio delicato che coincide con quanto sta avvenendo a Baghdad, dove il premier Nuri Al Maliki è stretto fra le pressioni dell’alleato di governo Moqtada Al Sadr, leader del partito sciita fortemente ostile alle truppe Usa, e le richieste dei partiti curdi e sunniti che invece auspicano una presenza militare Usa di lungo termine come garanzia di protezione dalla maggioranza sciita.
La scelta di Panetta di puntare su un contingente minimo si spiega con il fatto che gli Usa resteranno comunque in Iraq con la più grande ambasciata del mondo, un consistente numero di contractor civili arruolati dal Dipartimento di Stato per proteggere le attività dei diplomatici e un «Ufficio per la cooperazione di sicurezza» composto, sul modello di quanto avviene in Egitto, da centinaia di militari con mansioni civili. Senza contare che la Cia, ora guidata da David Petraeus, continuerà ad avere una forte presenza sul territorio d’intesa con l’intelligence irachena.
In tale cornice la necessità di mantenere dei militari si spiega con l’ordine firmato da Obama a fine agosto per chiedere alle forze armate di condurre «operazioni segrete in Iraq per ostacolare la penetrazione iraniana», in particolare la fornitura di armi di Teheran alle milizie sciite, incluse quelle che rispondono agli ordini di Moqtada Al Sadr. Durante l’estate infatti sono stati sequestrati ingenti quantitativi di esplosivi e componenti di ordigni sofisticati che i pasdaran iraniani avevano inviato alla guerriglia sciita.
Come riassume Antonhy Cordesman, analista del Centro di studi strategici internazionali di Washington, «Usa e Iran stanno cercando di tutelare i propri interessi in un Medio Oriente scosso dalla Primavera araba e dunque per Barack Obama è di importanza strategica contenere la penetrazione dell’Iran in Iraq». Anche al Congresso di Washington c’è fermento sull’Iraq. I senatori repubblicani John McCain e Lindsey Graham assieme all’indipendente Joe Lieberman premono affinché il numero di soldati che rimarranno sia «più alto» di quello indicato dal piano di Leon Panetta. Ma nessuna decisione è stata ancora adottata dal presidente.
La STAMPA - Joseph Nye : " Ma la guerra al terrorismo ha danneggiato l’America "

Joseph Nye
Joseph Nye, ex assistente del segretario alla difesa Usa, professore ad Harverd.
Stati Uniti e guerra al terrorismo. Ecco il commento di Joseph Nye al riguardo : " per l’America, forse la lezione più importante dell’11 settembre è che la politica estera degli Stati Uniti dovrebbe seguire il consiglio dato mezzo secolo fa dal presidente Dwight Eisenhower: non farsi coinvolgere in guerre d’ occupazione e concentrarsi sul mantenimento del potere dell’economia americana.". Al Qaeda fa attentati? Pazienza, gli Usa si lascino colpire senza reagire. Meglio concentrarsi sul mantenimento del potere dell'economia. A che cosa serve un'economia solida, se poi fondamentalisti islamici cercano di distruggerti e ci riescono perchè non ti difendi, non è ben chiaro.
Ecco l'articolo:
L’ attacco di Al Qaeda contro gli Stati Uniti dieci anni fa fu uno shock profondo sia per l’opinione pubblica americana sia per quella internazionale. Quali lezioni ne possiamo trarre un decennio più tardi?
Chiunque prenda un aereo o cerchi di visitare un ufficio a Washington è costretto a rammentare che la sicurezza americana è cambiata. Ma, se la preoccupazione per il terrorismo è maggiore e le restrizioni all’immigrazione sono più severe, l’isteria dei primi giorni dopo l’11/9 è diminuita. Nuove agenzie, come il Department of Homeland Security, il direttore della National Intelligence, e un aggiornato Centro antiterrorismo non hanno trasformato il governo americano e, per la maggior parte degli americani, le libertà personali sono state poco toccate.
Nessun altro attacco su larga scala si è verificato all’interno degli Stati Uniti, e la vita quotidiana è ripresa la «privatizzazione della guerra». Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti erano stati ancora più vulnerabili, in termini tecnologici, a un attacco nucleare dalla Russia, ma la «distruzione reciproca assicurata» impediva il peggio, mantenendo la vulnerabilità più o meno simmetrica. La Russia controllava una grande forza, ma non poteva acquisire potere sugli Usa grazie al suo arsenale.
Due asimmetrie, tuttavia, favorirono Al Qaeda nel settembre 2001. In primo luogo un’asimmetria informativa. I terroristi avevano buone informazioni sui loro obiettivi, mentre gli Stati Uniti prima dell’11 settembre avevano informazioni carenti circa l’identità e l’ubicazione delle reti terroristiche. Alcuni rapporti di governo avevano anticipato la misura in cui attori non statali avrebbero potuto danneggiare grandi stati, ma le loro conclusioni non erano state integrate nei piani ufficiali. agenzie avevano raccolto.
Ma le asimmetrie informative e di attenzione non conferiscono un vantaggio permanente su chi esercita la violenza informale. A dire il vero, non esiste una cosa come la sicurezza perfetta, e, storicamente ci è voluta una generazione per reprimere le ondate di terrorismo. Anche così, l’eliminazione dei leader di Al Qaeda, il rafforzamento dei servizi segreti americani, i controlli più stretti alle frontiere e una maggiore cooperazione tra l’FBI e la CIA hanno chiaramente reso gli Stati Uniti (e i loro alleati) più sicuri.
Ma ci sono lezioni più importanti che l’11 settembre ci insegna circa il ruolo della narrazione e del potere di persuasione nell’era dell’informazione. Tradizionalmente, gli analisti presumevano che la vittoria andasse a chi aveva l’esercito migliore o maggior forza; nell’era dell’informazione, il risultato è influenzato anche da chi ha la storia migliore. E’ una comUniti, come sperava, ma è riuscito a dominare l’agenda mondiale per un decennio e l’inettitudine dell’iniziale reazione americana ha significato poter imporre agli Stati Uniti costi più alti del necessario.
Il presidente George W. Bush ha commesso un errore tattico dichiarando «la guerra globale al terrorismo». Avrebbe fatto meglio a inquadrare la decisione come una risposta ad Al Qaeda, che aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti. La guerra globale al terrorismo è stata mal interpretata per giustificare una grande varietà di azioni, tra cui la guerra all’Iraq, costosa e sbagliata, che ha danneggiato l’immagine dell’America. Inoltre, molti musulmani hanno frainteso il termine considerandolo come un attacco all’Islam, cosa che non era nelle intenzioni degli Stati Uniti, ma andava nel senso degli sforzi di Bin Laden per gettare un’ombra sulla percezione degli Stati Uniti nei principali paesi musulmani.
Nella misura in cui il trilione o più di dollari di spese di guerra non finanziate ha contribuito al deficit di bilancio che affligge gli Stati Uniti oggi, Bin Laden è stato in grado di danneggiare il potere dissuasivo americano. E il vero prezzo dell’11 settembre possono essere i costi dell’opportunità: per la maggior parte del primo decennio di questo secolo, mentre l’economia mondiale gradualmente spostava il suo baricentro verso l’Asia, gli Stati Uniti erano preoccupati per aver voluto una guerra sbagliata in Medio Oriente.
Una lezione chiave dell’11 settembre è che il potere militare è essenziale nella lotta a terroristi del calibro di Bin Laden, ma che il potere di persuasione delle idee e della legittimità è essenziale per conquistare i cuori e le menti delle popolazioni musulmane tradizionali da cui attinge Al Qaeda. Una strategia «intelligente» non ignora gli strumenti della diplomazia.
Ma, almeno per l’America, forse la lezione più importante dell’11 settembre è che la politica estera degli Stati Uniti dovrebbe seguire il consiglio dato mezzo secolo fa dal presidente Dwight Eisenhower: non farsi coinvolgere in guerre d’ occupazione e concentrarsi sul mantenimento del potere dell’economia americana.
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " L'Occidente e l'islam moderato insieme hanno fermato al Qaeda "
Bernard-Henri Lévy si è lasciato incantare dalla 'Primavera araba' e l'ha scambiata per qualcosa che non è, una rivoluzione democratica in mano ad islamici moderati. Sono i Fratelli Musulmani, islamici radicali, ad aver tratto il maggior profitto dalle rivolte arabe e il loro obiettivo non è un'alleanza con le democrazie occidentali. Basta vedere che cosa sta succedendo in Egitto, i rapporti con Israele, unica democrazia mediorientale, si stanno deteriorando a vista d'occhio.
Ecco l'articolo:

Bernard-Henri Lévy
Dieci anni dopo, a che punto siamo? Al Qaeda non è del tutto morta, certo. Dal Sahel allo Yemen, dalla Nigeria all'Uzbekistan, o nel Caucaso, il cancro terrorista non smette di fare metastasi. Anche i talebani, che in Afghanistan costituivano l'esercito di riserva più nutrito, progrediscono, ahimè, grazie all'annunciato ritiro degli occidentali. I gruppi della Jihad pachistani sui quali avevo svolto un'inchiesta nel 2002 e 2003, Jaish-e-Mohamed, Lashkar-e-Toiba e altri come Lashkar-e-Jhangvi, che si erano coalizzati al momento dell'uccisione del giornalista americano Daniel Pearl, continuano a prosperare, non solo nelle zone tribali del Paese, ma a Islamabad e a Karachi.
E non è detto che proprio ora, mentre scrivo queste righe, un nuovo Khaled Sheikh Mohammed, l'architetto dell'assalto contro le Torri Gemelle di New York nel 2001, non stia preparando un nuovo attacco, di diverso stile, una sorta di attacco-anniversario ugualmente cruento.
Resta il fatto che la tendenza di fondo, la vera, non è questa e, se facciamo un bilancio onesto degli ultimi dieci anni di lotta, all'interno e all'esterno del mondo arabo-musulmano, contro Al Qaeda e le sue succursali, è giocoforza constatare che gli assassini sono, se non allo sbando, perlomeno in serio regresso.
C'è la morte di Bin Laden che, malgrado quanto ci viene raccontato della struttura decentralizzata, autonoma, dell'organizzazione, ha inferto loro un colpo durissimo. C'è la questione pachistana che, lo ripeto, è lungi dall'essere risolta ma che viene finalmente posta, e questo, in un certo senso, era l'essenziale: che differenza con gli anni di Bush, quando ci si ostinava a trattare come uno Stato alleato, addirittura come uno Stato amico, il più canaglia degli Stati canaglia, quello che ospitava i cervelli dell'organizzazione, la base di Al Qaeda — le retrovie, le masse, la politica, l'ideologia, l'economia, la finanza.
C'è il lavoro dei grandi servizi segreti, occidentali e arabi, al cui proposito apprenderemo un giorno che, mano nella mano, hanno sventato, durante tutto il decennio trascorso, tentativi di replica della tragedia di cui oggi si commemorano, a New York e nel mondo, le quasi 3.000 vittime (compresi gli eroici pompieri della città).
C'è il mondo arabo-musulmano, le cui timidezze, se non le viltà, sono state sufficientemente fustigate per non rendere omaggio alla presa di coscienza di cui oggi è teatro. Presa di coscienza cominciata con i Facebooker di Tunisi e del Cairo quando hanno scoperto che esisteva un'altra soluzione, per i giovani del loro Paese, rispetto al faccia a faccia terrificante, e in fondo complice, fra dittatura e Jihad: quella che è stata chiamata «la primavera araba» cos'altro è, nell'ipotesi più pessimistica, se non la riduzione dello jihadismo al rango di un'ideologia qualunque, emarginata e, cosa ancora più importante, privata dell'aura di cui godeva quando pretendeva di appoggiarsi su tutti i prestigi congiunti della radicalità, dell'audacia e del monopolio dell'opposizione alle dittature in atto?
E questo è continuato con gli insorti di Bengasi quando hanno scoperto, con stupore, il volto di un Occidente che, secondo quanto si erano sentiti dire fin dalla culla, era buono solo a succhiar loro il sangue e che, all'improvviso, tendeva loro la mano, li salvava da un massacro annunciato e li aiutava a liberarsi da un giogo che si presumeva invincibile: ritengo che la guerra di Libia sia il primo colpo, un colpo probabilmente fatale, inferto all'idea di uno «scontro di civiltà» che, prima d'essere un'idea americana, fu l'idea dei folli di Dio e, a partire da lì, il terreno, l'humus, il cemento delle loro organizzazioni terroristiche. È d'altronde per tale ragione che ritengo questa guerra ormai vinta come una «antiguerra» irachena, il contrario di quella sorta di punizione collettiva, di replica, che voleva tra l'altro essere la guerra americana a Bagdad ed è ugualmente per tale ragione che la ritengo un evento storicamente decisivo.
Infine, e di conseguenza, c'è il fatto che quel che sopravvive dell'Internazionale del terrore somiglia sempre di più, agli occhi di coloro che bisognerebbe irreggimentare e sedurre, a quello che è sempre stata, ma in segreto: un'organizzazione criminale, una gang, che conta la maggior parte delle sue vittime fra i musulmani stessi e i cui padrini non hanno mai considerato l'Islam se non come un alibi, uno strumento di reclutamento e di potere, una copertura — si vergognino!
E questa lucidità nuova rappresenta un progresso decisivo, poiché una gang, per quanto possente essa sia, non può più ambire alla posizione magica di Grande Organizzazione che offre a popoli creduloni, intossicati di sottomissione, un progetto di civiltà alternativo...
Non dico che la partita sia finita. Ma dico che cambia natura. Che esistono i mezzi e, fin da ora, il coraggio, di condurre una battaglia, un'operazione di polizia planetaria che dovrà isolare, ancora e ancora, gli ultimi focolai del terrore: con i moderati del mondo arabo-musulmano alleati con gli occidentali. Al Qaeda ha perso.
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