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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
07.09.2011 Israele/Turchia, rapporti in rapida via di deterioramento
cronaca di Aldo Baquis. Commenti di Carlo Panella, Pio Pompa, Lucia Annunziata

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Aldo Baquis - Carlo Panella - Pio Pompa - Lucia Annunziata
Titolo: «L’angoscia degli israeliani: Siamo rimasti senza amici - La grandeur di Ankara - Per una volta che l’Onu ha dato ragione a Israele - I sogni neo-ottomani della Turchia»

Riportiamo dalla STAMPA dioggi, 07/09/2011, a pag. 20, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " L’angoscia degli israeliani: Siamo rimasti senza amici ", a pag. 1-41 l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo "I sogni neo-ottomani della Turchia ", preceduti dai nostri commenti. Dal FOGLIO, a pag. I, gli articoli di Carlo Panella e Pio Pompa titolati " La grandeur di Ankara " e " Per una volta che l’Onu ha dato ragione a Israele ".

Come ha dichiarato Israel Katz (frase riportata nell'articolo di Aldo Baquis) "Proprio i governi israeliani deboli si sono lasciati trascinare a conflitti ". Le scuse Israele dovrebbe riceverle sia da Turchia sia da Egitto, in quanto la legittima difesa è garantita dalle leggi internazionali, ed è l'unico modo per riportare a più miti consigli governi che appoggiano e promuovono iniziative terroristiche - la Turchia con la Mavi Marmara, l'Egitto coi suoi soldati in divisa lungo il confine tra Israele e Sinai. Abituati a ritenere che la forza paghi, Israele fa bene ad accontare i governi arabi.
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Aldo Baquis : " L’angoscia degli israeliani: Siamo rimasti senza amici "


Mavi Marmara

Il titolo dell'articolo è scorretto e disinformante. Il deterioramento dei rapporti fra Israele e Turchia non suscita angoscia fra gli israeliani, tanto più che non è una novità degli ultimi giorni.
Ecco l'articolo

Non inasprire gli animi con la Turchia»: questa la ferrea parola d’ordine che vincolava ieri i dirigenti israeliani, mentre da Ankara giungevano le eco della nuova sfuriata del premier Recep Tayyp Erdogan.

In mattinata era parso di comprendere che la Turchia volesse troncare - assieme con la cooperazione militare - anche i rapporti commerciali. Con un interscambio annuale di quasi quattro miliardi di dollari, la Borsa di Tel Aviv ha registrato un tonfo immediato. In seguito però il ministro turco del Commercio ha precisato che le parole di Erdogan erano state fraintese: gli affari fra privati cittadini, ha garantito, possono proseguire. E nella Associazione degli industriali israeliani si è sentito un profondo sospiro di sollievo. «La crisi politica con la Turchia era tangibile già nei mesi scorsi. Eppure i rapporti economici sono cresciuti del 25 per cento, rispetto al 2010», ha osservato Arye Zeid, presidente della Camera di commercio. «L’economia è più forte della politica».

Ma certo il futuro non appare roseo. «Non appena i furori saranno sbolliti, dovremo tornare a parlarci», ha stimato il ministro Dan Meridor (Likud) che nei mesi scorsi aveva cercato di concordare con la Turchia una dichiarazione israeliana di rammarico per la cruenta intercettazione della Marmara, la nave passeggeri diretta un anno fa verso Gaza. Ma Meridor si è trovato in minoranza nel suo governo.

«Abbiamo fatto bene a non scusarci», ha replicato il ministro Israel Katz (Likud). «I turchi volevano solo vederci in ginocchio. Le scuse non avrebbero migliorato la situazione». E se adesso, gli è stato chiesto, le navi da guerra turche mettessero alla prova il blocco navale israeliano di Gaza? «Non ci facciamo intimidire - ha replicato Katz -. Proprio i governi israeliani deboli si sono lasciati trascinare a conflitti»: allusione, velenosa, al governo di Ehud Olmert che condusse due operazioni militari. Una in Libano (2006) e l’altra a Gaza (2008-9), con il sostegno esterno del Likud.

Oggi l’orizzonte strategico è, per Israele, più cupo che mai. Il comandante delle retrovie teme ora un conflitto in grande stile: nel suo binocolo non c’è alcuna «primavera dei popoli arabi», bensì un «inverno dell’Islam radicale». Israele è rimasto quasi senza alleati regionali: con la Turchia la rottura è pressoché totale, l’Egitto di Mubarak appartiene al passato. E gli Stati Uniti? Hanno una pessima opinione del premier Benyamin Netanyahu. «È un vero ingrato», ha detto di lui di recente l’ex Segretario di stato Bill Gates. Gli Usa si sono prodigati molto per garantire le difese di Israele, ma il premier lo ha deluso. «Non comprende quanto sia pericoloso per Israele il suo isolamento». Parole che hanno irritato lo staff del premier: la politica di Netanyahu, ha replicato, gode di ampio sostegno: in Israele, e anche nel Congresso di Washington.

La partita con la Turchia è tutt’altro che chiusa. La prossima mina vagante è rappresentata dalle trivellazioni per la ricerca di gas naturale fra Israele e Cipro. Ankara ieri ha fatto notare che anche il settore turco di Cipro deve avere voce in capitolo. E la Marina militare turca è pronta a difendere, a spada tratta, gli interessi nazionali. Israele e Cipro sono avvertiti.

Il FOGLIO - Carlo Panella : " La grandeur di Ankara "


Carlo Panella

La sconfitta politica dei generali turchi quali garanti della laicità dello stato kemalista e la rottura delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele sono avvenute contemporaneamente. Non è un caso. Sono due passaggi chiave della strategia del gruppo dirigente dell’Akp, il partito di governo turco, guidato dal premier Recep Tayyip Erdogan, dal presidente Abdullah Gül e dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu. Gli obiettivi del piano dell’Akp sono ricollocare la Turchia sulla scena internazionale, distruggere i pilastri che garantivano la laicità dello stato e mettersi alla testa non soltanto della regione, ma dell’intero mondo islamico. Il tutto, s’intende, nell’assoluto rispetto delle regole formali e sostanziali della democrazia, contemperate (per la prima volta nella storia) in una visione islamista e shariatica della società. Quella dei leader dell’Akp è una strategia complessa, originale e spregiudicata. L’aspetto più interessante di questo progetto è la base sociale del partito di governo turco. Il triplice successo elettorale dell’Akp, che gli permette di controllare la maggioranza assoluta del Parlamento dal 2002, è un caso unico che non si basa soltanto sul voto di milioni di contadini di recente urbanizzazione, ma anche e soprattutto sulle cosiddette “tigri dell’Anatolia”. Oggi, infatti, l’islamismo democratico turco gode di una forza propulsiva che gli è stata garantita dal massiccio voto dei nuovi e moderni imprenditori. Sono spesso ex immigrati in Europa e garantiscono alla Turchia livelli altissimi di crescita del pil nei settori industriali più moderni, competitivi e integrati al mercato europeo e proiettati nell’industrializzazione dei paesi confinanti (in primis nel Kurdistan iracheno). Si tratta di un fenomeno inedito di rappresentanza politica dei ceti a vocazione islamica più moderni, favorito dal fallimento dei partiti laici. La loro incapacità di proposta politica, infatti, è all’origine del tracollo elettorale che ha tolto ai generali quell’indispensabile sponda parlamentare che gli avrebbe permesso di resistere agli attacchi dell’Akp. Questi partiti laici, sotto le leadership di Bülent Ecevit (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito repubblicano del popolo, abbreviato Chp, di orientamento socialdemocratico) e di Süleyman Demirel (Adalet Partisi, Partito della giustizia, conservatore) e dei loro successori, hanno rappresentato complessivamente oltre l’80 per cento degli elettori, fino al 2002. Ora, se si sommano i loro voti, si andrà a stento oltre il 20 per cento. Incrinare la laicità dello stato turco, rompere le relazioni diplomatiche con Israele, corteggiare Hamas – Erdogan ha di nuovo annunciato trionfante la sua imminente visita alla Striscia di Gaz –, dare spazio al regime degli ayatollah iraniani sono tutti passaggi di una strategia complessa che non ci si può limitare a definire “neo ottomana”, come molti fanno. La dottrina diplomatica dell’Akp non punta volgarmente a ripristinare un’egemonia materiale nella regione. Ankara vuole raggiungere un obiettivo più ambizioso: conquistare alla Turchia e all’Akp la leadership di tutto il mondo islamico, nella tormentata fase di crisi e fallimento di tutti i regimi consolidatisi con la Guerra fredda, da tutti gli “stan” dell’ex Urss, sino ai paesi arabi oggi sconvolti dalla “primavera araba”, in una prospettiva più ampia, che la dottrina elaborata da Davutoglu definisce di “profondità strategica”. Erdogan, Gül e Davutoglu sanno di avere forza sufficiente per proporre un “modello turco”: una società dalle forti caratterizzazioni islamiste, pienamente democratica e con un’energia economica eccellente (anche se non più al suo punto più alto), in grado di determinare, guidare o comunque condizionare la clamorosa “crisi di crescita” di tutti i paesi islamici nei prossimi decenni. E’ da queste basi che nasce la volontà di costruire un “partito turco” ovunque la crisi della leadership egiziana, incrociata alla debolezza di quella saudita, lascino aperti degli spazi (a cominciare, come s’è visto, dalla Palestina, centro della crisi regionale). E’ in questa chiave che Ankara ha scelto una politica di confronto politico frontale con Israele. A livello interno, la linea aggressiva nei confronti del governo di Gerusalemme ha reso necessaria l’eliminazione progressiva del potere politico e costituzionale dei generali kemalisti, fedeli all’ideale di una leadership regionale congiunta con Israele, unica altra democrazia laica della sponda sud del Mediterraneo. Erano stati infatti proprio i generali turchi che fanno parte del quadro di comando Nato a spingere, dopo la guerra del Golfo del 1991, verso un’alleanza vera e propria tra Ankara e Gerusalemme, formalizzata nel ’94 con la firma, da parte del premier Tansu Çiller, di un accordo militare turco-israeliano e di un Security and secrecy agreement (Ssa). Per tutti i paesi islamici, ovviamente, si era trattato di uno scandalo. In occasione del patto era stata rivelata l’esistenza di un accordo segreto, siglato negli anni Cinquanta da Turchia e Israele: il “Peripheral Pact”. Sottoscrivendo l’intesa, i due paesi alla periferia del confine sovietico, si univano in un patto di difesa comune dall’Urss e dai suoi alleati sovietici in terra araba (la Siria, l’Iraq baathista e l’Egitto nasseriano). L’alleanza era stata focale per il Mediterraneo durante tutta la Guerra fredda, iniziata di fatto nel 1952, quando Ankara – unico paese islamico sino al 1993 – capovolse il suo voto contrario alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (con cui, il 29 novembre 1947 si legittimò la nascita dello stato di Israele) e iniziò ad allacciare relazioni diplomatiche con Gerusalemme. Dal Ssa del 1994 era discesa la stretta collaborazione con il Mossad, volta a controllare i movimenti dei terroristi curdi e ad arginare Saddam Hussein in Iraq e Hafez el Assad in Siria. Era stata poi la volta dei contratti da svariati miliardi di dollari per la vendita dei carri armati M60 israeliani, di elicotteri anti guerriglia e di attrezzature per i caccia F-4 e F-5. Si era arrivati a reiterate manovre militari combinate e, nella primavera del 2003, alla dislocazione della flotta turca davanti alle coste israeliane per difendere lo stato ebraico da eventuali missili lanciati da Saddam Hussein. L’ottica, l’alveo e le prospettive dell’alleanza turco-israeliana si collocavano tutte dentro il contesto Nato e quindi dentro il presupposto di un’egemonia americana nella regione, peraltro non più bilanciata dal contrappeso sovietico. Ma la Turchia di Erdogan, con la sua forza economica, la sua disponibilità di ingenti capitali da investire all’estero, il suo know how, la sua forza militare e la sua crescente ideologia islamista ha ora deciso di avere la forza sufficiente a svincolarsi, dopo sessant’anni, dalla subordinazione agli interessi americani. Ecco allora, che proprio nel momento in cui Washington ha avuto più bisogno dell’appoggio politico-militare di Ankara, quando il Parlamento turco doveva autorizzare 62 mila militari americani ad attaccare l’Iraq di Saddam Hussein passando per il suolo turco, Erdogan e Gül hanno lasciato libertà di coscienza ai parlamentari dell’Akp. Risultato: novanta parlamentari dell’Akp votarono contro – nonostante i dieci miliardi di dollari offerti in dono da Washington – e le armate americane dovettero definire in fretta una nuova strategia di aggressione all’Iraq, tutta da sud. Era il primo marzo 2003, il giorno che sarà ricordato come l’inizio del processo di torsione della politica estera turca. In una prima fase, Erdogan sembrò addirittura consolidare i rapporti con Israele, grazie a nuovi contratti di forniture militari e alla firma nel 2004 di un contratto per la vendita a Gerusalemme di cinquanta milioni di metri cubi d’acqua trasportati via mare. Ma, dalla guerra con il Libano nel 2006, Erdogan si convinse che Israele, in realtà, aveva perso il suo smalto politico-militare e ormai non sapeva andare oltre a una difesa, spesso inefficiente, dello status quo. Il premier turco comprese anche che il declino del regime egiziano, di quello saudita e di quello siriano, la crisi interna a quello iraniano e le dinamiche interne a Hezbollah e Hamas gli aprivano spazi per fondare informali “partiti turchi” in aree di crisi fondamentali. E’ a questo punto che nasce l’idea di un’alleanza cinica e spregiudicata con Ismail Hanye, premier di Hamas a Gaza, intrapresa anche in funzione anti siriana e frondista nei confronti di Khaleed Meshaal, leader di Hamas esule a Damasco. E’ in questa chiave che, l’anno scorso, Ankara ha sponsorizzato la Freedom Flotilla guidata dall’Ihh, una Ong turca dalle palesi infiltrazioni terroristiche. Si spiegano così l’intransigenza verso Israele dopo i nove morti della Mavi Marmara e, nei giorni scorsi, la denuncia del rapporto Onu sull’incidente, che inchioda personalmente Erdogan, indirettamente accusato di avere favorito il tentativo di violazione dell’embargo israeliano a Gaza, che il rapporto Palmer considera del tutto legittimo e in linea con le leggi internazionali. Il pericoloso oltranzismo della nuova politica turca – favorito, va detto, da una miope gestione delle trattative da parte di Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri di Gerusalemme che tiene in ostaggio un Benjamin Netanyahu ben più malleabile e conscio del ruolo strategico del rapporto con Ankara – sta facendo precipitare l’area in un’ulteriore fase convulsa. E’ una politica scabrosa e dagli sviluppi incerti, che peraltro segnala l’incapacità americana (e di Barack Obama in particolare) di esercitare un’influenza in medio oriente. Obama ha chiesto più e più volte a Erdogan di ricucire con Israele, ma ha dovuto constatare che il peso delle sue pressioni è considerato ormai vicino allo zero. L’ultima rottura con Israele è avvenuta all’indomani della definitiva eliminazione di ogni potere politico rimasto ai generali turchi. Il 2 agosto, infatti, le dimissioni in massa del capo di stato maggiore Isik Kosaner, dei comandanti delle forze di terra, della marina militare e dell’aeronautica, in aperta polemica con Erdogan, hanno sancito la fine di quel ruolo di garanti della democrazia e della laicità che i generali turchi avevano svolto dal 1920 in poi. Quelle dimissioni, infatti, sono state la risposta (perdente) alla decisione provocatoria di Erdogan e di Gül, che avevano negato la promozione ai 14 generali e ufficiali attualmente incarcerati – ma ancora in attesa di giudizio – per Ergenekon, un tentativo di golpe la cui esistenza è del tutto dubbia. Quelle dimissioni hanno permesso a Erdogan di nominare un nuovo quartier generale composto soltanto da generali a lui fedeli, a partire dal nuovo comandante delle Forze armate Necdet Ozel e dal nuovo comandante dell’Esercito Hayri Kivrikoglu, dichiaratamente collocati in una posizione totalmente subordinata all’esecutivo, senza più aspirare alla difesa della laicità dello stato o all’indirizzo della politica di sicurezza o della politica estera. E’ interessante notare come questo tracollo del ruolo laicista e filo occidentale dei generali kemalisti sia stato favorito da un apporto incosciente dell’Unione europea, che ha preteso la distruzione del ruolo dei generali turchi, difensori quasi secolari della laicità dello stato. A fronte di una domanda di adesione all’Ue che la Turchia ha presentato da decenni, Bruxelles ha infatti preteso che il Parlamento di Ankara modificasse le istituzioni e la stessa Costituzione kemalista turca per avvicinarla ai “parametri di Copenaghen”. Ma quei parametri erano stati definiti dall’Ue nel 1993 per accompagnare la democratizzazione degli stati del Patto di Varsavia, paesi a economia socialista e a partito unico. Non tenevano minimamente in conto il problema specifico dell’intreccio inestricabile tra religione e stato, tra norma civile e sharia, tipici dell’islam contemporaneo. Lo ignoravano bellamente, così come non tenevano conto del ruolo positivo svolto dai generali turchi nella difesa sia della democrazia sia della laicità dello stato. Una funzione costituzionale non priva di elementi di “democrazia autoritaria” (ossimoro non raro in contesto islamico, come si vedrà nel prosieguo della “primavera araba”), soprattutto nei confronti della questione curda o del contrasto al terrorismo negli anni 70 e 80, che si è esplicata in ben tre “golpe democratici” (1960, 1980 e 1997) che hanno sempre visto i generali rientrare nelle caserme dopo pochi mesi, riconsegnando tutto il potere alle istituzioni rappresentative. E’ stato l’esercito a fare della Turchia l’unico paese islamico al mondo con una democrazia matura e consolidata. Gli stessi Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gül, erano stati sostanzialmente costretti ad abbandonare le posizioni islamiste (dei Fratelli Musulmani) proprio da un “golpe silenzioso” dei generali turchi. Nel 1997, infatti, il Consiglio di difesa controllato – secondo Costituzione – dai generali turchi aveva deposto con l’accusa di sovversione della laicità dello stato il premier fondamentalista Necmettin Erbakan, leader del Refah Partisi (Rp, Partito della prosperità), di cui Tayyip Erdogan (allora sindaco di Istanbul) e Abdullah Gül erano esponenti di primissimo piano. Preso atto dell’esistenza di quell’insuperabile argine all’islamismo, Erdogan e Gül si erano staccati (non senza polemiche) da Erbakan per fondare un partito più moderato e moderno: l’Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito per la giustizia e lo sviluppo), con una base sociale molto più larga, soprattutto tra i nuovi ceti imprenditoriali dell’Anatolia, che ha garantito a Erdogan la vittoria alle elezioni nel 2002, nel 2007 e nel 2011. Nel 2010, Erdogan – ben lieto di impiegare la pressione europea contro le Forze armate turche – è riuscito a varare una riforma della Costituzione che ha tolto tutto, assolutamente tutto il potere politico ai generali. La Costituzione kemalista, infatti, attribuiva ai generali un potere politico sovraordinato a Parlamento, governo e presidente, permettendogli di fatto di controllare il Consiglio supremo militare (Yafl). Le direttive di questo Consiglio interessavano infatti la difesa nazionale in senso lato, sconfinando regolarmente nella gestione di ogni ministero. Si era addirittura consolidata una prassi per cui erano i generali dello stato maggiore a nominare il ministro della Difesa e non viceversa. Ma il ruolo più rilevante che questo Consiglio ha sempre svolto, e per cui è stato fondato nel 1950, era – il passato è d’obbligo – la rigida difesa della laicità dello stato. Una legge della Costituzione kemalista varata a suo tempo dallo Yafl imponeva la proibizione del velo (il semplice foulard sui capelli) nelle università e negli uffici pubblici. Un simbolo decisivo, tanto che leader storici come Demirel tuonavano, dopo la prima elezione di Erdogan – nel 2002 non aveva potuto presentarsi per aver pronunciato la frase: “I minareti saranno le nostre baionette” –, contro l’ipotesi di una sua elezione (per via parlamentare) a presidente della Repubblica, soltanto a causa del fatto che sua moglie Emine era solita portare il velo. Lo stesso potente generale Aslan Güner, che era candidato a diventare comandante delle forze di terra, prima delle dimissioni in massa del 2 agosto 2011 (ha dovuto accontentarsi dell’Accademia militare) si è sempre clamorosamente rifiutato di stringere la mano in pubblico ad Hayrunissa Gül, moglie del presidente, proprio a causa del suo velo. Grazie a un’Europa ignava, convinta a torto della universalità del “modello Montesquieu”, incapace di comprendere la sua inadeguatezza in contesto islamico, Erdogan ha dunque portato a termine la sistematica eliminazione del potere politico dei generali turchi, confermato poi da un più che confortante 58 per cento dei suffragi a favore del referendum confermativo del 2 febbraio scorso. Ma Erdogan e l’Akp non si sono limitati a lavorare in sede istituzionale per erodere il potere politico e la difesa della laicità dello stato dei generali. Da alcuni anni, su stimolo del governo islamista e dei media da esso controllati, il settore della magistratura organico al governo ha infatti incarcerato alcuni generali e decine di ufficiali, accusati di essere membri delle associazioni segrete Ergenekon e Macbeth e di avere complottato per abbattere con la forza il governo dell’Akp. Le prove sono più che inconsistenti e la persecuzione politica è più che evidente, come testimoniano anche osservatori turchi neutrali. Ma la lotta è precipitata infine nella vera e propria crisi istituzionale del 2 agosto scorso. Non è un caso se l’ultimo episodio del braccio di ferro tra Akp e generali kemalisti si è svolto proprio a proposito dei militari incarcerati per il tentato golpe Ergenekon. Non è un caso se, subito dopo la loro formalizzazione della sconfitta dei generali, Erdogan ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Israele.

Il FOGLIO - Pio Pompa : " Per una volta che l’Onu ha dato ragione a Israele "


Pio Pompa

Roma. Secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche di alto livello, dietro la crisi tra Turchia e Israele – culminata con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano dalla capitale turca e il congelamento degli accordi militari con Gerusalemme – si celerebbero risvolti che fanno temere per gli equilibri mediorientali. Preoccupa il fatto che la decisione turca di espellere l’ambasciatore israeliano presso Ankara sarebbe stata sottoposta preventivamente, tramite canali diplomatici e di intelligence, al vaglio dell’Amministrazione americana e di alcuni governi europei (tra i quali si citano Gran Bretagna, Francia e Germania). Le controparti occidentali, informate della decisione che Ankara stava per prendere, hanno dato il loro tacito assenso. I paesi consultati si sarebbero limitati a eventuali reazioni di facciata, confidando in una veloce composizione del contenzioso turco-israeliano e in un pronto ritorno al dialogo tra i due paesi. Sia il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, che il suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, sarebbero venuti a conoscenza con ampio anticipo sia del contenuto del rapporto delle Nazioni Unite sul blitz a bordo della Mavi Marmara sia delle sue conclusioni, che hanno ritenuto eccessivamente favorevoli a Israele. I due sono stati informati per tempo anche delle reali finalità del rapporto della commissione d’inchiesta presieduta dall’ex premier neozelandese Geoffrey Palmer. Con il rapporto sul blitz del 31 maggio 2010, sostengono le fonti diplomatiche, gli ufficiali del Palazzo di vetro intenderebbero stemperare le riserve dello stato d’Israele nei confronti dell’Onu. Il governo di Benjamin Netanyahu sospetta infatti che le Nazioni Unite sostengano, attraverso contatti diplomatici riservati, la richiesta di riconoscimento che la Palestina presenterà con ogni probabilità il 20 settembre all’Assemblea generale (e non al Consiglio di sicurezza dove si scontrerebbe con il veto annunciato dagli Stati Uniti). In quella sede, anche gli Stati Uniti potrebbero seguire una linea astensionista, qualora i palestinesi si impegnassero, ottenuta l’indipendenza, a riaprire i negoziati con Israele. Nella lettura che ne danno le fonti diplomatiche, le conclusioni della commissione guidata da Palmer rappresenterebbero anche una sorta di monito per l’intera galassia delle Ong filopalestinesi: astenetevi da qualsiasi iniziativa che, da qui al 20 settembre, possa turbare il cammino verso il quasi certo riconoscimento dell’indipendenza della Palestina. A quel punto l’isolamento del governo israeliano sarà del tutto completo, con la complicità silenziosa degli stati che si apprestano a celebrare il decennale dell’attentato alle Torri gemelle ritrovandosi schierati, in Libia e non solo, di fianco agli islamisti che vogliono la distruzione dello stato d’Israele.

La STAMPA - Lucia Annunziata : " I sogni neo-ottomani della Turchia "


Lucia Annunziata

Lucia Annunziata ha le idee confuse circa la capitale di Israele, nelle prime righe dell'articolo scrive "viene tagliato il più importante cordone ombelicale fra Gerusalemme ed Ankara", corretto dall'espressione "Ieri poi con la rottura ufficiale con il governo di Tel Aviv " verso la fine dell'articolo.
La capitale di Israele è Gerusalemme, non Tel Aviv, perciò non esiste nessun governo di Tel Aviv. Speriamo, con questo, di aver fatto chiarezza nella confusione di Lucia Annunziata. Ecco l'articolo:

La Turchia sogna una era «neo-Ottomana», il rilancio della sua influenza sugli ampi ex confini dell’Impero della Porta.

Il momento è favorevole. La partita dalle rivoluzioni popolari ha riaperto il Grande Gioco mediorientale, ed Ankara ha deciso di parteciparvi sacrificando i suoi tradizionali buoni rapporti con Israele per conquistare popolarità nelle piazze arabe. Da ieri dunque abbiamo una Ankara meno «pro-occidentale» e più musulmana. Ma attenti al gioco di specchi: non è detto infatti che un ruolo forte della Turchia nella regione non sia utile, e dunque voluto e incoraggiato, anche dai Paesi occidentali.

La mossa di Erdogan non ha sorpreso nessuno. Era in preparazione da almeno un anno, e infatti, al di sotto dell’impetuoso scambio di epiteti, è stata accuratamente preparata. La dichiarazione di rottura è curiosamente precisa: «Sono sospese tutte le relazioni commerciali e militari relative all’industria della difesa. Seguiranno altre misure». La precisione (che è peraltro un tratto nazionale turco) serve a far ben capire al mondo arabo che viene tagliato il più importante cordone ombelicale fra Gerusalemme ed Ankara: la massiccia cooperazione nell’industria della difesa. Pochi vi hanno fatto attenzione ma, nei passati venti anni, Israele e la Turchia hanno costruito insieme tonnellate di equipaggiamento militare. Per l’esercito turco Israele ha adattato e migliorato i jet e i carri armati di origine americana, ed ha costruito (e appena consegnato) 10 droni, aerei senza pilota, importantissimi come aerei sorveglianza nella guerra ai curdi. La Turchia a sua volta ha assemblato nelle sue industrie buona parte dei veicoli di terra blindati, essenziali per Israele nelle molte invasioni e operazioni di sfondamento in Libano e negli ex Territori.

Un intreccio delicatissimo e senza precedenti fra un Paese musulmano e la nazione ebraica. Un legame legittimato però dal ruolo di appoggio operativo, sia politico che militare, che la Turchia ha espletato in questi ultimi 30 anni per l’Occidente nel mondo arabo. In tutte le ultime guerre mediorientali in un modo o nell’altro – ad esempio, facendo passare l’equipaggiamento delle truppe di terra dirette verso l’Iraq – ha costituito una fondamentale «spalla» per gli Stati Uniti. Ed è su questa funzione di ponte, di «mediazione» fra Oriente e Occidente, che la Turchia, Paese musulmano ma non arabo, ha costruito la sua diversità nonché la sua ambizione ad entrare in Europa. Dieci anni di quasi ininterrotto sviluppo economico, e quasi altrettanti di una nuova leadership politica che ha lentamente messo all’angolo il potere dei militari, hanno legittimato queste ambizioni e ne hanno fatto uno dei successi della storia mediterranea.

Poi sono arrivate le rivolte popolari arabe e il gioco di tutti è cambiato di nuovo: l’effetto domino della caduta di vari governi, la resistenza di molti altri, la incertezza di sbocco dei vari esperimenti rivoluzionari, hanno creato in Medioriente un vuoto politico spaventoso, accentuato dalla distrazione politica dell’Occidente dovuta alla crisi economica. E il vuoto è la condizione perfetta per creare altri poteri o altre guerre. L’Iran sta facendo la sua partita, come sappiamo, attraverso molte piazze arabe. L’Arabia Saudita tradizionale nemico dell’Iran, ha deciso di rispondere attivando una alleanza delle case reali sunnite, come fronte antisciita. La crisi siriana ha poi accelerato questi protagonismi, e lo scontro per la supremazia. Per la Turchia rimanere fuori da questa sfida ora significava sperperare il vantaggio di influenza maturato in questi anni, e recedere nella sua particolarità. Si è fatta così avanti, già dall’anno scorso, mettendo in discussione, con l’aiuto alla flotta pacifista, i suoi legami con Israele. Ieri poi con la rottura ufficiale con il governo di Tel Aviv, che gli ha immediatamente procurato un grande favore popolare, ha consacrato ufficialmente la sua voglia di competere per la leadership del mondo arabo.

Dobbiamo ora temere una deriva musulmana radicale anche dei turchi? Molti diranno di sì – ma chi lo dice non conosce bene la sottigliezza della identità della Turchia, la furbizia dei suoi governanti, e l’infinito realismo ereditato da secoli di vecchio Impero. E’ molto molto probabile, dunque, che la corsa per «crescere» in Medioriente Ankara poi continuerà a giocarsela, di ritorno, come partita di scambio sui soliti tavoli dell’Occidente.

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