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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
06.09.2011 Lasciarsi incantare dalla 'primavera araba' e scambiarla per democrazia
Ci sono riusciti Vittorio Emanuele Parsi e Roberto Esposito

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Vittorio Emanuele Parsi - Roberto Esposito
Titolo: «L’inizio della fine della jihad - I dieci anni che hanno sconvolto il mondo»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/09/2011, a pag.1-14, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " L’inizio della fine della jihad ". Da REPUBBLICA, a pag. 29, l'articolo di Roberto Esposito dal titolo " I dieci anni che hanno sconvolto il mondo ".

La migliore risposta agli articoli di Parsi ed Esposito è contenuta nel commento di Giuliano Ferrara, pubblicato in altra pagina della rassegna. Per leggerlo cliccare sul link sottostante
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=41304

Ecco i due articoli, preceduti dai nostri commenti:

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " L’inizio della fine della jihad "


Vittorio Emanuele Parsi

Purtroppo anche Vittorio Emanuele Parsi si è lasciato ingannare dalla 'primavera araba'. Secondo lui, infatti "confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano ". Non è ben chiaro il motivo, i Fratelli Musulmani hanno legami con Hamas, ne approvano la politica terrorista. Il fatto che, per il momento, non abbiano compiuto attentati non significa che non ne faranno mai in futuro.
Parsi scrive : "
Evidentemente compiere strage di civili innocenti per uccidere alcuni «riservisti» di Tsahal (così come per assassinare un fedayn palestinese) è un atto criminale e inaccettabile. Ma definire tutto ciò jihadismo o persino terrorismo islamista non è di nessuna utilità e arreca solo confusione ". Un attentato terroristico compiuto da fondamentalisti islamici contro una democrazia occidentale in che altro modo può essere definito se non 'terrorismo islamista'?
Ecco l'articolo:

Pochi fatti come gli attentati dell’11 settembre e pochi personaggi come Osama Bin Laden sono stati in grado di conquistarsi una fama, per quanto sinistra, altrettanto planetaria da essere immediatamente associati da chiunque nel mondo all'idea stessa di jihadismo e al terrorismo di matrice islamista. Un’associazione talmente stretta da averci fatto sovrapporre totalmente terrorismo e jihadismo al radicalismo islamista nel suo complesso. Difficile che potesse andare diversamente, d’altronde, se proprio in conseguenza dell’incubo che si materializzò in diretta tv, in una soleggiata mattina della costa atlantica degli Stati Uniti, abbiamo vissuto per quasi un decennio l'era della «war on terror», concretizzatasi nella decisione americana di combattere due guerre in terre musulmane.

Di questi 10 anni di conflitto sono stati fatti tanti bilanci, tutti di necessità ancora provvisori, e però quasi tutti immancabilmente critici.

Troppe vite sono andate perdute e molti degli obiettivi politici che gli interventi militari si proponevano non sono stati raggiunti. È opinione diffusa che, almeno in parte, proprio la presenza militare occidentale in Afghanistan e Iraq abbia concorso ad alimentare il jihadismo e a rinfoltirne le file. Lo si è detto in particolare del conflitto iracheno, ingiustificabile rispetto ai fatti dell’11 settembre.

Eppure, proprio la guerra in Iraq, rapidamente degenerata in un'insorgenza di vaste proporzioni contro l'occupazione americana e in una feroce guerra civile tra sciiti e sunniti, ha contribuito ad alienare ai jihadisti molte delle simpatie di cui inizialmente godevano. Così è successo a mano a mano che gli adepti di Bin Laden ammazzavano un numero crescente di musulmani a fronte dei «crociati» uccisi. Parafrasando Gilles Kepel, «la fitna ha preso il posto della jihad», cioè il conflitto intra-islamico per la purificazione della società ha sostituito gradualmente la lotta contro gli infedeli. Se oggi ci chiediamo che cosa resti del jihadismo globale e soprattutto della sua manifestazione più inquietante per noi, il terrorismo globale di matrice islamista, la risposta è ben poco.

Per evitare di montarci la testa occorre subito precisare che un simile risultato non è stato raggiunto per merito nostro, ma semmai nonostante i nostri errori. Sono state le rivoluzioni arabe di quest’anno a sottrarre terreno al terrorismo jihadista, grazie alla loro capacità di ridare speranza alle fin qui disperate masse arabe e a borghesie politicamente alienate, conseguendo il risultato di rovesciare despoti corrotti o regimi privi di legittimazione attraverso la lotta politica pubblica: talvolta ricorrendo alla forza delle armi, ma rifiutando la logica della clandestinità e degli atti dimostrativi violentemente spettacolari.

Può ben darsi che a novembre, in Egitto, i Fratelli musulmani vincano le elezioni, come era accaduto con Hamas a Gaza, o che lo stesso accada in Tunisia o magari in Libia. Ma confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano che a Washington è costato e sta costando carissimo in termini politici.

Diverso è il discorso sulla tenuta del jihadisno per quanto riguarda i fronti di guerra ancora aperti con l’Occidente (come l’Afghanistan) e i Paesi coinvolti in questi conflitti (come il Pakistan). Lì, proprio la presenza militare occidentale e l'elevato numero di «vittime collaterali» della nostra guerra tecnologica continua a produrre reclute per il jihadismo, che spesso è però la coloritura prevalente della lotta contro la presenza straniera, interpretata da molti come una occupazione militare.

Altra cosa ancora è quella legata all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, dove lo jihadismo è solo l’ultima forma assunta da una lotta di liberazione nazionale andata sempre frustrata, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Evidentemente compiere strage di civili innocenti per uccidere alcuni «riservisti» di Tsahal (così come per assassinare un fedayn palestinese) è un atto criminale e inaccettabile. Ma definire tutto ciò jihadismo o persino terrorismo islamista non è di nessuna utilità e arreca solo confusione.

Un’avvertenza, quest’ultima, da tenere bene a mente nell’eventualità che movimenti politici di ispirazione islamista possano vincere le prossime elezioni in Egitto o Tunisia, per evitare di incorrere nello stesso errore che già abbiamo commesso in Algeria e a Gaza, di non riconoscere un risultato perché non era quello da noi auspicato. A meno che non si voglia contribuire a ridare linfa a una pianta che il vento della Primavera araba sta decisamente seccando.

La REPUBBLICA - Roberto Esposito : "I dieci anni che hanno sconvolto il mondo"


Roberto Esposito

Roberto Esposito scrive : "il terrorismo non ha potuto vantare grandi vittorie strategiche. Ciò è stato reso possibile da molteplici fattori, primo dei quali il passaggio dall´amministrazione Bush a quella di Obama – e cioè dall´abbandono di un politica fondata sulla tesi dello scontro di civiltà a favore di un´altra più rispettosa delle differenze tra culture e sistemi di valori diversi.". Nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che non ci sia uno scontro di civiltà non è una strategia vincente. In ogni caso Barack Obama ha continuato la politica di Bush della lotta al terrorismo. Il disimpegno dall'Iraq era già stato stabilito da Bush. Ed è Obama ad aver intensificato lo sforzo bellico in Afghanistan.
Esposito scrive sul multiculturalismo : "
si può ancora, e anzi si deve, lavorare ad un miglioramento progressivo dei rapporti con le comunità locali, in un orizzonte più aperto anche dagli esiti complessivamente positivi della ‘primavera araba´.". Anche Esposito, come Parsi, si è lasciato ingannare dalla 'primavera araba', che non ha nulla di democratico. La situazione in Tunisia ed Egitto è evidente, le 'rivoluzioni' hanno portato all'ascesa dei Fratelli Musulmani, non della democrazia.
Ecco l'articolo:

I dieci anni che separano l´11 settembre 2001 dal settembre 2011 hanno costituito una prova durissima per l´Occidente. Certo, nel secolo scorso esso era stato sul punto di soccombere ed aveva trovato la forza di rialzarsi, prima con la vittoria sul nazismo e poi con l´abbattimento del muro di Berlino, che ha consentito la riunificazione dell´Europa e l´implosione del blocco sovietico. Ma questo decennio ha posto l´Occidente di fronte a due sfide nuove, altrettanto insidiose. Innanzitutto quella venuta dal terrorismo fondamentalista, che gli ha dichiarato una guerra difficile da combattere per l´assenza di un fronte e l´invisibilità del nemico. Essa è ancora lontana dall´essere vinta, ma non c´è dubbio che, pur tra tragici errori come l´invasione dell´Iraq, nel complesso l´Occidente ha tenuto. Non solo per la cattura dei principali avversari, che proprio quest´anno ha decapitato Al Qaeda, ma soprattutto perché è riuscito a difendere senza troppi danni i propri standard democratici.
È vero che anche in questo caso ci sono state eccezioni – non solo Abu Ghraib, ma le violenze, gratuite e inaccettabili, che non sono mancate anche altrove. Ed è vero che alcuni sistemi di sicurezza messi in atto nei punti sensibili, soprattutto in America, possono risultare talvolta invasivi rispetto alla privacy. Ma resta il fatto che, per ora, il terrorismo non ha potuto vantare grandi vittorie strategiche. Ciò è stato reso possibile da molteplici fattori, primo dei quali il passaggio dall´amministrazione Bush a quella di Obama – e cioè dall´abbandono di un politica fondata sulla tesi dello scontro di civiltà a favore di un´altra più rispettosa delle differenze tra culture e sistemi di valori diversi. Certo, le rivolte a sfondo etnico che hanno acceso le periferie di Parigi e Londra segnalano che il problema non è affatto risolto, che un punto di equilibrio accettabile tra integrazione ed opzione multiculturale non è stato ancora trovato, ma certamente si può ancora, e anzi si deve, lavorare ad un miglioramento progressivo dei rapporti con le comunità locali, in un orizzonte più aperto anche dagli esiti complessivamente positivi della ‘primavera araba´.
Il vero problema dell´Occidente, come si è manifestato in questa lunga e terribile crisi economica, è però quello del rapporto con se stesso. Con la propria identità e con il proprio modello di sviluppo. Più ancora, con la propria forma di vita. Anche in questo caso, nel suo insieme – rispetto alla crisi economica sfumano le distanze tra Europa ed America precedentemente emerse su questioni di politica estera –, l´Occidente si confronta con potenze esterne, soprattutto quelle asiatiche. E non c´è dubbio che da questo confronto esso risulterà trasformato. Ma bisogna vedere in quale direzione. Se cercherà di inseguire, o peggio imitare, le economie emergenti sul loro terreno – abbassando il costo, e peggiorando le condizioni, del lavoro fino a livelli insostenibili per la propria idea di civiltà, oppure se affronterà la sfida senza perdere l´anima, custodendo le conquiste socio-culturali scaturite da decenni di democrazia.
Ma custodire quei valori democratici e sociali non significa lasciare le cose come stanno. Anzi ciò è possibile solo intervenendo, anche drasticamente, su quei modelli e stili di comportamento che hanno generato questa pesantissima situazione che viviamo. Innanzitutto lo schiacciamento dello sguardo al futuro sulla richiesta del consumo immediato. È quello che gli psicanalisti chiamano il cedimento dell´ordine del desiderio – sempre portato a oltrepassare la linea del presente in vista di un investimento futuro – all´imperativo del godimento. Naturalmente la crisi economica ha una serie di cause tecniche analizzate in questi mesi dagli economisti, al fondo delle quali vi è un crescente scollamento della finanza rispetto all´economia reale. Ma qui mi riferisco a qualcosa di più ampio e generale, in cui anche questo fenomeno patologico trova le proprie radici. Si tratta, appunto, della spinta ossessiva al consumo e dunque alla distruzione di ciò di cui si vuole godere in maniera illimitata – sia esso costituito da oggetti, da una parte di natura o anche, talvolta, dalla dignità di altre persone.
Lo stesso rapporto tra generazioni – ormai contrapposte nella ricerca della salvezza dalla disoccupazione, ma anche da una dissoluzione dei progetti di vita – appare risucchiato in questo meccanismo distruttivo. Esse non si confrontano – o anche affrontano – come è giusto che sia, in ordine all´innovazione, come ancora avvenne alla fine degli anni Sessanta, ma in ordine all´autoconservazione, se non alla pura sopravvivenza sul piano dei bisogni materiali. Anche da questo lato sembra mancare quello sguardo lungo che consente di fare sacrifici a favore di coloro che verranno senza travolgere i mondi vitali dei loro padri. Se non si acquista questa consapevolezza – relativa al rapporto tra presente e storia, ma anche a quello tra politica e vita – l´Occidente perderà in casa propria la partita che finora non ha perso nel confronti delle minacce esterne.

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