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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Giornale Rassegna Stampa
02.09.2011 Shoah è l'unico termine corretto per riferirsi al genocidio degli ebrei
e la polemica con Grass è esagerata. Commenti di Mordechay Lewy, Giorgio Israel

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale
Autore: Mordechay Lewy - Giorgio Israel
Titolo: «Ecco perché il termine 'Shoah' richiama l'unicità di quell'evento - Grass è ambiguo, ma la Shoah non è unica»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/09/2011, a pag. 21, l'articolo di Mordechay Lewy dal titolo " Ecco perché il termine 'Shoah' richiama l'unicità di quell'evento ". Dal GIORNALE, a pag. 28, l'articolo di Giorgio Israel dal titolo " Grass è ambiguo, ma la Shoah non è unica ".

CORRIERE della SERA - Mordechay Lewy : " Ecco perché il termine 'Shoah' richiama l'unicità di quell'evento "


Mordechay Lewy

Durante un incontro tra diplomatici israeliani un mio anziano collega disse che il ricordo della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da banalità e strumentalizzazioni. Nonostante ciò, coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico, unico nel suo genere, è una necessità. Con il trascorrere del tempo, i sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire. I primi anni '50 furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e degli aguzzini, un silenzio che si ruppe con il processo Eichmann che portò a una nuova riflessione sulla Shoah fra i membri della seconda generazione - sia delle vittime sia degli aguzzini. Si iniziò a promuovere la cultura della memoria. La Shoah doveva essere spiegata alle generazioni più giovani e si ritenne che si potesse mantenere viva grazie alla ripetizione. Ma si aprì anche la strada alla banalizzazione. Poiché per correttezza politica si usava il termine «olocausto» per descrivere il male estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a richiamare l'attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto da pagare è stato il venir meno dell'unicità della Shoah e della sua memoria. Il termine greco «olocausto», letteralmente «offerta interamente bruciata», nella Bibbia (Ger 19,4-5) indica i sacrifici umani alle divinità infernali. La stessa definizione viene data dall'Encyclopedie di Diderot. D'altra parte, a New York, nel 1932, la pubblicità di una svendita annunciava che tappeti orientali erano oggetto di un «grande olocausto del prezzo». Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio nazista degli ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un editoriale del Jewish Frontier. Tuttavia, anche dopo il 1945, non è mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti, fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto della catastrofe nucleare.
Il termine «olocausto» per indicare lo sterminio degli ebrei era dunque usato raramente e sempre insieme all'aggettivo «ebraico». Nel 1978 la serie televisiva statunitense «Holocaust» fu trasmessa in tutto il mondo occidentale legando così il termine allo sterminio ebraico.
Sono numerosi i motivi per cui è divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l'evento, unico nel suo genere, dell'uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre un'alternativa ai significati imprecisi del termine «olocausto». L'unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la propria memoria nella loro lingua ebraica. Probabilmente dobbiamo questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann che, nel 1985, ha intitolato il suo documentario di nove ore proprio «Shoah». Ciò ha reso internazionalmente nota questa parola ebraica. Gli ebrei hanno sviluppato una sensibilità all'uso di questo termine, ritualizzato nella cultura della memoria per evitare la dimenticanza. A tutt'oggi accomunare la loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle generazioni di ebrei sopravvissuti a quell'evento. Infatti, se la possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo della dimenticanza è molto più alto. Per questo all'entrata dello Yad Vashem si possono leggere le parole di Baal Shemtov: «La memoria è la fonte della redenzione».

Il GIORNALE - Giorgio Israel : " Grass è ambiguo, ma la Shoah non è unica "


Giorgio Israel    Günter Grass

Alain Finkielkraut aveva previsto già una trentina di anni fa le conseguenze dell’introduzione del termine «genocidio», coniato nel 1944 per distinguere lo sterminio degli ebrei dagli altri crimini contro l’umanità: il formarsi di un codazzo di aspiranti allo stesso privilegio; il dilagare dei «confronti» tesi a dimostrare il diritto a ottenerlo e quindi tesi a sminuire la gravità del genocidio degli ebrei. Come osservò Finkielkraut, «dalle donne agli occitani, ogni minoranza oppressa proclamò il suo genocidio. Come se, senza di ciò, cessasse di essere interessante». E l’elenco continua ad allungarsi: non si è visto, a Roma l’anno scorso, un corteo di insegnanti sfilare con la stella gialla appuntata sul petto, proponendo il proprio genocidio? A seguito del celebre film di Claude Lanzmann - Shoah, uscito nel 1985 - i termini olocausto e genocidio (degli ebrei) furono sostituiti nell’uso con la parola ebraica «Shoah» (catastrofe). Una scelta del tutto normale: non è altrettanto accettabile denominare sinteticamente Gulag lo sterminio di milioni di cittadini sovietici da parte del regime comunista? Il problema è che il termine Shoah è stato associato al rafforzamento dell’idea già contenuta nel termine «genocidio»: l’assoluta unicità di questo evento, la sua incomparabilità con qualsiasi altro crimine della storia, fino a farne un evento metastorico e a suscitare persino una metafisica e una teologia della Shoah. Chi scrive ha ripetutamente criticato come infondata e rischiosa la collocazione della Shoah al di fuori della storia. Per esempio, il rifiuto di stabilire qualsiasi relazione tra Lager e Gulag è assurdo. La relazione è stata evidenziata in modo magistrale sul piano romanzesco da Vasilij Grossman. Sul piano storico essa risale alla folle ambizione di entrambe le dittature di rigenerare la società dalle fondamenta: l’una mediante l’igiene sociale, l’altra mediante l’igiene razziale, come osservò Victor Zaslavski. Paradossalmente, il mito dell’unicità della Shoah è servito ai postcomunisti per derubricare i crimini di Stalin a qualcosa di non tanto grave. Naturalmente questo è frutto di cattiva coscienza. Così come è la cattiva coscienza che spinge ogni giorno qualcuno a sminuire la gravità della Shoah stabilendo confronti deliranti anziché relazioni magari discutibili ma ragionevoli, mescolandola con gli eventi più disparati. È la cattiva coscienza di un’Europa che non ha mai fatto davvero i conti con i propri totalitarismi. Leggo l’intervista di Günther Grass rilasciata due giorni fa a un giornale israeliano in cui «rilegge» la Shoah e la paragona alle sofferenze inflitte dai russi ai militari tedeschi, e trovo che molte delle sue affermazioni sono discutibili sul piano storico e qualcuna anche sul piano morale. Ma non mi sento di fare scandalo sulla frase che, invece, più ha destato scandalo: «Non dico questo per diminuire la gravità del crimine contro gli ebrei, ma l’Olocausto non è stato l’unico crimine». Non mi sento di fare scandalo perché questa frase esprime un concetto persino ovvio. È una frase di cui non vi sarebbe stato bisogno se non si fosse avuta l’idea avventata di collocare la Shoah sul piedistallo metastorico e metafisico dell’unicità. Per il resto, Grass si è espresso in modo discutibile ma aperto e onesto. Efferato e losco è invece l’atto di quel funzionario francese che ha interdetto mediante una circolare l’uso della parola «Shoah» nelle scuole. Mi ha colpito il riferimento di Grass al fatto che metà della Germania sia stata abbandonata al comunismo. Di questo oggi non si parla. Così, la Spagna zapaterista mette alla gogna i crimini del franchismo mentre stende una cortina su quelli non meno atroci compiuti dai comunisti spagnoli delle varie tendenze. L’Europa che non ha fatto i conti con tutti i totalitarismi del ’900 è la stessa che genera il nuovo antisemitismo, sotto forma di antisionismo e di odio per Israele e che, allo scopo, non si fa scrupolo di usare il negazionismo. Per contrastarla, il mito dell’unicità della Shoah non serve. Al contrario. Al posto della circolare francese, occorrerebbe una circolare europea che prescriva in tutte le scuole la lettura di Vita e destino di Vasilij Grossman.

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