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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Opinione - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.08.2011 Libia, il rischio islamismo non va sottovalutato
commenti di Dimitri Buffa, Carlo Panella, Davide Frattini

Testata:L'Opinione - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Dimitri Buffa - Carlo Panella - Davide Frattini
Titolo: «Il rischio di al Qaeda a Tripoli - Così il Gheddafistan combatte la guerra tribale che qui chiamiamo rivolta - Il 'potere morbido' dello sceicco del Qatar e di sua moglie Mozah»

Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 30/08/2011, a pag. 8, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Il rischio di al Qaeda a Tripoli  ". Dal FOGLIO, a pag. 4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Così il Gheddafistan combatte la guerra tribale che qui chiamiamo rivolta ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Il 'potere morbido' dello sceicco del Qatar e di sua moglie Mozah ".

Su Haaretz di oggi, un articolo riporta la notizia che diverse armi sono state spedite dalla Libia a Gaza negli ultimi sei mesi. Per leggere il pezzo, cliccare sul link sottostante
http://www.haaretz.com/print-edition/news/israel-says-gaza-gets-anti-plane-arms-from-libya-1.381466
Ecco i pezzi:

L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Il rischio di al Qaeda a Tripoli "


Dimitri Buffa

Prima o poi ci toccherà bombardare i ribelli libici. Dopo averlo fatto con Gheddafi. Nei quartieri generali dell’Alleanza atlantica la battuta che circola con più insistenza è questa. Specie dopo che si è scoperto il curriculum vitae di Abedelhakim Belhaj, l’uomo che ha guidato i berberi alla liberazione di Tripoli. Si tratta infatti di una vecchia conoscenza degli Usa ed aveva fatto anche un periodo di detenzione a Guantanamo e poi a Bangkok nel 2004 dopo essere stato catturato tra i cosiddetti resistenti in Afghanistan. Si fa chiamare anche Abou Abdallah al Sadeq. Pare si sia fatti tutti i santuari del terrorismo jihadista prima di venire beccato dalla Cia: Iraq, Pakistan e infine Afghanistan. Il proprio training da guerrigliero sarebbe cominciato già dal 1988 in Afghanistan quando aveva solo 22 anni. La Cia lo ha interrogato a modo suo nel 2004 prima di rilasciarlo a Bangkok. Da qui sarebbe stato estradato in Libia dove venne tenuto in carcere da Gheddafi fino al 2009 per poi venire liberato quando il raiss penso di allearsi persino con Al Qaeda. In pratica Belhaij è considerato uno dei leader militari del Gruppo combattente islamico libico. Un gruppo bandito internazionalmente dopo l’11 settembre e perseguitato anche da Gheddafi negli anni ‘90. E poi di nuovo dopo l’11 settembre 2001 nel periodo in cui voleva accreditarsi come alfiere della lotta al terrorismo islamico nel Maghreb agli occhi di Bush figlio. Il gruppo cui apparteneva Belhaj era stato fondato nel 1990 da mujahidin libici di ritorno dall’ Afghanistan e in precedenza era stato guidato da Abu Laith al-Libi, un alto leader di Al Qaeda in Afghanistan. Uomo che si ritiene essere stato un anello di collegamento chiave tra Al Qaeda e i talebani. La scarna biografia di Belhaj ci racconta che è nato nel 1966, che è laureato in ingegneria civile. E che dovrebbe avere anche due mogli: una marocchina e una seconda sudanese. Partito per l’ Afghanistan nel 1988 per partecipare alla jihad contro le forze di occupazione sovietiche, lo ritroviamo in Pakistan, Turchia e Sudan negli anni ‘90. Poi gli arresti in Afghanistan e in Malesia nel 2004, la prigionia a Guantanamo e la “rendition” in Thailandia dove sarebbe stato interrogato dalla CIA prima di essere estradato in Libia nello stesso anno. Nel 1995 ben 1800 membri del suo gruppo vennero segregati in carcere da Gheddafi che solo nel 2010 cominciò a liberare i capi del movimento in un disperato tentativo di restare in sella.

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Così il Gheddafistan combatte la guerra tribale che qui chiamiamo rivolta "


Carlo Panella       Muhammar Gheddafi

Roma. Un Gheddafistan: non è molto probabile, ma è possibile che il colonnello, alla fine, possa attestarsi e resistere in un’area a cavallo tra Libia, Ciad, Niger e Algeria. Una zona franca, da cui menare azioni di guerriglia e di terrorismo profittando della permeabilità delle frontiere e della benevolenza dei governi confinanti, oltre che dell’appoggio di quei tuareg sempre generosamente finanziati in Ciad, Mali e Algeria. Nonostante le mistificazioni di una informazione in conflitto d’interesse petrolifero (a partire da al Jazeera, il cui proprietario ha già in tasca contratti petroliferi col Cnt), è evidente che la resistenza dei lealisti a Sirte, a Sheba e soprattutto nello strategico Fezzan dopo la caduta di Tripoli non è frutto della pervicacia dei “mercenari”. Mai si sono visti nella storia dei mercenari combattere con tanta energia, dopo avere constatato che il loro committente non potrà pagare loro il soldo. Non perché non disponga tuttora di qualche decina di miliardi in oro, ma perché è evidente che non potrà materialmente consegnarglielo, neanche se volesse nelle città assediate. In realtà assistiamo a una resistenza disperata di tripolitani, e non solo della tribù Ghadafa, di abitanti del Fezzan – e di tuareg – contro i cirenaici in nome di una diffidenza e di un odio plurisecolari. Il paragone con la caduta di Baghdad e di Kabul è eloquente. In Iraq e in Afghanistan la caduta della capitale segnò in due-tre giorni la capitolazione, la fuga scomposta di tutti i gerarchi e la dissoluzione carsica dei regimi. In Libia, passati nove giorni, le truppe di Bengasi non sono ancora riuscite ad arrivare a Tripoli via terra, per la litoranea e neanche hanno iniziato la marcia verso quel Fezzan in cui è situata la maggior parte dei pozzi. La stessa capacità di Muammar Gheddafi e del suo quartier generale di fedelissimi di far perdere le tracce, prova che gode di evidenti complicità e accoglienza. La stessa Nato brancola nel buio perché i loro convogli consistenti non vengono denunciati da nessuno e si muovono favoriti da una omertà che ha solide motivazioni politiche e tribali. Misteriosa è la loro destinazione, ma evidente è il loro disegno: fortificarsi in un’area interna – un Gheddafistan, appunto – in cui resistere, che condanni la Libia del Cnt e della Nato alla instabilità permanente. Progetto disperato, con poche possibilità di realizzazione, ma che ha una sua logica, soprattutto perché una grande nazione confinante, l’Algeria, ha tutto l’interesse per favorirlo. Abdelaziz Bouteflika, il presidente algerino, ha fatto ben più che fornire a Gheddafi aiuti militari e permettere a duemila tuareg algerini di unirsi alle sue milizie. Ancora oggi mostra tutta la sua ostilità e disprezzo verso lo stesso Cnt, rifiutandosi di riconoscerne la legittimità e addirittura condizionando sprezzantemente il riconoscimento a una “assunzione di un preciso e forte impegno a combattere al Qaida nel Maghreb”. Un atteggiamento ostile che ha spinto il 27 agosto Omar Bani, portavoce militare del Cnt a minacciare: “Verrà un giorno in cui Algeri dovrà rispondere del suo atteggiamento nei confronti dei rivoluzionari libici” (dopo la notizia del corteo di macchine blindate che attraversava il confine con l’Algeria, ieri è arrivata la conferma di Algeri: due figli, la moglie e la figlia di Gheddafi si sono rifugiati in quel paese). E’ evidente che la nuova Libia dovrà fare i conti con una situazione di forte attrito a occidente, per ragioni di potenza regionale e di politica petrolifera. Algeri teme infatti una nuova Libia testa di ponte nel Maghreb della Francia e della Nato alle proprie frontiere. Una Libia in cui oggi si sente – a scorno delle illusioni illuministe dei tanti Bernard-Henri Lévy – il peso degli islamisti (come si è visto con la bozza di Costituzione shariatica) e in cui tra le forze ribelli c’è uno “sceiccato islamico di Derna”, affiliato ad al Qaida. Una Libia sempre bisognosa della determinante protezione militare della Nato e probabilmente in preda a strascichi di quel conflitto tribale che oggi impropriamente passa per rivoluzione. Una Libia che quindi dovrà sviluppare una politica petrolifera subordinata all’Europa, opposta a quella “rialzista” sempre praticata da Algeri.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Il 'potere morbido' dello sceicco del Qatar e di sua moglie Mozah "


Davide Frattini    Hamad bin Khalifa Al Thani, sceicco del Qatar

BENGASI — Mustafa Abdel Jalil è stato ricevuto come il capo di Stato di uno Stato che ancora non c'è. La banda ha suonato il vecchio inno «Libia, Libia, Libia» (silenziato da Muammar Gheddafi) e innalzato la bandiera dei tempi di re Idris (stracciata da Gheddafi): i simboli che i ribelli hanno riesumato dopo quarantadue anni. Con il cerimoniale da presidente e l'invito nel palazzo dell'emiro, il Qatar ieri è stato ancora una volta il primo Paese arabo a riconoscere che il Consiglio nazionale di transizione è transitorio solo nel nome.
Le milizie che controllano le strade di Bengasi indossano le mimetiche regalate da Doha, parte di quei quattrocento milioni di dollari in aiuti offerti dalla piccola nazione del Golfo. Che adesso vuole raccogliere le ricompense della partita di dama (il passatempo antico che i qatarini alla moda stanno rispolverando nei caffè) giocata da Hamad bin Khalifa Al Thani. Lo sceicco ha mosso le pedine del suo esercito e impegnato praticamente tutta l'aviazione (otto sui dodici Mirage in dotazione) a fianco dei jet Nato che bombardano le postazioni del regime. Le forze speciali si sono mischiate ai rivoltosi sulle montagne di Nafusa per coordinare l'attacco finale a Tripoli. Ed è sempre il Qatar a spingere perché venga organizzata una forza multinazionale di pace da schierare in Libia: l'emirato metterebbe a disposizione gli 8.500 soldati che formano le sue truppe. «Malgrado le dimensioni minuscole — scrive Spencer Ackerman su Danger Room, il blog militare della rivista Wired — ha dato il sostegno più efficace alla rivolta. Già inondato dei dollari provenienti dai giacimenti di gas, non ha forse bisogno del mercato libico che si apre. Le sue società otterranno comunque contratti per la ricostruzione: non male per una nazione più nota per l'emittente satellitare che per la fierezza marziale».
Con la crisi libica, Doha ha iniettato steroidi nel potere morbido e mediatico già conquistato attraverso Al Jazeera. Quando Hosni Mubarak e i pezzi cascanti del regime egiziano accusavano i dimostranti di essere pilotati dall'estero, pensavano ai giornalisti del canale globale piuttosto che agli agenti segreti occidentali. Le dirette dalle piazze in tumulto hanno esaltato le rivolte arabe e irritato i dittatori. In Siria i dimostranti urlano «Vogliamo Al Jazeera» (è bandita dal Paese) e in Yemen gli slogan sui muri proclamano «Al Jazeera è parte della rivoluzione».
L'emirato ha sostenuto i ribelli libici nei momenti più difficili. In aprile li ha aiutati a mettere sul mercato un milione di barili di petrolio che hanno fruttato quasi 129 milioni di dollari ai combattenti anti-Gheddafi, quando rischiavano di restare senza soldi e munizioni. «L'emiro è stato addestrato all'accademia di Sandhurst — ha commentato Blake Hounshell della rivista Foreign Policy —, ha una mente militare e sa che il suo Paese è indifendibile. Così ha cercato strategie creative per renderlo più sicuro». Al Jazeera e la diplomazia (qualche volta muscolare come a Tripoli e Bengasi) sono le sue armi. «L'obiettivo è garantire al Qatar un peso geopolitico molto più grande delle sue dimensioni», dice Mustafa Alani del Gulf Research Centre al quotidiano britannico Guardian.
Il Paese è riuscito a mantenere un ruolo di mediatore. Ha buoni rapporti con l'Iran (con cui condivide un giacimento di gas in mare) e ospita la più grande base aerea americana nel Golfo. L'ascesa ha indispettito i regnanti sauditi, che hanno costretto l'emiro ad allinearsi e a inviare i soldati in Bahrain, assieme alle altre nazioni del Consiglio di cooperazione, per sostenere il governo contro le manifestazioni pro-democrazia.
L'interventismo di Doha ha irritato anche quell'Algeria che ha dato ospitalità alla famiglia di Gheddafi. I giornali accusano il Paese rivale di voler portar via i campioni di calcio che giocano in Europa. Il fondo d'investimento dell'emirato offrirebbe contratti milionari e la cittadinanza per rafforzare la nazionale in vista dei Mondiali del 2022 che si giocheranno negli stadi qatarini rinfrescati dall'aria condizionata.
Assieme ad Al Jazeera, l'altro potere morbido è in famiglia. Mozah Bint Nasser Abdullah Al-Missned influenza le decisioni del marito-emiro e lo avrebbe convinto a proteggere la città dove ha studiato da ragazzina. Il padre la mandava per mesi ospite del socio libico e a Bengasi la sheika ha imparato anche la rabbia contro Gheddafi.

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