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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
26.08.2011 Aggiornamenti sulla situazione in Libia
Cronache e commenti di Cecilia Zecchinelli, Roger Abravanel, Redazione del Foglio, Fausto Biloslavo. Intervista a Mustafa Jalil di Guido Ruotolo

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa - Il Giornale
Autore: Cecilia Zecchinelli - Roger Abravanel - Redazione del Foglio - Fausto Biloslavo - Guido Ruotolo
Titolo: «Se le Primavere Arabe tradiscono le donne - La mia Libia d'Oro profanata dal Raìs - Rasoiata del Qatar in campo libico - Ecco dove resistono i fedelissimi del regime - Il regime sta naufragando tra violenza e crudeltà»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/08/2011, a pag. 11, gli articoli di Cecilia Zecchinelli e Roger Abravanel titolati " Se le Primavere Arabe tradiscono le donne " e " La mia Libia d'Oro profanata dal Raìs ". Dal FOGLIO, a pag 4, l'articolo dal titolo " Rasoiata del Qatar in campo libico ". Dalla STAMPA, a pag. 5, l'intervista di Guido Ruotolo a Mustafa Abdel Jalil dal titolo " Il regime sta naufragando tra violenza e crudeltà ". Dal GIORNALE, a pag. 14, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " Ecco dove resistono i fedelissimi del regime "
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Se le Primavere Arabe tradiscono le donne "

Hala Misrati, la star della tv di Gheddafi finita sui media del mondo per il suo ultimo show con pistola prima dell'arresto, era diventata una celebrità negli ultimi mesi, la voce più forte della propaganda. Ma è difficile pensare che se anche avesse vinto il Colonnello, cosa ormai impossibile, la tostissima ex scrittrice di romanzi rosa avrebbe trovato un ruolo di leadership nella Jamahiriya. E anche le amazzoni del Qaid (guida), tanto decantate e poi sparite, avevano un ruolo ancillare nonostante le divise e le armi: nessuna femminista araba le ha mai portate d'esempio e in Occidente piacevano soprattutto agli uomini. Ma se il maschilismo dei vecchi regimi arabi, caduti e non, è cosa nota, che dire dei governi nascenti?
Nella Nuova Libia le donne avranno più spazio nella vita pubblica? E in Egitto, in Tunisia? Un'altra domanda: la loro presenza nella stanza dei bottoni, se non egualitaria almeno importante, può essere davvero, tra qualche mese quando i tre Paesi voteranno, la prova del loro livello di democrazia? A questo si può rispondere che ci vuole tempo perché società dominate da religione e tradizioni, ancora in gran parte rurali o beduine, con povertà e ignoranza diffuse, un passato (e presente, in Egitto) gestito da militari, escano dal tunnel del maschilismo. Anche in Italia, dopo oltre 60 anni di democrazia, l'obiettivo non è raggiunto. Ma il vero rischio è che la primavera araba non crei nemmeno le basi per una futura eguaglianza. Peggio ancora: che perfino i successi raggiunti nei passati regimi siano annullati.
Non è un caso che il 13 agosto, anniversario della legge del 1956 che conferiva ai due sessi piena parità, le tunisine siano scese in strada. «Per paura di infastidire gli islamici — ha detto Ahlem Balhaj, capo dell'Organizzazione per i diritti delle donne — ora rischiamo di perdere tutto», compreso il divieto della poligamia. E anche in Egitto, dove il movimento femminista arabo nacque potente negli anni 20, molte donne si sentono tradite. «Durante la rivoluzione la parità finalmente esisteva. Ma lo spirito di Tahrir è evaporato», denuncia la giornalista Marwa Rakha. «Ci aspettavamo libertà e eguaglianza ma non sono arrivate — aggiunge Nawal Saadawi, la celebre e anziana femminista —. Non tanto per una questione religiosa ma generazionale: nell'esercito, tra i politici, perfino nei Fratelli musulmani, i giovani vogliono la parità, i vecchi no. E il potere è ancora loro». La commissione costituzionale che studiò gli emendamenti poi approvati da referendum comprendeva solo uomini. E nelle elezioni previste in novembre le pur discusse quote rosa introdotte da Mubarak non ci saranno. Per altro si è candidata a raìs una donna che piace per il suo impegno sociale, Bothaina Kamel, ma le sue chance sono zero.
In Libia le donne del fronte ribelle sono state finora nelle retrovie, come in tutte le guerre. Da Bengasi i leader rivoluzionari hanno però ammesso tre signore nel Consiglio transitorio e più volte affermato l'impegno per la parità. Resta da vedere in concreto cosa faranno, quanto le tradizioni e l'integralismo peseranno sul nuovo corso. Tra i tanti rischi che corre l'ormai ex Jamahiriya c'è anche quello di non approfittare di questo momento per eliminare la discriminazione delle sue cittadine.

CORRIERE della SERA - Roger Abravanel : " La mia Libia d'Oro profanata dal Raìs "


Roger Abravanel

Ho lasciato la Libia più di 40 anni fa, quando l'ascesa al potere di Gheddafi portò all'espulsione degli ebrei libici, che si aggiunsero all'«esodo silente» di più di un milione di ebrei cacciati dai Paesi arabi, solo per il fatto di essere ebrei (un numero simile a quello dei palestinesi che persero la propria terra). In Libia gli ebrei furono particolarmente perseguitati: ricordo che una delle prime iniziative di Gheddafi fu quella di costruire una strada sul cimitero ebraico dopo avere buttato a mare con le ruspe le ossa dei morti (tra cui quelle dei miei nonni) e che ci furono diversi pogrom. In quell'occasione perdemmo tutti i nostri beni. Ma anche molti altri, e soprattutto gli italiani, persero tutto in Libia e divennero profughi nell'arco di pochi giorni.
Alla fine però, un evento così traumatico si rivelò una fortuna per me: perché mi offrì l'occasione di partecipare allo straordinario sviluppo economico e sociale dell'Occidente degli ultimi quarant'anni. Non è stato così per i milioni di cittadini libici che, invece, hanno visto ristagnare la loro economia, arretrare la società e regredire la propria cultura, senza poter sfruttare le grandi opportunità che offriva loro una terra, ricca e bellissima, come la Libia. Non ci sono più voluto tornare da allora, per non dover sostituire questi bei ricordi con le immagini della Libia di Gheddafi.
Conoscendo questo passato, ho assistito con sgomento alle cerimonie che hanno accolto Gheddafi al G8 all'Aquila e all'Eliseo a Parigi. Essendo pragmatico, capivo che Gheddafi rappresentava un valore economico e politico, ma la prudenza avrebbe dovuto, per lo meno, frenare l'entusiasmo di tanti politici e uomini d'affari occidentali. Collaborare senza «benedire» sarebbe stato più saggio, conoscendo il personaggio. Gli stessi cortigiani di Gheddafi di pochi mesi fa sono diventati i mandanti dell'intervento militare Nato e, oggi, si posizionano come i migliori amici dei ribelli. Ma nessun Pr di grande livello può mascherare al pubblico informato il grave errore che hanno commesso. La vera buona notizia è che la deposizione di Gheddafi offre una grande opportunità alla «primavera araba»: un modello di democrazia. Grazie alla sua posizione geografica e, soprattutto alla sua storia e alla sua cultura, la Libia potrebbe diventare un riferimento per i 350 milioni di arabi che, nei 100 anni dalla caduta dell'Impero ottomano, hanno potuto scegliere solo tra il torpore fatale della dittatura laica e la delusione dell'estremismo islamico.
Dopo 40 anni, oggi, il popolo libico ha finalmente la libertà di scegliere. Potrà perseguire la strada del fondamentalismo xenofobo e antisemita, che lo porterà inevitabilmente a un isolamento politico e a una stagnazione economica, forse anche peggiori che ai tempi di Gheddafi. Oppure potrà ricreare quella società tollerante e multietnica che ricordo ai tempi di re Idris; magari riuscirà anche a recuperare il tempo perduto e a offrire alle nuove generazioni opportunità straordinarie. Come molti altri profughi italo-libici, osserverò con trepidazione queste scelte. Per 40 anni ho voluto dimenticare le mie radici, anzi: doverle di tanto in tanto rammentare, come quando Gheddafi divenne azionista della mia adorata Juventus, spesso mi irritava. Ma, come molti dei miei connazionali, so che al primo segnale di una Libia veramente libera, il desiderio di riscoprire le mie radici e rivivere i momenti straordinari della mia fanciullezza sarà fortissimo.

Il FOGLIO - " Rasoiata del Qatar in campo libico "

Roma. Tra tutti gli stati che hanno partecipato alla lotta dei ribelli libici il Qatar è quello che riceverà più gratitudine, perché ha guidato e ispirato il resto del mondo arabo contro Gheddafi, anche se è soltanto un piccolo regno con la popolazione della Liguria – un milione e settecentomila abitanti – ed è meno esteso del Belgio. Doha cominciò a scommettere fortissimo sulla fine del regime già da subito, a marzo, quando non era passato neanche un mese dall’inizio della rivolta. Da allora il Qatar è stato onnipresente nella campagna contro il colonnello, fino a questi giorni. Domenica scorsa il segnale in codice dell’attacco a Tripoli è partito durante una trasmissione su Libya Tv, canale dei ribelli, che opera e trasmette al sicuro dal Qatar. Gran parte dei rifornimenti di armi e di munizioni e degli addestratori che hanno aiutato gli insorti sono pure arrivati dal Qatar; anzi, il piccolo esercito che per primo ha marciato sulla capitale era accompagnato dalle forze speciali mandate dal regno (e che di solito stanno a Bengasi a proteggere la leadership del Comitato nazionale transitorio). Un mese fa, durante alcuni scontri a Bengasi, per le strade si sono visti addirittura circolare mezzi blindati con le insegne del Qatar. Doha è anche stata la prima a convincere gli stati della Lega araba a votare sì alla “no fly zone”, è stata la prima a mandare i suoi caccia e ha addirittura offerto alla Nato garanzie finanziarie per fare fronte alle spese prolungate, nel caso la guerra si fosse protratta troppo a lungo e fosse diventata troppo dispendiosa. Il Qatar ha cementato il fronte comune tra occidente e paesi arabi. In questi giorni i ribelli sono incerti tra la riconoscenza da mostrare nell’ora della (quasi) vittoria e la necessità di apparire indipendenti e non troppo eterodiretti, ma aul Qatar parlano senza esitazioni. Uno dei due leader più importanti, Mahmoud Jibril, martedì ha ringraziato il regno per il suo aiuto a dispetto dei dubbi e delle minacce. L’altro leader, Mustafa Abdul Jalil, ha detto all’agenzia di stato che il paese “ha avuto un ruolo decisivo di guida fin dall’inizio della rivoluzione”. Jibril ha parlato dalla capitale Doha, che secondo la definizione del Wall Street Journal “è stata di fatto la base operativa nel Golfo dell’opposizione libica”. Shokri Ghanem, l’ex ministro del Petrolio libico passato con i ribelli, e Moussa Koussa, l’enigmatico ex ministro degli Esteri, erano di casa. Non stupisce che la prima conferenza sugli aiuti si sia riunita a Doha mercoledì scorso e che già si parli di gestione di aiuti e contratti energetici in mano al Qatar. Il regno arabo del Golfo potrebbe ricavare i dividendi più alti di tutti dalla campagna libica. Si parla di controllo su gas e petrolio: nella nuova mappa dei contratti libici post Gheddafi, secondo gli analisti, il Qatar sarà “uno dei contendenti più importanti assieme a Total ed Eni”. In un certo senso lo è diventato prima di tutti gli altri, perché già a marzo ha stretto un accordo con i ribelli per vendere il greggio sui mercati internazionali. Ci sono anche i guadagni nel campo dei rapporti geopolitici. Il Qatar è uno stato piccolo ma che sa giocare alla perfezione le sue carte per ottenere la supremazia sugli altri paesi dell’area. La sua rete satellitare, al Jazeera, è capace di influenzare l’opinione pubblica in tutto il mondo arabo (e oltre) e ha seguito la guerra contro Gheddafi con una copertura martellante, ovviamente a favore dei rivoltosi. Prima la nascita di al Jazeera e poi l’interventismo in Libia fanno parte della stessa volontà di protagonismo che ha fatto ottenere al Qatar i Mondiali di calcio del 2022 – la Nazionale non ha mai partecipato a nessun torneo, e naturalmente come rappresentativa del paese ospite è già qualificata d’ufficio. Non tutto fila liscio, però: ieri la delegazione diplomatica di Israele ha abbandonato Doha per protestare contro i legami tra il regno e Hamas.

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Ecco dove resistono i fedelissimi del regime"


Fausto Biloslavo, Gheddafi

Non si combatte solo a Tripoli, nelle ul­time sacche di resistenza dei fedelissimi di Gheddafi, dove lo stesso colonnello po­trebbe nascondersi, ma pure ad ovest e ad est della capitale. Da Sirte, la città natale sulla costa dell’ex padre-padrone del pae­se a Shebaa, la roccaforte nel sud deserti­co il rischio è che la Libia si trasformi nel nuovo Irak. Almeno fino a quando il colon­nello continuerà a lanciare appelli alla re­sistenza contro i ribelli. Un nuovo Irak sen­za truppe straniere, ma solo con attacchi dal cielo della Nato. Nella capitale come il fronte dei ribelli avanza per concentrarsi sulle zone dove sventola ancora la bandie­ra verde di Gheddafi, alle spalle resta l’anarchia.
A Tripoli i lealisti sono asserragliati nel
grande quartiere di Abu Slim, dove ogni cinquecento metri c’era un posto di bloc­co dei miliziani con la fascia verde di Ghed­dafi. Soprattutto civili, armati fin da mar­zo, che ascoltavano a tutto volume «zenga zenga», la canzoncina rap ispirata dal fol­le discorso di Gheddafi quando voleva sni­dare «vicolo per vicolo» i ribelli a Bengasi. La situazione è totalmente incerta an­che nel quartiere di al Hadba tradizional­mente fedele al colonnello e Mansoura, dove sono stati liberati i quattro giornali­sti italiani rapiti martedì. Una battaglia a colpi di cecchini è scoppiata ieri davanti al Corinthia, un hotel vicino al mare e alla piazza Verde, che ospita alcuni media. Ti­ratori scelti erano ancora in azione attor­no a Bab al Azizya, l’ex bunker di Gheddafi espugnato, dove sono stati trovati i cada­v­eri di 17 civili uccisi sommariamente pri­ma della sconfitta. Le avvisaglie di una de­riva irachena sono i 30 corpi senza vita fil­mati in una caserma di Gheddafi. Militari o volontari del colonnello giustiziati sul posto. Alcuni erano in barella, ammanet­tati o incappucciati.
Se a Tripoli si continua a sparare e a dare la caccia a Gheddafi, alla sua famiglia e ai gerarchi del regime, non c’è pace neppu­re nel resto del paese. Lungo la strada co­stiera verso ovest, a 109 chilometri dalla capitale, la città di Zuwarah, da dove parti­vano i clandestini per Lampedusa, è cir­condata dai governativi. Il colonnello Ab­dul Salem, comandante degli insorti, ha lanciato un appello alle città liberate vici­ne, ma nessuno sembra accorrere in aiu­to. Il principale posto di confine con la Tu­nisia di Ras Jadir è ancora chiuso e la parte libica in mano agli uomini di Gheddafi.
La situazione più esplosiva si registra ad est di Tripoli, nel golfo della Sirte. I go­vernativi si sono ritirati dai terminal petro­liferi
di Brega e Ras Lanuf, ma sembrano decisi a montare l’ultima difesa nella valle Rossa, vicino a Ben Jawad, da dove lancia­no una valanga di razzi contro i ribelli. E Sirte, la città natale del colonnello, a 480 chilometri da Tripoli, è quasi assediata. Gli insorti avanzano su di essa da Misura­ta, la terza città del paese che si è ribellata fin da febbraio. Martedì e mercoledì si è cercato di trattare la resa con le tribù, ma ieri la parola è passata alle armi. E i ribelli sono stati respinti dai fedelissimi del co­lonnello che hanno ancora missili Scud da lanciare. Ahmed Bani, portavoce degli insorti, ha spiegato che agli irriducibili di Sirte «è stato lasciato aperto un varco ver­so sud». L’unica strada che possono per­correre è quella che passa per Beni Walid, la «capitale» dei Warfalla, la tribù più va­sta del paese con due milioni di membri. Fino all’offensiva nella capitale, Beni Wa­lid era in mano ai miliziani tribali alleati di Gheddafi.
Nel deserto meridionale i lealisti posso­no contare,
almeno in parte su Shebaa, ul­tima ridotta del regime nella vasta regione del Fezzan. Il forte di Shebaa, costruito da­gli italiani durante le colonie, svetta sulle banconote libiche. Gheddafi ha trasfor­mato l’area in una grande base militare, che negli ultimi sei mesi di guerra ha ga­rantito una via di rifornimento cruciale al­la Tripolitania.

La STAMPA - Guido Ruotolo : " Il regime sta naufragando tra violenza e crudeltà"


Mustafa Abdel Jalil

Ha un attimo di commozione, Mustafa Abdel Jalil. Ed è quando gli racconto che una trentina di donne senza velo, all’ingresso dell’hotel Tibesty che ospita media internazionali e diplomatici, con cartelloni e slogan si rivolgevano a lui chiedendogli di non ritirarsi, di avere un ruolo nella nuova Libia. Jalil, che ci riceve insieme al console italiano, Guido De Sanctis, al termine di una conferenza stampa, commenta emozionato: «Non ho un futuro nella nuova Libia. Chiudo con l’aver traghettato il mio popolo e il mio Paese verso la libertà. E non è poco».

A un prezzo altissimo...

«Ventimila tra morti e feriti. E’ il prezzo della libertà».

Presidente Jalil, per fortuna ha avuto un epilogo positivo il drammatico sequestro a Tripoli di quattro giornalisti italiani. Un episodio che racconta quanto sia ancora insicuro il territorio e controverso il processo verso la democrazia...

«Da quello che ho appreso, posso dire che il convoglio di giornalisti è stato catturato da elementi gheddafiani a Zawia. Con loro c’era un accompagnatore libico che ha subìto prima un interrogatorio e poi è stato ucciso. Gli italiani sono stati arrestati. Voglio aggiungere che gli ultimi momenti di Gheddafi dimostrano la crudeltà e la violenza del regime...».

Può escludere che Gheddafi abbia a disposizione un arsenale chimico in grado di provocare danni inenarrabili?

«Secondo quanto ci risulta, le armi che erano di fatto presenti quando ero ancora parte del regime, oggi sono scadute, ma non sono state ancora trovate».

In conferenza stampa, lei si è appellato ai libici perché abbandonino atteggiamenti lesionistici, lasciandosi andare a distruzioni e a saccheggi di ville e abitazioni.

«Invito tutti alla calma, non c’è bisogno di queste azioni ritorsive. Sono ricchezze che saranno restituite al popolo».

Stupisce la rivelazione che a Zawia sono state ritrovate riserve di petrolio e gas che bastano per tutta la Libia, che avete scovato nei magazzini anche riserve di cibo e di medicinali che possono sfamare e curare due volte l’intera popolazione. A questo punto perché la comunità internazionale dovrebbe scongelare le riserve finanziarie sequestrate a Gheddafi? Presidente Jalil possiamo dunque dire che l’emergenza umanitaria è già risolta?

«Non direi proprio. In una situazione di normalità certo potremmo anche dirlo, probabilmente. Intanto è vero che l’emergenza si è chiusa per quanto riguarda l’approvvigionamento delle fonti energetiche. Ma per quanto riguarda il cibo e i medicinali non faccio previsioni. Non sappiamo neppure se sono state analizzate le date di scadenza di medicine e generi alimentari. E dunque aspettiamo fiduciosi la solidarietà internazionale».

Lei ha esordito in conferenza stampa impegnandosi a risarcire le famiglie delle vittime della guerra di liberazione. E’ un invito a parti della popolazione a sostenere la causa del Cnt?

«Chiedo a tutti, testimoni delle atrocità di Gheddafi, ad accettare il Cnt come legittimo rappresentante del popolo. Nello stesso tempo voglio assicurare tutti che in Libia non si ripeterà quello che è accaduto in Iraq con “Oil For Food"».

Si chiude per sempre con le atrocità ma anche con la corruzione del regime di Gheddafi?

«E’ un impegno solenne».

Quando la vedremo a Tripoli?

«Come ho detto in conferenza stampa due giorni fa una nostra delegazione dell’esecutivo è arrivata a Tripoli, ed è in quella occasione che abbiamo appreso che era stato trovato a Zawia quel tesoro di risorse energetiche, cibo e medicinali. Domani partiranno per la capitale rappresentanti del Cnt per pianificare il trasferimento a Tripoli del Comitato nazionale transitorio».

Lei è stato ministro di Giustizia fino a febbraio. E ha deciso adesso di andare in pensione. Ma personaggi del regime possono essere coinvolti nella costruzione della nuova Libia? Per esempio, Jalloud?

«Alcuni personaggi penso di sì. Soprattutto se non si sono macchiati le mani di sangue. Jalloud non è uno di questi perché lui ha fatto parte di quei militari golpisti che portarono il primo settembre di quarantadue anni fa Gheddafi al potere».

A proposito di Gheddafi e di quella Babele di voci sul suo destino, se catturato: lo consegnerete al Tribunale penale dell’Aja, in esecuzione di un mandato di cattura internazionale?

«La vicenda è complessa. Intanto sottolineo che quel mandato di cattura internazionale si ferma ai crimini commessi a partire dal 17 febbraio scorso. Penso quindi che i nostri tribunali debbano processarlo per tutti i crimini che ha commesso in questi quarantadue anni. E solo dopo Gheddafi potrà essere consegnato al Tribunale internazionale dell’Aia».

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