Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La situazione in Libia dopo la caduta di Tripoli analisi di Redazione del Foglio, Pio Pompa, Guido Olimpio
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Redazione del Foglio - Pio Pompa - Guido Olimpio Titolo: «Dopo la caduta di Tripoli - Non c’è peggior cieco - Le milizie lealiste hanno soldi e armi proibite. E possono usarle per compiere attacchi terroristici»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 25/08/2011, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo "Dopo la caduta di Tripoli " , a pag. 4, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Non c’è peggior cieco ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 6, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Le milizie lealiste hanno soldi e armi proibite. E possono usarle per compiere attacchi terroristici ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Dopo la caduta di Tripoli "
I quattro giornalisti italiani rapiti
Roma. L’avanzata trionfale dei ribelli libici, al terzo giorno dopo la “presa di Tripoli”, s’apre a diversi scenari possibili. Uno ricorda il caos post invasione in Iraq. Quattro giornalisti italiani – Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere, Domenico Quirico della Stampa e Claudio Monici di Avvenire – sono stati rapinati e sequestrati in mattinata lungo la strada che collega Zawiya a Tripoli, e il loro interprete è stato ucciso. Monici ha telefonato alla sua redazione in Italia. I quattro, sono stati chiusi in un appartamento dai rapitori. Sono stati fermati da una banda armata, che poi li ha consegnati alle forze fedeli al colonnello libico. Il console italiano a Bengasi, Guido De Sanctis, dice che i giornalisti sono in un palazzo della capitale, tra il bunker di Bab al Aziziyah e l’hotel Rixos – a provarlo sarebbe il fatto che dall’appartamento si vede un noto centro commerciale di proprietà di Aisha, la figlia di Gheddafi. Secondo De Sanctis, che è riuscito a entrare in contatto con uno dei giornalisti, gli inviati “stanno bene” e “sono stati rifocillati con cibo e acqua” allo scadere del digiuno del Ramadan. Le truppe del regime si arroccano in una resistenza tenace: infestano il centro di Tripoli e l’aeroporto e Sirte, la città natale del rais, resiste. Nella capitale, i giornalisti sono stati liberati dall’hotel Rixos, ma i cecchini continuano a sparare dai tetti. Il capo dei ribelli, Mustafa Abdul Jalil, ha messo una taglia di due milioni di dinari sulla testa del rais, che ancora non si trova. In un messaggio audio, Gheddafi ha detto di essere ancora a Tripoli e di aver passeggiato in incognito per le vie della capitale, nella mattinata di mercoledì. Ora che anche il suo bunker di Bab al Aziziyah è caduto, però, è probabile che il rais voglia spostarsi verso sud, verso la regione desertica del Fezzan, nel sud della Libia, la sua roccaforte più solida, la zona del paese che deve di più a Gheddafi. E’ grazie alle nuove strade e alle massicce opere di irrigazione, tra cui il Grande fiume artificiale, l’acquedotto più grande al mondo, se la popolazione, da sempre costretta nelle oasi, ha potuto godere di un benessere che non fosse legato soltanto al petrolio, presente nel nord della regione. Il rais, nel Fezzan, è di casa: ha fatto le scuole superiori a Sabha, la città più importante della regione, e buona parte della sua tribù, originaria della costa, si è spostata in quelle zone. Sabha, dove ora sono di stanza i mercenari arrivati da Nigeria e Ciad, era al centro del programma nucleare sviluppato da Gheddafi. Le velleità atomiche sono state abbandonate, ma le strutture militari, con tanto di base dell’aviazione, restano ancora operative. Nel Fezzan, i disordini anti regime sono stati minimi, rispetto al resto della nazione. Martedì il colonnello ribelle Ahmad Bani ha detto che “Sabha sarà l’ultima roccaforte del rais, ma con l’aiuto degli abitanti la città cadrà, come già Bengasi, Misurata e Tripoli”. L’ex numero due di Gheddafi, Abdessalam Jallud, è partito per il Qatar, con la benedizione del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che l’ha definito “un personaggio che ha svolto in Libia un ruolo equilibrato e non si è macchiato di delitti”. L’incauta, quasi surreale, attribuzione da parte del ministro Franco Frattini di un attestato di piena attendibilità democratica all’ex premier libico, Abdessalam Jallud, rivela i progetti di Roma per la nuova Libia. Con Jallud, infatti, si completa la “corona” di collaboratori di Muammar Gheddafi che, dopo anni di complicità nelle peggiori imprese di terrorismo, hanno abbandonato per tempo la nave del regime e sono stati riconosciuti dai ribelli di Bengasi come interlocutori validi. Anche l’Italia, che ha avuto legami strettissimi con questi collaboratori, ritiene di poter contare su di loro in futuro. Jallud è sicuramente il più autorevole, perché è stato braccio destro di Gheddafi sino al 1993, e soprattutto perché ora è chiaro che l’improvvisa defezione della sua tribù – la al Magharia – è stata determinante nell’improvvisa conquista da ovest di Tripoli. La resa, guidata da Jallud, ha aperto la strada ai berberi, mentre le inefficienti truppe di Bengasi, da est, faticavano ad avanzare lungo la litoranea. Jallud, che ben conosce tutti i complessi rapporti tribali, è stato il responsabile della politica petrolifera della Libia, dal 1970 al 1993. Nel 1970 impose a tutte le imprese petrolifere rialzi esosi dei contratti con tale piglio che Andrew F. Ensor, plenipotenziario delle “Sette sorelle”, in un momento “caldo” della trattativa lo vide estrarre la pistola e metterla sul tavolo con la canna puntata al suo petto. La spuntò Jallud. Per le mani di Jallud passò anche il “lodo Moro”, che permetteva agibilità logistica ai terroristi palestinesi in Italia in cambio della sospensione degli attentati, così come le trattative per acquisizione e vendita del pacchetto azionario Fiat. Jallud, per nulla affidabile sotto il profilo democratico e per nulla innocente – come stranamente la Farnesina crede –, può essere determinante, nella nuova veste di “amico di Roma”, per frenare le mire petrolifere di Francia e Inghilterra. I due paesi capofila dell’intervento, infatti, intendono sfruttare i rapporti con i ribelli di Bengasi per sottrarre concessioni a Russia e Cina, che hanno appoggiato per troppo tempo il colonnello. Quella italiana è una scelta realpolitiker, che sarebbe bene sviluppare con discrezione invece di farne pubblico vanto, ma comprensibile, a difesa degli interessi energetici nazionali. Accanto a Jallud, l’Italia può contare sui buoni uffici dell’ex ministro dell’Interno di Gheddafi, Musa Kusa, che ha casa a Roma, sulla Cassia, e che ha defezionato quasi subito. Non va dimenticato anche Abdel Rahman Shalgam, ambasciatore della Libia all’Onu, che defezionò a febbraio e ha strettissimi rapporti con l’Italia, essendo stato a lungo ambasciatore a Roma. Insomma, nella nuova Libia, ora governata da buona parte dei più stretti collaboratori di Gheddafi, l’Italia ha eccellenti “amici” e leve su cui contare. Il protettorato turco La diplomazia italiana, oltre che con Francia e Regno Unito, deve fare i conti con una ripresa dell’attivismo turco sul fronte dei ribelli. Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, in visita martedì a Bengasi, ha rivelato una notizia spiazzante: i ribelli libici, da almeno un mese, sono a libro paga di Ankara. “Senza i soldi turchi non avremmo potuto pagare i salari e sopperire alle necessità di base – dice il capo del Cnt, Mustafa Abdul Jalil, che ha dato l’annuncio insieme a Davutoglu, in una conferenza stampa calibrata con sapienza (vietate le domande sui combattimenti a Tripoli, nessun accenno a Gheddafi). Per il leader dei ribelli, “Ankara ha trovato un nuovo metodo per i trasferimenti monetari, è il modo ‘alla turca’”, ovvero cento milioni di dollari in contanti, più cento milioni in progetti umanitari ed altri cento da intendersi “un dono” per le autorità di Bengasi. “Noi ci fidiamo della guida virtuosa di Mustafa Abdul Jalil, siamo al suo fianco e lo saremo fino alla fine”, ha detto Davutoglu ai giornalisti, con parole che ricordano la benedizione di Frattini a Jallud. Il tessitore della dottrina diplomatica turca, che aveva esitato a schierarsi all’inizio dell’operazione Odyssey Dawn, ora ammette pubblicamente di essere entrata, in anticipo e di forza, nella gara alle risorse libiche. Sono bastati trecentomila dollari per trasformare, di fatto, il Consiglio dei ribelli in un protettorato del secondo stato dell’Alleanza atlantica.
Il FOGLIO - Pio Pompa : " Non c’è peggior cieco"
Pio Pompa Iraq
Roma. Secondo fonti professionalmente qualificate, centinaia di informative d’intelligence sugli aspetti cruciali della crisi libica e sul coacervo incontrollabile delle forze ribelli verrebbero costantemente congelate non appena si passa alla fase di coordinamento dei flussi informativi. I dispacci vengono bollati come “scarsamente attendibili” a causa di una decisione “politica”, tacitamente condivisa all’interno della coalizione: bisogna evitare a tutti i costi che emergano i limiti e le contraddizioni di un conflitto destinato, salvo clamorosi imprevisti, a ripercorrere scenari di tipo afghano e iracheno. Visto attraverso le informative d’intelligence silenziate, il clima euforico di questi giorni non è destinato a durare. Il Consiglio dei ribelli di Bengasi, ad esempio, si sarebbe già strutturato secondo equilibri di potere complessi e decisamente precari. Bengasi sarebbe incapace di esercitare un controllo efficace sul paese, in preda a dinamiche intimamente legate alle realtà tribali. Le forze ribelli – un insieme di violente bande armate, dove ai clan si alternano le figure più disparate, dagli islamisti reduci da Afghanistan e Iraq a lealisti passati all’ultimo all’opposizione – si starebbero preparando a una sanguinosa resa dei conti, non appena arriverà il momento della rivendicazione dei meriti e della spartizione dei poteri. C’è quindi il rischio concreto, avvertono i dispacci, che la guerra libica si concluda con un doppio bagno di sangue: ai morti negli scontri con le forze del rais si sommerebbero quelli della caccia alle streghe indetta dai ribelli. I crimini contro l’umanità, a conti fatti, sarebbero riscontrabili su entrambi i fronti. E’ su questa miscela di odio e violenza, la stessa che si respirava a Kabul e Baghdad, che fanno affidamento Gheddafi e i suoi uomini, determinati a ritardare la resa finale, in attesa di trovare una via di fuga. L’odio e la violenza, però, non finiranno con loro, così come non finirono con la morte di Saddam Hussein, in Iraq. L’occidente festeggia, insieme ad al Qaida e agli integralisti islamici, la caduta del regime. La coalizione insegue gli affari e il sogno di diffondere la democrazia, i jihadisti quello di scardinare le dittature filo occidentali, mettendosi poi al potere.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Le milizie lealiste hanno soldi e armi proibite. E possono usarle per compiere attacchi terroristici "
Abdulassem Jalloud
I lealisti di Gheddafi non sono stati ancora sconfitti. Ci sono molte sacche di resistenza e neppure troppo piccole. A Tripoli regna la legge della giungla. Sono da temere colpi di coda letali? Molto dipenderà dall'eventuale cattura della Guida ma l'esperienza irachena ha mostrato che i nostalgici non si rassegnano e sono pronti a fare il patto con il Diavolo. La cacciata del tiranno può essere la fine ma anche l'inizio di un conflitto. I ricercati La Guida Muammar è ormai entrato nel cerchio dei Grandi Ricercati, un posto occupato prima da Osama e Saddam Hussein. Non mancano le analogie tra le tre «storie». A cominciare dalla taglia e dalla strategia della comunicazione. Per la cattura di Gheddafi è stata offerta una ricompensa di 1,6 milioni di dollari. Spiccioli se paragonati ai 25 per il raìs iracheno e altrettanti per Osama. I messaggi rilanciati da Gheddafi sulle tv arabe sembrano una ripetizione. Saddam si era fatto vedere nelle vie di Bagdad per dimostrare di essere ancora in controllo. Osama, per ben 10 anni, ha inondato le reti televisive e Internet con lunghi sermoni. Famosi i suoi discorsi dalla «grotta» — dopo l'11 settembre 2001 — poi audio e video che hanno spesso suscitato dibattiti sulla loro attendibilità. Propaganda, sproloqui ma che comunque hanno avuto l'effetto di mantenere alta l'attenzione. Il Colonnello punta a fare lo stesso. Il suo vecchio amico e collaboratore, Jalloud, ha sostenuto che il leader sogna di resistere a lungo. E quando gli alleati avranno terminato le operazioni aeree lancerà la «riconquista». Un miraggio nel deserto? Probabile, ma la Guida è convinta di avere ancora seguito. Agli altri «cattivi» è andata male. Saddam lo hanno giustiziato e Osama è stato liquidato dai commandos americani. Il terrorismo È già avvenuto a Bengasi dopo l'inizio della rivolta. I seguaci del leader hanno organizzato attacchi terroristici. Esplosioni, agguati, sparizioni. Tripoli e le altre città possono diventare come Beirut o Mogadiscio. Molti militari di Gheddafi sono degli specialisti in operazioni clandestine. Per anni hanno insegnato agli altri — dai palestinesi ai nordirlandesi dell'Ira — a confezionare autobombe. Ora potrebbero impiegare le stesse tattiche all'interno del Paese. Con due obiettivi: impedire qualsiasi forma di normalizzazione e provocare scontri all'interno di una società composita. Gli equilibri — con le divisioni Est-Ovest o quelle tribali — sono precari. Una strategia della tensione, alimentata con attentati e provocazioni, diventerebbe utilissima a quanti non si sono rassegnati alla sconfitta. Non va sottostimato un aspetto. Rispetto a Osama e Saddam, Gheddafi (con i figli) continua a disporre di enormi risorse economiche: almeno 50 miliardi di dollari (stima degli 007 francesi). Un tesoro di guerra in parte sfuggito alle sanzioni e al congelamento dei conti deciso dalla comunità internazionale. Con quel denaro può ingaggiare sicari, sponsorizzare gruppuscoli, comprare complicità per il suo piano. L'esecuzione sarà affidata agli agenti e ai miliziani che in questi anni hanno operato agli ordini di Abdallah Al Senussi, il responsabile dell'intelligence libica. Sfuggito alla cattura, ha lasciato nella sua residenza molta documentazione riservata sul ricorso a mercenari stranieri e ad altri «operativi». Armi proibite Il Pentagono ha comunicato ieri che tecnologia o sostanze legate alle armi di distruzione di massa sono state messe in sicurezza. Una precisazione arrivata dopo alcune analisi allarmanti uscite sulla stampa internazionale. In base a informazioni attendibili la Libia possedeva ancora 500-900 tonnellate di uranio grezzo che tuttavia non poteva essere usato — senza essere prima lavorato — per scopi militari. Per farlo sono necessari impianti ai quali il Colonnello ha rinunciato, ufficialmente, nel 2003. Qualche esperto, però, ha ipotizzato che i gheddafiani potrebbero cercare di realizzare una «bomba sporca», un ordigno in grado di contaminare molte persone. Uno scenario remoto ma che va comunque considerato. L'altro capitolo riguarda le armi chimiche. Era in programma — in base agli accordi presi — la distruzione di 23 tonnellate di gas ma l'operazione si sarebbe interrotta a causa di problemi tecnici. La sostanza rimasta — circa la metà — è stata trasferita in un bunker a sud della capitale libica. Nello stesso impianto vi sarebbero 1,3 tonnellate di prodotti chimici utilizzati per la messa a punto delle armi. I missili Poco prima dell'assalto a Tripoli, fonti americane avevano segnalato i rischi di un attacco missilistico su larga scala. Il regime — precisavano — poteva tentare un effetto sorpresa con una pesante scarica di missili terra-terra Scud. Vecchi ordigni di produzione russa che possono avere un forte impatto se lanciati sui centri abitati. E in effetti, i lealisti li hanno usati contro Misurata: dai 4 ai 5 ordigni tirati da postazioni vicino a Sirte. Secondo gli analisti le forze di Gheddafi avrebbero ancora oltre 200 Scud sistemati su mezzi semoventi. Il loro utilizzo è comunque complesso e la Nato, specie con l'aiuto dei velivoli senza pilota, può tentare di neutralizzare i veicoli durante la fase di preparazione. Più pericolosi possono essere i piccoli sistemi antiaereo manovrabili da un solo uomo. La Libia ne aveva acquistati a migliaia e durante la rivolta ne sono stati rubati a centinaia. Li hanno presi gli insorti ma anche trafficanti di armi. E così i vecchi Sam 7 sono apparsi nel cuore dell'Africa, in Algeria, nel Sinai egiziano e forse anche a Gaza. Basta anche un solo tiro azzeccato per distruggere un aereo passeggeri.
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