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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Giornale - Libero - Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
20.08.2011 Hamas: 'La tregua con Israele è finita'. Ma era mai iniziata?
Cronaca di Aldo Baquis, commenti di Vittorio Dan Segre, Carlo Panella, Francesco Battistini, Ely Karmon, Moni Ovadia

Testata:La Stampa - Il Giornale - Libero - Corriere della Sera - L'Unità
Autore: Aldo Baquis - Vittorio Dan Segre - Carlo Panella - Francesco Battistini - Francesca Paci - Moni Ovadia
Titolo: «Razzi sul Neghev. Israele colpisce Gaza - A chi conviene il ritorno della tensione - Il doppio imbarazzo palestinese dopo gli attacchi di Eilat - Sono come Arafat, parlano di pace e ci attaccano»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/08/2011, a pag. 12, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Razzi sul Neghev. Israele colpisce Gaza ", l'intervista di Francesca Paci a Ely Karmon dal titolo " Sono come Arafat, parlano di pace e ci attaccano ". Dal GIORNALE, a pag. 17, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " A chi conviene il ritorno della tensione  ". Da LIBERO, a pag. 12, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Israele sull'orlo della guerra ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 52, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Il doppio imbarazzo palestinese dopo gli attacchi di Eilat ". Dall'UNITA', a pag. 23, l'articolo di Moni Ovadia dal titolo " L'orologio della volenza  ", preceduto dal nostro commento.

Sullo stesso argomento, invitiamo a leggere i commenti di Angelo Pezzana e Deborah Fait, pubblicati in altre pagine della rassegna

Ecco i pezzi:

La STAMPA - Aldo Baquis : " Razzi sul Neghev. Israele colpisce Gaza "

Il Neghev israeliano, la striscia palestinese di Gaza e il Sinai egiziano hanno fatto ieri da scenario a una repentina estensione delle violenze, all’indomani del blitz mortale condotto da un nutrito commando palestinese a Nord della città israeliana di Eilat, affacciata sul Mar Rosso. Le ostilità non hanno risparmiato nessuno. Importanti città del Neghev sono state bersagliate da oltre 20 razzi Grad a media gittata sparati da Gaza. Diversi i feriti. La Striscia è stata sottoposta a una decina di raid dell’aviazione israeliana, impegnata anche a neutralizzare i lanci di razzi. E, come risposta, Hamas - al governo a Gaza - ha annunciato di «non ritenersi più vincolato da una tregua» con Israele.

Anche le forze militari egiziane hanno pagato un prezzo di sangue, colpite - denunciano - sia dal fuoco israeliano (tre morti) sia da quello di miliziani palestinesi (due morti). La febbre politica, in Egitto, è prontamente salita e animate manifestazioni anti-israeliane sono state condotte al Cairo e ad Alessandria. Su Facebook migliaia di egiziani si sono offerti candidati per andare a combattere contro Israele.

Gli attentati di giovedì (otto israeliani uccisi, fra cui sei civili) «hanno rappresentato per noi una sveglia» sostiene l’analista del quotidiano «Haaretz» Ari Shavit. «Ora sappiamo che il nuovo Medio Oriente è una realtà, è qui da noi». Quello che per decenni, a ridosso del Sinai, era un «confine di pace», adesso è - secondo Shavit - «un confine con il caos». Un «buco nero» da cui, in ogni momento, possono sbucare commando islamici armati.

I servizi segreti israeliani attribuiscono la paternità degli attentati di giovedì ai Comitati di resistenza popolare (Crp), una formazione palestinese che negli ultimi anni ha assunto un carattere fortemente islamico, armata e addestrata dall’Iran. Ieri da Gaza un’altra formazione islamica, al-Tahwid wal-Jihad, ha rivendicato la paternità di quella operazione. In ogni caso, affermano esperti israeliani, il terrorismo palestinese ha compiuto «un salto di qualità», riuscendo a infiltrare dal Sinai in territorio israeliano un commando di una ventina di uomini, a 250 chilometri dalla loro base di Gaza.

Mentre ieri proseguivano senza tregua i lanci di razzi sul Neghev e i raid israeliani su Gaza, sul piano politico si sono delineati in Israele due altri elementi di apprensione. Il primo riguarda l’Anp di Abu Mazen, che il mese prossimo chiederà l’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite. Non solo l’Anp non ha condannato gli attentati avvenuti a Nord di Eilat (fra cui l’attacco di un kamikaze contro un autobus di linea) ma anzi per bocca di Nabil Shaath - ex ministro degli Esteri - ha biasimato proprio Israele per aver poi colpito con un raid alcuni dirigenti del Crp.

La seconda fonte di apprensione riguarda il comportamento della giunta militare egiziana. «Se Hosni Mubarak chiudeva un occhio sul trafugamento di armi dal Sinai verso Hamas a Gaza, adesso gli egiziani li chiudono entrambi» ha esclamato Avi Dichter, un deputato del partito centrista Kadima che è stato un dirigente dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano. «Ormai si è spalancata verso Gaza una vera autostrada, per le forniture».

La «sveglia» menzionata dal giornalista Shavit è che ormai il Sinai rappresenta per Israele una minaccia strategica. Israele in questa fase cerca ancora di tenere in vita una cooperazione con l’esercito egiziano nel Sinai. «Anche questo poco è meglio che niente» ha osservato un funzionario israeliano. Ma se questo banco di prova fallisse crescerebbero le voci in Israele a favore di un intervento armato: ad esempio per la ripresa del controllo sull’asse Filadelfi, ossia sulla linea di demarcazione fra il Sinai egiziano e Gaza.

LIBERO - Carlo Panella : "Israele sull'orlo della guerra"


Carlo Panella

La seconda giornata consecutiva di scontri violenti con epicentro Gaza e il Sinai chiarisce la strategia di fondo dei gruppi fondamentalisti che giovedì hanno attaccato con due attentati terroristici a Eilat e nel Sinai e che ieri hanno lanciato 10 razzi contro una sinagoga e una scuola della cittadina israeliana di Ashkelon. Attacchi a freddo, ambedue su territorio israeliano non contestato dalla Anp, di cui sono stati vittime sia soldati israeliani che civili, a cui l'aviazione israeliana ha risposto con ripetuti raid aerei su Gaza, mentre reparti di terra inseguivano i terroristi nel Sinai, intercettandoli con uno scontro a fuoco in cui sono morte anche cinque guardie di frontiera egiziane. Il contesto in cui sono caduti questi egiziani ancora non è stata chiarito dalle autorità del Cairo e non è escluso che alcuni di loro facessero parte del commando che ha compiuto gli attentati nel Sinai e a Eilat. Le vittime dei raid israeliani su Gaza di venerdì dovrebbero essere 8, quasi tutti appartenenti alle forze armate palestinesi perché Hamas ha dichiarato che i raid aerei israeliani hanno colpito tre avamposti militari e una centrale elettrica. Secondo lo Shin Bet, il servizio segreto militare israeliano, tra i palestinesi uccisi a Gaza, quattro sono dirigenti del "Comitato di resistenza popolare", responsabile degli attacchi terroristici di giovedì. Al di là della affiliazione del gruppo terroristico del Sinai, così come di chi ha lanciato i 10 razzi da Gaza contro Ashkelon, è indubbio che questi attacchi si inseriscono in una escalation militare voluta di un coacervo di forze che possiamo definire "fronte del Jihad" che vede schierati Hamas, Hezbollah, la Siria di Assad e l'Iran di Ahmadinejad, più una galassia di gruppi minori. L'obbiettivo di questo fronte è arrivare ad una nuova deflagrazione bellica con Israele, per una complessa serie di ragioni. La Siria ha bisogno di alare subito le bandiere dell'unità nazionale contro il "nemico sionista" per scaricare al di là delle frontiere la tensione provocata dalla rivolta araba con le sue 2.000 vittime. Simile la situazione di un Iran che è riuscito a soffocare due anni fa la rivolta popolare dell'Onda Verde, ma che ora soffre il peso di sanzioni internazionali pesanti e che peraltro teme le conseguenze di una caduta del regime siriano alleato (strategico fornitore di tutti i prodotti sottoposti a sanzioni) e per di più affacciato sul Mediterraneo (a Latakia è in costruzione un porto militare iraniano). Hezbollah, da parte sua, deve scaricare contro Israele la tensione e l'isolamento interno prodotti dal mandato di cattura del Tribunale Onu per il Libano contro 4 suoi massimi dirigenti, accusati di essere i responsabili dell'attentato contro l'ex premier Rafik Hariri del 14 febbraio 2005. Una accusa infamante che dimostra come il movimento di Nasrallah non sia affatto il fulcro della unità nazionale, ma una banda di assassini e terroristi. Hamas, infine, in raccordo con i siriani e gli iraniani, soffre la marginalizzazione politica conseguente alla prima mossa diplomatica di notevole caratura da parte della dirigenza della Anp di Abu Mazen. La scelta di chiedere all'Onu di ammettere lo Stato di Palestina quale 194 Stato membro, anche se destinata al fallimento formale, rafforzerà infatti non solo il prestigio personale di Abu Mazen (che vedrà non meno di 130 su 193 paesi membri dell'Onu votarla), ma anche quello di Salem Fayyad, attuale primo ministro palestinese che Hamas rifiuta di accettare come primo ministro di un governo di coalizione. Dunque, molte ragioni complesse e forti che spingono tutte verso la deflagrazione di un imminente conflitto con Israele, tanto che ieri il portavoce dell'esercito israeliano, Yoav Mordehai, non ha escluso una operazione terrestre contro la Striscia di Gaza e ha dichiarato: «Se Hamas vuole una escalation pagherà un prezzo alto». Le forze di sicurezza sono state messe in stato di allerta in tutto Israele, ed è stato limitato l'accesso alla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme.

Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " A chi conviene il ritorno della tensione "


Vittorio Dan Segre

Non è vero - come affermano alcuni analisti - che i servizi di sicurezza israeliani sono stati presi di sorpresa dall'attacco terroristico di giovedì che ha fatto 8 morti e 33 feriti sulla strada di Eilat. Sapevano chi lo organizzava (i palestinesi Abu Oud al Nirab e Khaled Shaat); non potevano prevenirlo perché il gruppo aveva stabilito la sua base nei quartieri egiziani della città di Rafah che sta a cavallo della frontiera egiziana con Gaza e non volevano rompere i fili della cooperazione militare con l'Egitto con una azione preventiva. Non potevano chiudere il traffico nel sud del Paese senza provocare panico e perdite economiche. Non potevano che attendere sperando nei miracoli che in parte si sono avverati dal momento che le perdite umane avrebbero potuto essere molto più alte. Israele ha reagito immediatamente distruggendo la base operativa dei terroristi nella parte egiziana di Rafah (trasformata in un mercato di droga, armi, contrabbando e di cellule islamiste dilegate a al Qaida) sperando che la morte di tre soldati egiziani non provochi la rottura con il Cairo (che si dichiara estraneo all'attacco) e usando dell'occasione per dimostrare a Hamas (che si dichiara innocente dal momento che i terroristi operavano in terra egiziana) due cose: 1) che non ci sarebbe stata una offensiva del tipo di quella contro Gaza (27 dicembre 2008-18 Gennaio 2009 che con 1500 morti palestinesi e 3000 case distrutte fu una sconfitta politica e di immagine per lo Stato ebraico) ma operazioni mirate molto più efficaci che nel passato. 2) che l'attacco doveva servire a testare l'efficacia dei sistema missilistico anti missili a cortissima gettata. Sistema che ha intercettato ¾ dei missili lanciati da Gaza (uno ha causato un ferito colpendo una scuola religiosa a Ashkalon).
Che interpretazione si può dare a questa operazione terrorista? Dal punto di vista militare dimostra il più alto livello operativo dei terroristi: coordinamento di 4 attacchi, uso di missili e mine tele comandate, impiego di uomini disposti in un secondo tempo a trasformarsi in kamikaze, probabilmente alla periferia di Eilat. Dal punto di vista economico mirava a colpire il turismo israeliano in piena espansione; dal punto di vista politico intendeva rompere lo stato di pace fra Egitto e Israele che ha resistito ai ripetuti sabotaggi del gasdotto nel Sinai.
Siamo forse alla soglia di uno scontro militare con l'Egitto come un editorialista israeliano paventa? O a una intensificazione della guerra islamica contro il "piccolo satana" sionista guidata dall'Iran che dopo aver perso l'alleato siriano, vista compromessa la posizione degli Hezbollah in Libano teme l'estendersi della rivolta araba sul suo territorio? Oppure un desiderio di tutti gli Stati arabi di stornare l'attenzione su quanto succede in casa propria? Tutto è possibile ma per il momento improbabile.
Il terrorismo - la guerra dei poveri - alza la testa per sfruttare l'impotenza delle forze armate convenzionali arabe. Non solo perché sono impegnate a prevenire o a soffocare le rivolte dei propri popoli, ma perché tutti governi debbono sfamare la loro gente. I quattrini - anche nei Paesi produttori di petrolio - li detengono i militari che non possono più usarli per l'acquisto e la manutenzione dei costosissimi armamenti moderni.
Dal momento che Israele rimane nel'immaginario delle folle il nemico permanente e simbolico, non c'è nulla di meno costoso e politicamente più redditizio del terrorismo per dimostrare che la "guerra santa" continua. È una fase nuova di una vecchia guerra piena di pericoli ma anche di grandi opportunità per lo Stato ebraico. Uno Stato che in questo guazzabuglio deve soprattutto preoccuparsi di non lasciare offuscare la sua immagine di Paese economicamente stabile, politicamente democratico, socialmente vibrante, finanziariamente credibile e scientificamente avanzato. Tutto quello che il mondo arabo islamico con l'aiuto di non pochi nel mondo occidentale invidia, odia e vorrebbe veder scomparire.

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Il doppio imbarazzo palestinese dopo gli attacchi di Eilat "


Francesco Battistini

Chiunque sia stato a organizzare gli attacchi di Eilat e a scatenare la peggiore ondata di violenza in Israele degli ultimi trenta mesi — i gruppi filohezbollah di Gaza o i qaedisti del Sinai o tutti quanti insieme —, una cosa ormai è lampante: la Striscia non è più il monolite ideologico dei primi anni di Hamas e Hamas, anzi, ha qualche difficoltà a gestire le nuove strategie. Ci piacerebbe aver massacrato quegli israeliani, insistono i signori del terrore, ma stavolta non siamo stati noi.
L'importante non è quel che dicono, sapendo della loro ambiguità e non sapendo se per loro sia peggio ammettere l'impotenza o reclamare l'impunità. L'importante è vedere quanto Hamas si sforzi, senza riuscirvi, d'apparire quel che non è. Proprio all'ora della strage, il «líder máximo» Meshaal stava con tutti i suoi capataz al Cairo a negoziare il rilascio d'un ostaggio israeliano, il povero Gilad Shalit. E allora, delle due l'una: o sapeva dell'attacco, fingendo intanto di dialogare, o non ne sapeva davvero nulla. In entrambi i casi, le domande sono le stesse di quando fu ammazzato Vittorio Arrigoni: quant'è ancora in grado, Hamas, di controllare i jihadisti, i salafiti, i resistenti popolari e tutti i terroristi sciolti che albergano a Gaza? E quanto pesa, ancora, la leadership «siriana» dello stesso Meshaal, messo in crisi dalle rivolte popolari contro l'amico Assad che lo ospita a Damasco? Siamo di fronte alla solita ambiguità di chi stringe una mano e intanto arma l'altra? O forse, nella caccia al sionista, Hamas scopre che c'è sempre qualcuno più duro di te, pronto a scavalcarti?
Chiunque abbia organizzato la mattanza, oltre a riaccendere le polveri, un risultato l'ha raggiunto: indebolire anche il presidente palestinese Abu Mazen e la sua offensiva diplomatica che, da qui a un mese, lo porterà al voto Onu sull'autoproclamazione del nuovo Stato. Il successore di Arafat aveva abbracciato pubblicamente Meshaal, illudendosi di mostrare unità d'intenti. L'abbraccio potrebbe costargli caro: votereste un Paese nuovo governato da chi, nella migliore delle ipotesi, nemmeno controlla il cortile di casa sua?

La STAMPA - Francesca Paci : " Sono come Arafat, parlano di pace e ci attaccano "


Ely Karmon

Sono ore d’attesa e pessimismo in Israele. L’orizzonte appare nero sia visto dai kibbutz a ridosso di Gaza che dalle centrali operative dell’antiterrorismo come il prestigioso Institute for Counter-Terrorism di Herzliya, dove l’analista Ely Karmon riordina gli appunti di anni trascorsi a studiare il Sinai, ventre molle del confine teoricamente più pacificato.

Professor Karmon, a poche ore dall’attacco coordinato di giovedì Israele e Gaza sono sul piede di guerra. Vuol dire che l’Intelligence di Tel Aviv ha chiarito il quadro delle responsabilità?

«Israele ha risposto uccidendo Kamal Nirab perché la responsabilità diretta è dei terroristi di cui Nirab era leader, i Comitati Popolari di Resistenza, un gruppo attivo nel contrabbando via Sinai noto da almeno dodici anni. Il nucleo originario fa capo a una famiglia di Rafah, i Samhadana, ma si è poi esteso a membri di Fatah. Nel 2005 i Comitati passano dalla parte di Hamas, con cui organizzano il rapimento del militare israeliano Gilad Shalit, e da un po’ di tempo seguono una propria agenda ancor più radicale. Poi c’è probabilmente un secondo livello di responsabilità, magari la Siria attraverso Hezbollah. L’operazione del Sinai è tecnicamente complessa, rivela conoscenze altamente professionali»».

Pur lodandolo, i Comitati hanno negato la responsabilità dell’attacco. Se l’avessero firmato non sarebbero forse stati fieri di rivendicarlo?

«No perché non vogliono guastare le precarie relazioni con l’Egitto dove, a ragion veduta, contano che presto prendano il potere i Fratelli Musulmani. Il loro interesse è sabotare i colloqui di pace con Israele che potrebbero riprendere dopo il pronunciamento dell’Onu sullo Stato palestinese. Anche Hamas ha negato la sua responsabilità. Ma se l’Intelligence israeliana era a conoscenza dell’attacco pianificato nel Sinai pur ignorandone la tempistica, com’è possibile che Hamas, in controllo di Gaza, non ne sapesse nulla? Hamas usa la vecchia tattica di Arafat: chi sta al comando ostenta le mani nette della politica ma lascia andare avanti i gruppi minori».

Ricordava l’appuntamento di settembre alle Nazioni Unite. Non crede che per i palestinesi sia il momento sbagliato per ricorrere alle armi?

«I vertici di Hamas sono divisi tra la fazione politica e quella estremista, vale a dire tra chi ambisce alla legittimazione internazionale e chi vuole riprendere la guerra con Israele. Lo dimostra il fatto che la riappacificazione con Fatah sia rimasta sulla carta, una dichiarazione d’intenti buona solo tatticamente per arrivare al riconoscimento dell’Onu. Poi ognuno tornerà alla sua strategia. Per quanto riguarda i Comitati, invece, l’agenda è univoca: a loro non interessa l’Onu né la nascita di uno Stato palestinese accanto a quell’Israele che non riconoscono. Lavorano per creare caos e il Sinai, a rischio anarchia dal 2004, è il terreno ideale».

Cosa farà ora Israele?

«Israele deve essere cauto, muoversi con i piedi di piombo. In ballo ci sono le relazioni complicate con l’Egitto. Il regime al potere al Cairo sta facendo quello che può, ha mandato due battaglioni nel Sinai per riprendere il controllo del deserto. Ora la matassa da sbrigliare è complicata perché gli interessi dei vari gruppi attivi nel Sinai - i beduini ma anche gli jihadisti e i miliziani di Hamas - si sono sovrapposti, almeno sul piano tattico».

Dobbiamo attenderci a breve un nuovo conflitto con Gaza?

«Tra i propositi dell’attacco potrebbe esserci quello di mettere zizzania tra Israele ed Egitto o quello di fomentare un’escalation a Gaza. Ma i due contesti sono diversi. I militari che governano al Caironon hanno interesse a scontrarsi con Israele e potrebbero perfino raggiungere un accordo per aumentare le proprie forze nel Sinai, limitate dal trattato di pace. Gaza invece dipende da Hamas. Israele dal canto suo non è per ora intenzionata a un conflitto, ma se nelle prossime 48 ore i razzi sparati da Gaza dovessero fare vittime la situazione muterebbe».

L'UNITA' - Moni Ovadia : " L'orologio della volenza "

Moni Ovadia si scaglia con violenza contro il governo Netanyahu (definito 'banda bassotti'), contro Israele, contro l'Europa, contro gli Usa perchè non fanno ciò che, secondo lui, sarebbe la cosa più giusta: accettare l'autoproclamazione dello Stato palestinese a settembre e il tentativo di cancellare Israele. Ovadia sostiene che per porre fine alle violenze in Medio Oriente sia"  necessario che l’Europa e gli Stati Uniti sostengano con ogni mezzo diplomatico e politico la richiesta palestinese ". Niente di più lontano dalla verità. Appoggiare il ricatto di Abu Mazen significa una cosa soltanto, un conflitto con Israele. Ai palestinesi è questo che interessa, non uno Stato. Se avessero voluto uno Stato avrebbero potuto ottenerlo anni fa, in diverse occasioni, ma hanno sempre rifiutato.
Ecco l'articolo:


Moni Ovadia

L’orologio della violenza, nello scacchiere israelo- palestinese, si mette a funzionare ogni volta che lo status quo viene messo in discussione da iniziative anomale o eccentriche rispetto alla micidiale routine, di immobile ingiustizia, di frustrante inutilità delle iniziative del «quartetto» del nulla, della vuota retorica della Lega Araba e dei patetici impegni mancati dell’inquilino della Casa Bianca che non è riuscito a fermare neppure la costruzione di un cesso in quella rapina a danno dei Palestinesi che Bibi Netanyahu e la sua banda bassotti chiamano «espansione naturale». Questa volta è stato il mite Abu Mazen a gettare il sasso nello stagno dell'infame status quo con l’iniziativa di chiedere all’Onu il riconoscimento della dignità giuridica di Stato, a quella istituzione che con intento castrante è stata confinata alla condizione innaturale di «Autorità ». Con l’avvicinarsi della discussione alle Nazioni Unite sulla richiesta palestinese, che obbligherà l’intera comunità internazionale a rimettersi in gioco - in particolare la pavida Unione europea e l’azzoppato Barack Obama- ecco riproporsi con monotona puntualità la logica della violenza: l’ottusamente crudele esecuzione di civili israeliani (da parte di Hamas?) alla quale segue e seguirà l’altrettanto crudele ottusa reazione del rambo Ehud Barak che nel cervello al posto dei neuroni ha proiettili. Per dare speranza al futuro è necessario che l’Europa e gli Stati Uniti sostengano con ogni mezzo diplomatico e politico la richiesta palestinese, come con spirito di lungimiranza ha chiesto l’ex presidente della Commissione europea, il nostro Romano Prodi.

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