L’amore all’improvviso Aharon Appelfeld
Traduzione di Elena Loewenthal
Guanda Euro 16,50
La morte dell’avversario Hans Keilson
Traduzione di Margherita Carbonaro
Mondadori Euro 19
Il rifugio magico Norman Manea
Traduzione di Marco Cugno
Il Saggiatore Euro 19,50
I romanzi, diversi e molto affascinanti, di Keilson, Manea e Appelfeld rivelano una modalità narrativa comune
Quando è morto lo scorso 31 maggio, sette mesi prima di compiere 102 anni, Hans Keilson era stato appena scoperto negli Stati Uniti. Il «New York Times» l'aveva definito «uno dei più grandi scrittori del mondo» per un romanzo ripubblicato a più di mezzo secolo dalla sua prima apparizione, nel 1947, tra le macerie della vecchia Europa sconvolta dalla guerra e ancora impreparata a interrogare l'orrore appena attraversato: la storia, narrata in prima persona come una turbata e disturbante confessione, del legame di fascinazione che un giovane ebreo tedesco intesse con il persecutore che sta prendendo un devastante potere nel suo paese.
Keilsen nel 1939, lasciando i genitori che sarebbero morti ad Auschwitz, era fuggito in Olanda e aveva cominciato a scrivere La morte dell'avversario durante l'occupazione tedesca, mentre si nascondeva e prendeva contatti con la resistenza. Nel libro (ora apparso da noi nella buona traduzione di Margherita Carbonaro) non si parla dell'olocausto, ma la sua ombra incombente trasforma un'indagine psicologica in una potente profezia di catastrofe. Anche in altri due libri appena pubblicati, L'amore, d'improvviso di Aharon Appelfeld e Il rifugio magico di Norman Manea, l'olocausto non è un tema esplicito ma una sorta di sorgente oscura che trasforma e solleva la tonalità della narrazione: un richiamo epico che trasporta i personaggi, le situazioni, le relazioni, persino gli oggetti in una dimensione più densa e più vasta, che, come nel caso di Keilson, resiste al tempo e supera i confini spaziali.
Non si tratta di libri che vogliono competere con la letteratura testimoniale (a differenza di tanti romanzi in cerca di mercato che si servono dello sterminio ebraico per attribuirsi una nobiltà e una sostanza che non hanno). Qui la Shoah ha un senso diverso: appare come l'ultima epopea, o la vera epica del Novecento. Quasi una terribile replica dell'epopea omerica nel suo duplice aspetto: quello della carneficina e annientamento, e quello dell'erranza, del ritorno e della rammemorazione.
È il ritorno – anche nel senso, che gli attribuisce Martin Buber, del più autentico cammino dell'uomo – il tema centrale nella storia del vecchio pensionato di Appelfeld, che cerca le parole per dire un lutto e una rimozione. In L'amore, d'improvviso (tradotto con la consueta perizia da Elena Loewenthal) Ernest, che ha perso i genitori, la moglie e la figlioletta deportati dai nazisti da Czernowitz fino alle acque tombali di un fiume ghiacciato, trova nella giovane badante che lo assiste, nata dopo la guerra in un campo di smistamento di sopravvissuti, la musa fragile e necessaria che lo conduce nel paese perduto della memoria. Per anni ha scritto senza sapere cosa scriveva, e detesta quelle pagine che si sono ammassate nei cassetti e non contengono parole vere perché hanno ripudiato l'origine, o ciò che lui chiama il Dio dei padri. Solo quando Irena, la ragazza che non divide il passato e il presente con una rigida frontiera, gli restituisce con l'amore la reale prosa del mondo e del l'esperienza, troverà le parole che gli servono per scrivere davvero, quelle parole che «si possono porgere come una fetta di pane o una brocca di latte».
Appelfeld, che ha molti tratti biografici del suo protagonista e soprattutto come lui uno statuto di sopravvissuto, fa dire a Ernest: «Non basta la verità, la verità deve vestirsi di parole giuste, altrimenti suona artefatta, anzi, peggio ancora, finta o ipocrita». Anche Keilsen è in cerca della verità, e senza timore, anzi quasi con imprudenza programmatica, si incunea in quel l'insidioso terreno di lotta che è la relazione mentale tra il persecutore e il perseguitato, per penetrare in «tutta la confusione, gli abbagli», nei quali, racconta, «lui mi appariva come un demone e io legavo terribilmente la mia vita alla sua». Ma c'è un'altro terreno di scontro in cui intende cercare la verità, quello della storia. Scrive a metà del suo racconto: «Tutto segnalava quel che sarebbe venuto. O meglio, così è nel ricordo. Forse è ingannevole suddividere il tempo negli anni prima e dopo, come fanno i professori di storia, quando inventano la "historia" che intendono descrivere. L'accadere è diverso».
Per Manea non solo l'accadere è diverso, ma incessantemente, attimo per attimo, gli anni dopo, che Keilson sottolinea con il corsivo, sono minuziosamente costruiti dagli anni prima. Come Appelfeld e Keilson, anche Manea è un sopravvissuto, che ha conosciuto la fuga e l'esilio. Se Keilson ha trovato la propria strada nel paese dove si è rifugiato, diventando oltre che scrittore psicoanalista, se Appelfeld ha studiato e scoperto in Israele la sua vocazione di insegnante e poi scrittore, per Manea, scampato da bambino al lager nazista, l'unico asilo efficace è quello della letteratura. Poco conosciuto in Italia, ma molto apprezzato negli Stati Uniti – dove vive dal 1986 dopo essere stato perseguitato e censurato nella Romania di Ceausescu – e nei numerosi Paesi europei dove è tradotto, vincitore di importanti premi internazionali, è uno scrittore potente che chiede – lo fa letteralmente nel suo romanzo – al lettore di «abbandonarsi in balìa del testo», di viverlo, sopprimendo la logica e il buon senso. Ma Il rifugio magico ha la sua logica, simile, si direbbe a quella del professor Gora, uno dei personaggi del labirintico romanzo (ammirevolmente tradotto da Marco Cugno), che coltiva l'arte del necrologio: non «una semplice nota d'addio», spiega, ma «un memoriale rivolto alla posterità», nel quale allinea non soltanto la realtà dei fatti ma anche quella «delle ipotesi e dell'enigma», delle possibilità incompiute e delle congetture. Una logica che considera più interessanti di ciò che è ritenuto essenziale «le contraddizioni, le ambiguità, i segreti, i sotterfugi». La scena di Manea è un'America che appare agli esuli rumeni il paese del Presente, dove forse si può ottenere una vita facile ma non sconfiggere i fantasmi del paese del Passato. Qui approda un personaggio che, se riesce a fuggire dal comunismo, non può però fuggire dalla propria storia: Peter Gaspar è figlio di due scampati all'olocausto, i genitori lo hanno concepito – com'è accaduto alla badante del romanzo di Appelfeld – in un campo per rifugiati dopo aver perso tutto ciò che costituiva il loro mondo in un bagno di sangue e devastazione. In questa storia di picari intellettuali le immagini si sovrappongono: entrano in scena sotto nomi fittizi Mircea Eliade col suo passato nazionalista e fascista (Manea se n'è occupato in passato in un saggio che ha provocato numerose polemiche) e il suo allievo migliore, Joan Culianu, morto assassinato in un gabinetto del l'università di Chicago; una finta terrorista che è in realtà un'artista concettuale e il vero terrore dell'11 settembre; l'amore in una sua estenuata incarnazione senile e la malattia che la tecnologia lenisce e insieme rende insopportabile. E soprattutto entra l'eco degli autori amati, un lignaggio che Manea sembra rivendicare ostinatamente di fronte a una letteratura come quella odierna che aspira a poter fare a meno delle radici. Ma, anche qui, a sostenere il pathos degli eroi avventurosi quanto congetturali dello scrittore rumeno è la lontana ma non dimenticabile epica tragica che ha tagliato in due il Novecento, l'origine dolorosa del personaggio che incarna la traccia dell'olocausto. «Lui vivrà in un mondo diverso e noi insieme a lui», dice la madre di Peter al momento della sua nascita. Ma subito aggiunge: «Il mondo nuovo contiene quello vecchio, il passato vivrà anche in lui».
Elisabetta Rasy
Il Sole 24 Ore