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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
10.08.2011 Bashar al Assad ribadisce alla Turchia che continuerà con la repressione
e definisce 'terroristi' i manifestanti. Cronaca di Francesco Rigatelli, commento di Redazione del Foglio

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Francesco Rigatelli - Redazione del Foglio
Titolo: «Assad ad Ankara: non ci fermeremo colpiremo i terroristi»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/08/2011, a pag. 14, l'articolo di Francesco Rigatelli dal titolo " Assad ad Ankara: non ci fermeremo colpiremo i terroristi ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo "  Così le faide di Damasco e Bengasi dissolvono le certezze dei volenterosi".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Francesco Rigatelli : " Assad ad Ankara: non ci fermeremo colpiremo i terroristi "


Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri turco, con Bashar al Assad

La Siria è sempre più isolata. «Non rinunceremo a combattere i terroristi», il presidente Bashar Al Assad non si è ammorbidito davanti al ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ieri in visita a Damasco, anche se ha aggiunto che il suo impegno per le riforme è convinto. L’incontro bilaterale d’altra parte non è avvenuto nelle condizioni migliori. L’altro ieri le dure parole del premier turco Tayyp Erdogan: «Ho perso la pazienza». E nel frattempo l’opposizione siriana dava notizia della morte dell’ex ministro della Difesa Ali Habib, rimosso secondo alcuni per essersi rifiutato di continuare la repressione.

Tra Turchia e Siria ci sono 850 chilometri di frontiera attraversati da migliaia di profughi in fuga dal regime di Assad verso decine di campi allestiti provvisoriamente nella regione di Hatay. Un esodo considerato ormai un problema di politica interna dal governo di Ankara.

Oggi tocca a Brasile, India e Sudafrica tentare quella che potrebbe essere l’ultima chance di mediazione. Alcuni rappresentanti di queste potenze emergenti sullo scacchiere internazionale sono già a Beirut nel vicino Libano.

Intanto dall’estero cresce la pressione. Arabia Saudita, Bahrein e Kuwait hanno richiamato i loro ambasciatori in Siria, per l’Egitto siamo ad «un punto di non ritorno» e anche l’Iraq ha mandato un duro monito ad Assad. Che si aggiunge a quelli degli Stati Uniti, dell’Unione europea e della Russia.

Questo inedito schieramento internazionale potrebbe portare ad un nuovo impegno dell’Onu, finora limitatosi ad una dichiarazione per il veto di Cina, India e Russia sulla possibile risoluzione. Ma in quella dichiarazione c’era la domanda di un rapporto entro sette giorni sulla situazione. Così il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon oggi è pronto a prendere la parola sulla Siria.

Il FOGLIO - " Così le faide di Damasco e Bengasi dissolvono le certezze dei volenterosi "

Roma. L’assassinio del generale Abdel Fattah Younes ha aperto una drammatica crisi nel governo provvisorio di Bengasi, subito deflagrata in scontri armati tra miliziani delle varie fazioni della Cirenaica e poi sfociata in una patologica “crisi di governo”. Il capo del Cnt, Abdel Jalil, ha infatti richiamato di corsa in patria il primo ministro, Mahmoud Jibril, per operare un “rimpasto”. Un quadro sconfortante che rende sempre più fragile e difficilmente difendibile la scelta dei paesi Nato di scendere in guerra per difendere un Cnt dilaniato da faide interne. Il rimpasto punta a evitare la formazione di una commissione d’inchiesta sui mandanti dell’assassinio di Younes, sui quali si è subito aperta un’imbarazzante commedia degli equivoci a Bengasi: Abdel Jalil ha incolpato gli “emissari di Gheddafi”, mentre Ali Tarhouni, suo ministro delle Finanze e del Petrolio, ha dichiarato che l’ordine arrivava dai dirigenti del Cnt (e a Bengasi gira voce che la fonte sia lo stesso Jalil). Fortissima è la pressione sul Cnt da parte del “comitato del 17 febbraio”, in cui confluiscono i pochi ma rappresentativi leader di Bengasi che mai si sono compromessi con il regime di Gheddafi (di cui sono stati sempre complici invece Jalil, Jibril e lo stesso Younes), che chiede le dimissioni immediate di tre membri (su 31) del governo provvisorio. Innanzitutto di Ali al Essawi, il membro del Cnt che ha firmato il mandato di arresto di Younes che ha portato alla sua uccisione (dopo evidenti torture: il suo corpo è stato reso bruciato). Richiesta più che imbarazzante per la Francia, perché Essawi è il responsabile delle Relazioni internazionali del Cnt ed è stato più volte ricevuto all’Eliseo da Nicolas Sarkozy assieme al suo sponsor, Bernard-Henri Lévy. Gli altri due membri invischiati nell’omicidio politico sarebbero Jalal al Digheily, responsabile della Difesa, e il suo vice, Fauzi Aboukatif, già fuggiti – pare – da Bengasi. E’ in pieno sviluppo infatti la faida dei seguaci del generale assassinato, figura chiave del Cnt: lui aveva reso possibile a febbraio la secessione dei ribelli quando da guardiano della rivoluzione per conto di Gheddafi era diventato l’animatore di un ammutinamento che ha portato una parte dell’esercito a schierarsi con i ribelli. La disinformazione di Damasco C’è un giallo a Damasco: ieri l’agenzia israeliana Debka, fonte ufficiosa del Mossad, scriveva che il ministro della Difesa Ali Habib era stato ucciso a colpi di mitraglietta e non “dimissionato” da Bashar el Assad; per smentire le voci, Habib ha parlato alla televisione di stato spiegando che la dipartita è legata a motivi di salute (come da versione ufficiale), ma è ormai chiaro che il regime gioca sul meccanismo della disinformazione e dell’ambiguità per coprire le faide interne e i timori di un’azione militare turca in territorio siriano (come ha detto il premier di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, si tratta di un “problema domestico”, complici anche le tensioni curde sui due lati della frontiera). Ieri Assad ha ricevuto “l’ingiunzione ultimativa” da parte del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, a cessare la repressione; contemporaneamente Erdogan riuniva lo stato maggiore per mettere a punto un piano per l’intervento militare. Il colloquio tra il ministro degli Esteri turco Davutoglu e Assad è durato due ore e dopo le condanne Davutoglu ha tatticamente ripiegato: “Ci aspettiamo che la Siria inizi il suo programma di riforme al più presto”, ha detto.

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