Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Turchia e mondo arabo isolano la Siria, ma i massacri continuano Cronache di Redazione del Foglio, Alberto Stabile
Testata:Il Foglio - La Repubblica Autore: Redazione del Foglio - Alberto Stabile Titolo: «S’infiammano i curdi, Erdogan impone un ultimatum alla Siria - Il mondo arabo abbandona la Siria»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/08/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo " S’infiammano i curdi, Erdogan impone un ultimatum alla Siria ". Da REPUBBLICA, a pag. 19, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo "Il mondo arabo abbandona la Siria". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " S’infiammano i curdi, Erdogan impone un ultimatum alla Siria "
Recep Erdogan
Roma. Ieri è stato un giorno di svolta nella crisi siriana: la Turchia ha inviato un ultimatum minaccioso a Bashar el Assad, dando la sveglia ai paesi arabi. Oggi a Damasco arriva il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, inviato dal premier Recep Tayyip Erdogan per dettare al regime degli Assad un aut aut che, forse, preclude a una qualche forma di intervento militare. Il quotidiano Turkiye l’ha sintetizzato così: “La Turchia non può più stare a guardare quello che accade in Siria. Abbiamo perso la pazienza: se non farete riforme rapide, dovrete sopportarne le conseguenze”. Secondo fonti governative turche, citate dal quotidiano arabo Hayat, Erdogan ha detto, durante un iftar (la cena di rottura del Ramadan): “Abbiamo seguito la crisi siriana sin dall’inizio offrendo il nostro aiuto per cercare una soluzione, ma abbiamo ormai perso la pazienza: fino a quando si può governare gente rinchiusa in gabbia? Come è capitato a Hosni Mubarak, ‘man daqqa duqqa’ (chi picchia, sarà picchiato)”. Le motivazioni dell’interventismo turco non sono soltanto umanitarie. La regione attorno a Deir al Zor, in cui si scatena da settimane il martello della repressione di Maher el Assad, fratello del presidente, è infatti abitata da curdi – e confina in parte con quel Kurdistan turco in cui è ripreso con forza lo scontro tra militari di Ankara e il Pkk (il partito fondato da Abdullah Öçalan). Lo stesso Parlamento turco, al momento, è coinvolto in un duro scontro tra l’Akp di Erdogan e i deputati dei partiti moderati curdi. Ankara teme che gli scontri siriani contagino un Kurdistan sempre più instabile: oltre alla lotta del Pkk nella zona turca, si assiste a una piena ripresa dei combattimenti tra i peshmerga del Kurdistan iraniano e i pasdaran – l’unica parte pacificata è il Kurdistan iracheno, in pieno sviluppo economico. La Turchia è preoccupata anche da altre due notizie: le cinquemila defezioni nella settima brigata, che opera appunto a Deir ez Zor, e la diserzione – non confermata, ma data per certa da autorevoli fonti israeliane – del generale di brigata siriano Riad el As’ad (che avrebbe formato, con altri ufficiali, una Armata siriana libera). Ankara teme che il regime siriano, tanto feroce quanto palesemente incapace di contenere la rivolta, si sgretoli lasciando una Siria “balcanizzata”, in balìa di gruppi ribelli armati, liberi di agire senza alcun controllo. Le bande armate, ormai, agiscono in varie zone del paese e rispondono alla miriade di centri di comando – finanziati a volte dall’Arabia Saudita – di un’opposizione antibaathista frantumata. Un intervento armato turco, per quanto limitato alle zone di confine – secondo il progetto di una zona cuscinetto dove ospitare i profughi – avrebbe effetti deflagranti sugli equilibri interni alla Siria. La discesa in campo di Ankara, infatti, potrebbe far allontanare dal regime gli strati sociali agiati, anche sunniti, che, a differenza di quanto accaduto in Tunisia e Egitto, sono ancora arroccati nella difesa del regime, a Damasco come ad Aleppo (le uniche città immuni dalla rivolta). Come sempre più spesso accade, la posizione netta assunta da Erdogan ha spinto i paesi arabi a uscire dal loro prolungato silenzio. Ieri Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait hanno ritirato i loro ambasciatori da Damasco – una scelta che, nell’Ue, ha fatto soltanto l’Italia. Anche l’imam dell’Università islamica di al Azhar, Ahmed al Tayeb, è finalmente uscito dal silenzio: “La situazione in Siria ha superato ogni limite e non c’è altra soluzione che mettere fine a questa tragedia araba e islamica”. L’Onu, invece, è immobilizzata da un sempre meno convinto veto russo. L’Ue continua a discutere nuove sanzioni, una misura che sta dimostrando la sua inefficacia, in giorni in cui la conta quotidiana delle vittime si aggira attorno ai cinquanta morti.
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Il mondo arabo abbandona la Siria "
Re Abdullah, Arabia Saudita
Con una mossa che marca un ulteriore smottamento del regime siriano verso l'isolamento internazionale, non soltanto nei confronti del'Occidentema nell'ambito della stessa comunità dei paesi arabi, il sovrano saudita, reAbdullah bin Abd el Aziz, ha condannato, come «inaccettabile» la sistematica repressione della protesta civile per mano dei servizi di sicurezza siriani, ammonendo il rals di Damasco, Bashar Al Assad, a promuovere un programma di «vere riforme e non semplici promesse, prima che sia troppo tardi». Le parole insolitamente dure della dichiarazione; lasceltadi accompagnare l'avvertimento con la decisione di richiamare l'ambasciatore saudita a Damasco "per consultazioni", decisione prontamente condivisa anche dal Kuwait e dal Bahrein, due "satelliti" che, assieme all'Arabia Saudita, fanno parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo: tutto questo segna una rottura tra Riad e Damasco che potrebbe avere gravi conseguenze. Non che i rapporti tra Siria edArabia Saudita siano stati mai i d illiaci. Al contrario, nel processo di polarizzazione in atto in Medio Oriente negli ultimi 20 anni, le due capitali hanno trovato collocazione in campi contrapposti: Damasco ha scelto quello che un tempo veniva chiamato il fronte del rifiuto, e che Bush ha ribattezzato "Stati canaglia", in compagnia dell'Iran e delle milizie satelliti (Hamas, Hezbollah). Riad è sempre stata alleata di Washington. Naturalmente, non potendosi combattersi apertamente, Siria eArabiaSaudita hanno provato a lavorare insieme, per esempio nel recente tentativo, fallito, di risolvere la crisi libanese. Ora, decidendo di rompere un silenzio carico di apprensione, mantenuto sin dall'inizio della protesta siriana, ametàmarzo, re Abdullah ha gettato sulla bilancia il peso della sua leadership non soltanto politica ma religiosa, di "guardiano" dei luoghi santi (la Mecca e Medina) e, in un certo senso, di capo della comunità dei musulmani di credo sunnita. E qui bisogna ricordare che la Siria è un paese a stragrande ma y oranza sunnita dominato da 40 anni da un clan, gli Assad, appartenente alla minoranza alawita, una setta facente capo alla componente sciita dell'Islam. Dunque, un intervento, quello del sovrano saudita, che sembra sottolineare le ragioni dell'appartenenza alla stessa fede religiosa, nel contesto di uno scontro tra alawiti e sunniti, più che le rivendicazioni di libertà, democrazia e dignità umana. D'altronde, reAbdullah non mai ha mostrato alcun interesse verso la "primavera araba", anzi ne ha sempre diffidato, temendo cheilcontagio potesse toccare ilsuo paese. E' probabile che Assad, anche dopo la presa di posizione saudita, non cambierà la suastrategia. Ilchevuoldire: promessevuotedaunlato, pertranquillizzarelacomunità internazionale e feroce repressione della protesta, dall'altro. Come quella in atto a Deir az Zur, la quinta città del paese, dove secondo alcune [estimo manze i servizi di sicurezza, appoggiate dalle truppe corazzate avrebbe già provocato 65 morti, tra cui una madre e i suoi due bambini. In serata da Damasco è giunta la notizia che il rals ha ordinato la sostituzione del ministro della DifesaAl Habib. Ma si tratta di un modesto corn-primario, essendo il controllo dell'apparato militare nelle mani del fratello di Assad, Maher, e del cognato, Assef Shawkat.
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