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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Corriere della Sera - Il Giornale - Il Foglio - Avvenire Rassegna Stampa
03.08.2011 Siria, l'Italia richiama l'ambasciatore per protesta contro il regime
Cronaca di Maurizio Caprara, commenti di Vittorio Dan Segre, Luigi Ippolito, Redazione del Foglio, intervista a Franco Frattini di Paolo Lambruschi

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale - Il Foglio - Avvenire
Autore: Maurizio Caprara - Vittorio Dan Segre - Luigi Ippolito - Redazione del Foglio
Titolo: «Siria, la mossa dell’Italia. Richiamato l’ambasciatore - Siria, il sangue non basta a smuovere le cancellerie. Ci sono troppe incognite - Roma alza la voce con la Siria. Adesso l'Europa segua la Farnesina - Frattini: fermare i massacri, mettiamo Assad all»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/08/2011, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Caprara dal titolo " Siria, la mossa dell’Italia. Richiamato l’ambasciatore ", a pag. 33, l'articolo di Luigi Ippolito dal titolo " Roma alza la voce con la Siria. Adesso l'Europa segua la Farnesina  ". Dal GIORNALE, a pag. 13, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " Siria, il sangue non basta a smuovere le cancellerie. Ci sono troppe incognite ". Dal FOGLIO, a pag. 1-3, l'articolo dal titolo "  E se bombardassimo il regime siriano? Non sarebbe una buona idea". Da AVVENIRE, a pag. 5, l'intervista di Paolo Lambruschi a Franco Frattini dal titolo " Frattini: fermare i massacri, mettiamo Assad all'angolo "
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Maurizio Caprara : " Siria, la mossa dell’Italia. Richiamato l’ambasciatore "

ROMA— Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri che la condivide, la definisce una «provocazione diplomatica» . La Farnesina ieri ha fatto sapere che «di fronte all’orribile repressione contro la popolazione civile in Siria il ministro degli Esteri Franco Frattini ha dato istruzioni per il rientro in Italia del nostro ambasciatore a Damasco, Achille Amerio, per consultazioni» . Il ministero ha aggiunto che l’Italia ha proposto anche «il richiamo degli ambasciatori di tutti i Paesi dell’Unione Europea» . La misura dà l’idea di quanto siano ristretti gli spazi di manovra per i governi occidentali davanti all’inasprirsi della repressione contro le proteste antiregime in Siria, una brutalità che ha prodotto da marzo— secondo quanto riepilogato dal sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi alla Camera — 1.600 civili uccisi, 12 mila arresti, tremila desaparecidos. Interventi militari internazionali in appoggio ai ribelli in un Paese che si trova tra Iran e Israele sono al momento esclusi, le parole di condanna non appagano le opinioni pubbliche dei Paesi democratici mentre la Nato bombarda forze di un dittatore in Libia, più Stati tentano di farsi vedere impegnati per le libertà dei siriani e la situazione peggiora. Dice Mantica: «Che facciamo? Assistiamo impotenti al massacro di Hama e senza far nulla? Certo, è importante che altri Paesi ci seguano» . Almeno ieri, l’Unione Europea non ha assecondato il passo italiano che era previsto portasse Amerio a Roma nella notte appena trascorsa. «Resterà a Damasco a sorvegliare la situazione» , ha informato un portavoce dell’alto commissario per la politica estera Catherine Ashton parlando del rappresentante europeo in Siria, Vassilis Bontosoglou. «Per ora non c’è decisione generalizzata di ritirare ambasciatori» , ha aggiunto sui 27 Stati membri. L’Italia nell’Ue è per la Siria il primo Paese acquirente, il terzo fornitore. Sui richiami, la Farnesina spera di essere imitata. Di certo, il viaggio di Amerio accentua l’inversione di rotta rispetto a quando, il 14 febbraio, Frattini fu ricevuto da Bashar el Assad nell’imponente foresteria del presidente su un colle di Damasco. «Assad si è dimostrato incapace di gestire efficacemente l’ondata di protesta promettendo riforme senza darvi seguiti» , ha riconosciuto Stefania Craxi, a nome del governo, alla Camera. Adesso, ha messo in evidenza, l’incandescenza siriana «porta con sé un forte rischio di propagazione ai Paesi vicini» e ne ha segnalato «un indice» anche nell’attacco a militari italiani della missione Unifil il 27 maggio in Libano. Alessandro Ruben, deputato che accompagnò Gianfranco Fini nella prima visita in Israele, chiede a Frattini di andare a Damasco per «accelerare l’azione diplomatica» . Difficile. Al momento è l’ambasciatore a tornare a Roma.

Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Siria, il sangue non basta a smuovere le cancellerie. Ci sono troppe incognite "


Vittorio Dan Segre

Nel 1830 il ministro della guerra francese Sebastiani commentò la repressione russa della rivolta polacca con una frase rimasta famosa: «L’ordine - disse - regna a Varsavia». A distanza di quasi un secolo e mezzo molti politici vorrebbero poter dire la stessa cosa a proposito della rivolta in Siria che ha già fatto più vittime in quel paese che le guerre con Israele. Infatti esse temono (come fu il caso dell’America nella prima guerra d’Irak nel 1991) che il costo di un possibile smembramento dello stato siriano (paese di 18 milioni ma mosaico di identità religiose e etniche) sia maggiore del costo di una sanguinosa repressione.

Lo si è visto al Consiglio di Sicurezza lunedì dove nonostante l’apparente sostegno alle sanzioni da parte della Russia (tradizionale fornitrice di armi a Damasco) non si è deciso nulla. Lo si percepisce dai tentennamenti turchi preoccupati dal possibile caos lungo le loro frontiere meridionali. Lo si interpreta dal silenzio di Israele preoccupato, per simili ragioni per la sua frontiera settentrionale che il regime di Damasco, pur rifiutando la pace e armando gli Hezbollah nel libano, ha mantenuta calma per oltre trenta anni. Lo si vede del fragoroso silenzio della Lega araba che nella Siria ha sempre onorato il fulcro storico, ideologico e politico della (inesistente) unità araba.

La reazione violenta del presidente Assad alla rivolta continuerà anche se in forma meno crudele di quella del padre che si vantò nel 1982 di aver creato a Hamma il più ampio parcheggio di automobili del paese sulle rovine della città e sui corpi di 22 mila rivoltosi sino a che il regime godrà dell’appoggio dei militari. Che è un appoggio dovuto a una congiunzione di lealtà etnica-religiosa e paura. Quella di perdere oltre ai privilegi del potere la vita stessa. Gli alawiti denominati anche nusseiris rappresentano il 12% della popolazione. Sono una minoranza legata a un culto segreto di origine islamica sciita considerata eretica tanto dai sunniti quanto dagli sciiti (per il suo credo in una Trinità formata da Maometto, Ali suo successore martirizzato e Salam al Farisi l’unico Compagno persiano del Profeta). Emarginata sin dall’epoca ottomana, impoverita e oppressa specie nella zona di residenza montagnosa di Latakia, venne utilizzata dai francesi, al tempo del loro mandato sul Levante per formare truppe speciali allo scopo di combattere il nazionalismo arabo. Il che li rese ancora più odiati dal resto della popolazione. Molti alawiti , educati nelle scuole militari di Parigi, al momento dell’indipendenza della Siria occuparono i posti chiave del potere (col colpo di stato del 1963 che portò il partito Baath e il generale Hafez el Assad al potere). In questo momento ci sono voci di rottura fra le dirigenze del regime e la classe imprenditoriale (in maggioranza sunnita). Sarebbe un cambiamento importante. Ma non basterà ad abbattere il regime.

La «pace» tornerà a Damasco solo se i Fratelli musulmani (che non dimenticano la strage di Hamma) e le altre correnti rivoluzionarie garantiranno alla dirigenza militare e politica alawita la sopravvivenza fisica in caso di vittoria della rivoluzione. Il che non sarà facile realizzare. Nel frattempo il clan degli Assad e la dirigenza militare e politica si batte non per salvare un regime ormai screditato ma per salvare la propria vita. In questo scontro sanguinoso nessuno dal di fuori è disposto (al contrario della Libia) a intromettersi. Anche perché la Siria non ha acqua (viene tutta dalla Turchia) e pochissimo petrolio.

CORRIERE della SERA - Luigi Ippolito : " Roma alza la voce con la Siria. Adesso l'Europa segua la Farnesina "


Bashar al Assad 

Bene ha fatto l’Italia a richiamare l’ambasciatore a Damasco, dando una scossa al sostanziale attendismo della comunità internazionale. Perché se è vero che la Siria non è la Libia, e non è dunque ipotizzabile un intervento diretto senza rischiare di far saltare l’intera polveriera mediorientale, è anche vero che non si può restare a guardare indifferenti un dittatore che massacra il suo popolo. E un segnale diplomatico forte è proprio quanto chiedevano in questi giorni gli attivisti siriani scesi in strada a sfidare le cannonate. Dunque richiamo degli ambasciatori, sanzioni, isolamento diplomatico, per far capire al regime di Assad che la strada della repressione non conduce da nessuna parte e sperare così che si possano aprire delle crepe nella cerchia interna del potere, come è già accaduto in Egitto e Tunisia con gli eventi che hanno condotto alla defenestrazione di Mubarak e Ben Ali. Ora c’è da sperare che l’iniziativa dell’Italia non resti isolata e che non si trasformi in una fuga in avanti priva di conseguenze effettive. Per questo Roma dovrà lavorare a rinserrare le file dell’Europa e a coagulare attorno a sé il consenso dei 27 per riuscire a esercitare una pressione davvero significativa sul governo di Damasco. Anche perché il fronte internazionale si presenta tutt’altro che compatto. Alle Nazioni Unite la proposta di risoluzione di condanna della Siria, caldeggiata dagli occidentali, si scontra con l’ostruzionismo dei Brics, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Non sono dunque soltanto regimi autoritari come quelli di Mosca e Pechino che puntano i piedi, ma anche le democrazie consolidate del mondo emergente. Un segnale eloquente dello smottamento degli equilibri globali, con gli occidentali, Stati Uniti in testa, che non sono più in grado di imporre la loro agenda al resto delle nazioni. A maggior ragione dunque l’Europa dovrà presentarsi con un fronte compatto, in un mondo dove il peso degli «altri» non è più trascurabile.

Il FOGLIO - "  E se bombardassimo il regime siriano? Non sarebbe una buona idea"


Siria

Roma. L’intervento in armi contro il regime di Bashar el Assad non è “nemmeno una remota possibilità” per il ministro degli Esteri britannico William Hague e da Parigi la portavoce del ministero degli Esteri della Francia, Christine Fages sottolinea che “le situazioni in Libia e in Siria non sono simili” e “non è prevista alcuna opzione di natura militare” contro il regime di Damasco. Lunedì il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha precisato che nello scenario siriano mancano due condizioni fondamentali – e quasi impossibili – per un eventuale intervento dell’Alleanza Atlantica: una risoluzione dell’Onu che autorizzi l’uso della forza e la coesione dei paesi dell’area mediorientale a sostegno di un’iniziativa militare. Gli analisti sostengono che l’intervento non si può fare, e che se si facesse finirebbe male. Ecco perché. Ancora insabbiati in Libia. La Nato non ha le capacità militari per un’azione risolutiva nei confronti del regime siriano considerato che i contributi offerti dai singoli partner sono per ora inadeguati persino a sconfiggere la Libia di Gheddafi, che sul piano militare dispone di forze almeno dieci volte inferiori per tecnologia e capacità al dispositivo bellico di Damasco. Gran Bretagna e Francia, che sostengono insieme oltre il 60 per cento dello sforzo della guerra, cominciano a lamentare problemi di affaticamento del personale e carenze di armi e dipendono sempre più dagli Stati Uniti per i supporti. Il 26 maggio scorso il Pentagono ha ammesso ufficialmente di fornire bombe e componenti alle forze europee per sostenere lo sforzo bellico sulla Libia. Un problema che non riguarda per ora l’aeronautica italiana ma che ha invece determinato il rientro a Taranto della portaerei Garibaldi perché i suoi cacciabombardieri Harrier, protagonisti di centinaia di sortite, hanno esaurito bombe e missili. La Siria è un osso troppo duro. Le forze siriane sarebbero in grado di opporre una discreta resistenza con i 450 cacciabombardieri (un centinaio i Mig 29) e soprattutto con le centinaia di batterie di missili antiaerei anche molto moderni come i SA-22, i Pantsyr, SA-11 e 19, il meglio delle armi di difesa aerea che la Russia da tempo fornisce al suo migliore cliente mediorientale. Damasco potrebbe poi impiegare decine di missili balistici SS-21 e Scud armati di testate chimiche e biologiche. Gli Scud D, prodotti in Corea del nord, hanno un raggio d’azione di 750 chilometri e possono colpire Israele, Cipro, l’Iraq, la Turchia e altri paesi dell’area. Chi mette le basi per i bombardieri? La risoluzione 1.973 dell’Onu vieta categoricamente ogni azione di terra in Libia. Visti i precedenti e la delicatezza della regione, è improbabile che anche un’operazione in Siria possa sottrarsi all’imperativo del “no boots on the ground”, ovvero: no a un’operazione di terra. Ma da dove possono decollare droni e caccia della coalizione? La Siria è circondata da paesi che non si opporrebbero all’intervento, ma che nemmeno hanno la minima intenzione di concedere le proprie basi militari – per una questione ovvia di equilibri regionali nessuno vuole apparire complice dell’attacco da fuori a uno stato arabo confinante, soprattutto se il finale è incerto. L’elenco delle basi disponibili in Iraq – quelle americane –, in Turchia (la seconda potenza militare della Nato), a Cipro e in Egitto è nutrito, ma non bisogna farsi illusioni, nessuna sarà disponibile. Israele non può muovere un dito per non incendiare tutto il settore. Per rimediare alla realpolitik degli alleati, i raid sarebbero lanciati da una flotta che stazionerebbe al largo delle coste siriane, con una cautela: nessun mezzo della coalizione può avvicinarsi al porto di Tartous, sede di un’importante base della marina russa. Un incidente con la flotta di Mosca, già contraria all’intervento, complicherebbe irrimediabilmente la missione, vanificando anni di impegno sul fronte già debole del “reset” con la Casa Bianca. Boots on the ground? Una volta demolito il potenziale di difesa aerea siriano resterebbero poi le incognite di un intervento terrestre. In Libia Gheddafi fa i conti con milizie disorganizzate ma armate. Assad ha invece come nemici soltanto civili disarmati che protestano in strada. In assenza di ammutinamenti in massa dei 480 mila militari dell’esercito (per tre quinti coscritti) che dispongono di quattromila carri armati (per metà T- 72), 3.500 blindati e 1.500 cannoni, fermare il regime significherebbe opporsi a Damasco con un’operazione di terra. L’ipotetica forza d’invasione sarebbe simile per numeri e composizione a quella che conquistò Baghdad nell’aprile 2003. Un’opzione impensabile con l’attuale assetto politico e finanziario dell’occidente. Il veto al Palazzo di Vetro. La posizione intransigente della Russia e della Cina già si impone adesso e si imporrà con ancora più forza al Consiglio di Sicurezza in caso di intervento militare anche soltanto ipotizzato. L’Onu non si pronuncerà neanche con una risoluzione di semplice condanna delle stragi di Bashar el Assad, senza alcuna conseguenza operativa, né militare, ma al massimo approverà una inutile raccomandazione non vincolante. Il veto cinese è inerziale: ogni occasione è buona per Pechino per mandare un messaggio da “potenza mondiale” a Washington. Il veto russo invece è vitale: la Siria è infatti tornata ad essere l’unico paese su cui Mosca può contare nel Mediterraneo e in medio oriente. Il 10 maggio scorso Dmitri Medvedev ha fatto visita a Damasco e ha consolidato quell’asse tra Damasco e Mosca, che fu centrale per la politica estera dell’Urss. A Tartous e Latakia fervono i lavori per le due basi per la flotta russa e i tank che sparano a Hama, i T-72, sono forniti dalla Russia, così come i proiettili e tutto l’armamento siriano, aviazione compresa. Tanto basta perché Mosca faccia di tutto per impedire ogni replica della Libia. Dove colpire? L’aviazione siriana non ha una prontezza e una potenza di fuoco paragonabili a quelle della Coalizione impegnata in Libia – c’è da ricordare che i jet israeliani che attaccarono nel 2007 un impianto nucleare segreto vicino a Deir al Zour – una città dove oggi i carri armati sparano contro i cortei di protesta – erano già tornati in patria prima che i caccia siriani riuscissero anche soltanto ad alzarsi in volo. Bisognerà imporre comunque una “no fly zone”, per poi passare a un intervento più selettivo, a tutela dei civili nel mirino del regime. Le basi aeree da neutralizzare sono venticinque, più due aeroporti a uso esclusivamente civile, il Bassel al Assad di Latakia e quello di Palmyra, più all’interno del continente. Anche la marina militare di Damasco, per quanto non temibile, andrà messa in condizione di non nuocere. I porti da attaccare sono tre, quattro compreso quello intoccabile di Tartous – un attracco delicato, dove c’è personale della flotta russa del Mar Nero. A quel punto, senza la minaccia di essere abbattuti, gli aerei alleati potrebbero colpire i battaglioni corazzati con cui il regime degli Assad sta setacciando le città ribelli. Oltre ai carri armati, si potranno colpire le basi dell’esercito più isolate, ma difficilmente si potrà mirare ai punti di comando dell’esercito, troppo integrati all’interno dei nuclei urbani. Per evitare che Damasco reagisca lanciando missili sui paesi vicini, si dovranno bombardare anche basi come quelle di Al Safir, vicino ad Aleppo, e di Adra, 25 chilometri a nord della capitale, dove, al fondo di una ripida valle desertica, sarebbero custodite le decine di missili Scud in grado di colpire a centinaia di chilometri di distanza. La rappresaglia contro Israele. Hezbollah è il grilletto puntato da Damasco su Israele: a un intervento militare in Siria seguirebbe, verosimilmente, un’immediata rappresaglia del Partito di Dio. Nel 2006, durante la guerra con Israele, Hezbollah lanciò 4.000 razzi oltre il confine sud e dalla fine delle ostilità l’arsenale del movimento islamico è cresciuto rispetto a prima in modo esponenziale, con l’aiuto di Iran e Siria: le ultime stime dell’intelligence di Gerusalemme calcolano che Hezbollah può contare oggi su 40 mila missili; non più soltanto a corta gittata, ma anche i razzi Scud a lunga gittata, di probabile provenienza iraniana, in grado di colpir Tel Aviv e Gerusalemme. E il gruppo libanese si è preparato anche a resistere alla risposta di Israele. Nel 2010, un documento dell’intelligence israeliana ha rivelato le postazioni segrete di Hezbollah lungo il confine: 550 bunker usati come depositi di armi, trecento posti di sorveglianza e altri cento depositi nascosti tra i villaggi. Sul confine sud di Israele, invece, il regime degli Assad potrebbe contare sull’azione di Hamas, la cui leadership da anni vive e opera a Damasco, sotto la protezione dello stato: in risposta a un attacco contro le forze di sicurezza della Siria, razzi Qassam e Grad cadrebbero sul sud di Israele in pochissimo tempo. La rappresaglia in Iraq. Il regime di Teheran non assisterà in silenzio alla caduta di Damasco, testa di ponte della grande alleanza sciita. L’Iran ha già spedito i suoi uomini in Siria per offrire le proprie competenze al regime degli Assad – alcuni aiutano nella repressione, altri offrono servizi tecnici, come la costruzione di una rete elettronica per intercettare o bloccare le comunicazioni dei ribelli, con le stesse tecnologie di Nokia Siemens Networks collaudate nella repressione dell’Onda verde, nell’estate del 2009. L’azione più velenosa che Teheran può mettere in atto, però, colpisce in territorio iracheno. Da mesi la minaccia più seria per la stabilità dell’Iraq viene dal sud del paese: è il frutto della rappresaglia dei miliziani del predicatore sciita Moqtada al Sadr, che, dopo tre anni di “studi” in Iran, è tornato ad agitare la rivolta contro il governo di Baghdad e i militari americani. Ritornato alla sua Najaf, al Sadr ha ripreso saldamente le redini della dissolta armata del Mahdi, fondando le Brigate del Giorno promesso. La forza Quds, branca dei pasdaran iraniani specializzata nelle operazioni all’estero, fa la spola tra Teheran e l’Iraq, dove al momento sostiene tre gruppi armati: la Lega dei giusti (Asaib al Haq), le brigate Hezbollah (Kataib Hezbollah) e, appunto, gli uomini di Moqtada al Sadr. A questi va aggiunto l’appoggio ai terroristi di al Qaida, contro cui ha puntato il dito il dipartimento del Tesoro americano la scorsa settimana. Secondo le accuse di Washington, il regime iraniano ha contatti diretti e costanti con almeno sei membri dell’organizzazione fondata da Osama bin Laden. Il canale principale è diretto verso l’Afghanistan, ma tra i nomi elencati dal Tesoro c’è quello di Umid Muhammadi, che viene descritto come “un uomo chiave per al Qaida in Iraq”. Se Damasco fosse attaccata, per Teheran sarebbe molto facile tirare tutti questi fili, orchestrando una rappresaglia violenta in grado di colpire le truppe americane e gli interessi occidentali in Iraq. L’opposizione siriana c’è. Addurre il poco peso dell’opposizione siriana tra le motivazioni dell’immobilismo occidentale ha del tragicomico. Ancora meno si sapeva dell’opposizione in Tunisia ed Egitto e tanto poco si sapeva della composizione del Cnt libico, per cui conto la Nato fa la guerra, che ora si scopre che l’autore del putsch che ne ha reso possibile la nascita, il generale Fattah Younis al Obeidi, è stato ucciso da seguaci del presidente Jalil, tanto che a Bengasi i partigiani delle due fazioni del Cnt si stanno sparando. Il panorama siriano è noto: forte l’impianto dei Fratelli Musulmani, soprattutto a Hama. Poi, una miriade di organizzazioni che il 17 luglio a Istanbul hanno formato un Consiglio di salute nazionale diretto da figure di alto profilo come Walid al Bunni e Haitham al Maleh. Sullo sfondo, l’ambigua figura dell’ex braccio destro di Assad, Abdel Halim Khaddam, fuggito a Parigi nel 2005. Ma quel che conta è che a Daraa, Latakia, Hama e altrove si è formata una radicata ed eroica leadership locale. Un interlocutore più che valido, se solo si volesse. La Lega araba, naturalmente, tace. Che cosa direbbe la Lega araba? Per ora, è come se non esistesse. Tace, e tacciono le capitali arabe, al massimo esortazioni a Bashar el Assad perché avvii riforme, sì che Damasco non ha oggi neanche il fastidio di relazioni interarabe tese mentre maciulla città e manifestanti con i suoi carri armati. Due le eccezioni: la vicina Turchia, con un Tayyip Erdogan che ha scoperto che “l’eterno amico siriano” su cui aveva impostato addirittura il baricentro della sua espansione “neo ottomana” in terra araba è inaffidabile, che poco può fare, tranne occupare, in via solo difensiva, una striscia di Siria, ma che certo non può intervenire militarmente su Damasco. Interviene al massimo invece l’Arabia Saudita, ma al coperto: finanzia, aiuta, arma la resistenza contro l’odiato Baath (in Siria agiscono effettivamente piccoli gruppi armati di resistenti, che hanno ucciso centinaia di militari, non sono invenzioni del regime) e punta a riprendere il controllo politico del Libano. Ma lo fa sottotraccia, senza apparire; attende per esporsi – al solito – che altri si scoprano e impieghino alla luce del sole la forza per abbattere un regime sempre mal tollerato. Tace il Qatar, che pure ha manovrato come pochi in Libia, così come la Giordania e anche l’Iraq, che pure continua a soffrire gli attentati degli ex baathisti che hanno i loro santuari al di là del confine siriano. La ragione di tanto imbarazzo e silenzio è facilmente comprensibile: a differenza della Tunisia e dell’Egitto (e ancor più della Libia), la rivolta siriana dimostra ormai da 20 settimane di avere uno straordinario radicamento sia nel territorio, che nelle tribù. Quelle stesse tribù (come quella, grandissima, dei Shammar) che hanno i loro affiliati anche all’interno dei propri confini. Con la rivolta siriana, la paura del contagio, di una dinamica violenta, dal basso, è diventata frenetica in tutti i regimi arabi, in primis nei regni ed emirati del Golfo. Tutti vorrebbero la caduta di Assad, ma nessuno vuole che avvenga per mano di una rivoluzione popolare, degli emarginati, la prima, vera, in terra araba. E se non volessero loro? Il rischio, per la coalizione interventista, è di imbarcarsi in una campagna militare che gli stessi siriani oppressi ritengono quantomeno indesiderabile. Un dissidente di Hama, contattato al telefono dal Guardian ieri, l’ha detto chiaramente: “Vogliamo che l’occidente agisca, ma non chiediamo certo un intervento militare, non ne abbiamo bisogno. Ci serve pressione, piuttosto, una forte pressione politica su Damasco”. L’inconcludenza di mesi di raid Nato sulla Libia è stata d’insegnamento anche per il fronte d’opposizione in Siria. Alle perplessità dei dissidenti si vanno a sommare quelle dei cristiani, che, in quanto minoranza, si sentono più al sicuro se al potere c’è un’altra componente religiosa minoritaria, quella alawita, di cui gli Assad fanno parte. Senza contare che anche i sunniti più agiati stanno con il regime, in quella che sembra sempre meno una rivoluzione religiosa contro un despota di fede differente e sempre più una lotta di classe. Se e quando il regime degli Assad cadesse sfinito, dopo migliaia di raid alleati, a festeggiare in piazza potrebbero essere in molti meno di quelli che la coalizione aveva messo in preventivo.

AVVENIRE - Paolo Lambruschi : " Frattini: fermare i massacri, mettiamo Assad all'angolo " 


Franco Frattini

Il richiamo dell'ambasciatore italiano a Damasco Achille Amerio per protestare con forza contro la spietata repressione dei civili in Siria. E ancora, il sostegno ai cristiani perseguitati in Iraq e un primo volo di aiuti verso Mogadiscio con l'intenzione di incrementare l'impegno. La giornata di ieri ha segnato un'intensa attività diplomatica di segno umanitario. Con il ministro degli Esteri Franco Frattini parliamo delle decisioni prese dalla Farnesina, cominciando dal gelo sceso nei rapporti con Damasco.
Ministro, il deciso passo italiano di interrompere ternporaneamente le relazioni diplomatiche con Damasco sarà seguito dalle altre cancellerie europee? L:Italia ha voluto inviare un messaggio politico molto chiaro a Damasco e per rafforzarlo ha proposto il richiamo degli ambasciatori di tutti i Paesi dell'Ue in Siria. Noi abbiamo sostenuto le sanzioni europee e abbiamo scelto per primi di richiamare l'ambasciatore perché non potevamo restare inerti davanti a un simile massacro di civili. Ci sono stati 1600 morti, 14 mila feriti e tremila oppositori scomparsi nel nulla. Quando gli ambasciatori dell'Ue si sono ritrovati per protestare con il governo siriano, la posizione di condanna dell'orribile repressione era unanime. Poi ciascuno stato assume le posizioni che ritiene. Al momento, però, la Commissione europea ha deciso di mantenere il capo della delegazione diplomatica nella capitale siriana. Ripeto, si tratta di una decisione dei singoli Stati. Noi abbiamo congelato anche i progetti della Cooperazione per 50 milioni. Abbiamo mantenuto attivo solo un progetto per l'accoglienza dei profughi iracheni, ma certo un governo che massacra i civili non riceverà più un euro dall'Italia. Roma richiama l'ambasciatore dopo che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, riunitosi su richiesta della Farnesina, per ora non riesce ad approvare alcuna risoluzione di condanna. Cosa divide la comunità internazionale? Il timore di Russia, Cina e India di un'evoluzione del conflitto siriano sul modello libico. Noi crediamo che si debba arrivare invece a una risoluzione delle Nazioni Unite che imponga ad Assad di terminare la repressione cruenta. Ci sono gli estremi per deferire Assad alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità? Anche questa è un'iniziativa dei singoli Stati e del procuratore del Tribunale penale che ha tutti gli elementi per agire. Non è, però, l'unico fronte su cui agire per incrementare la pressione politica e diplomatica sul regime di Damasco perché cessi le violenze e apra un tavolo di trattativa con l'opposizione. Occorre convincere anche gli stati arabi e non solo le diplomazie occidentali a prendere una posizione forte. Veniamo all'Iraq. Ieri a Kirkuk un'autobomba ha colpito una chiesa cattolica causando 20 feriti. Cosa può fare l'occidente per far cessare questa persecuzione? Ribadisco, come ho fatto alle autorità religiose e civili irachene nella mia recente visita nel Paese, l'impegno del governo italiano per aiutare la comunità cattolica a restare. A Kirkuk in concreto pensiamo progetti concreti come la costruzione di un centinaio di alloggi per le coppie cristiane. Infine, la siccità nel Corno d'Africa. Stanotte è partito un primo cargo della Cooperazione Italiana per Nairobi. Come intende impegnarsi l'Italia? Stamane a Nairobi consegneremo alle autorità kenyane oltre 40 tonnellate di beni alimentari per contribuire a sostenere le oltre 440mila persone presenti nei sovraffollati campi di Dadaab. L'operazione ha un valore complessivo di oltre 200mila euro e si aggiunge agli interventi umanitari che la Cooperazione italiana ha da due anni in corso nell'area per un valore complessivo di 20 milioni. Sono previsti nei prossimi giorni altri voli umanitari e, a margine dell'Assemblea generale dell'Onu del prossimo settembre, l'Italia promuoverà con l'Uganda una conferenza degli Stati donatori. Ricordo anche l'impegno italiano per la sicurezza. Paghiamo infatti i salari a poliziotti e militari delle forze del governo di transizione per evitare che passino tra le file degli estremisti islamici di al Shabaab. E in Italia i carabinieri stanno addestrando gli agenti delle forze di sicurezza del governo di Mogadiscio.

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