Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 02/08/2011, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La coscienza nera delle Nazioni Unite paralizzate dai veti ". Dal FOGLIO, a pag. IV, gli articoli di Daniele Raineri titolati " Ora la Siria a secco di petrolio è appesa ai tormenti dell’iracheno Maliki " e " Se l'inflazione si mangia gli Assad ", l'articolo di Marco Pedersini dal titolo " Perché Ankara, unica speranza, non si muove? ", l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Altro che scontro di religioni, è lotta di classe ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La coscienza nera delle Nazioni Unite paralizzate dai veti "

Fiamma Nirenstein
Forse Bashar Assad ha intenzione di far fuori tutti i siriani e restare da solo a governare un Paese vuoto. E forse glielo lasceremo fare, data l'incertezza con cui tutto il mondo si gratta la testa mentre l'esercito fa le pulizie con i tank, i mitra, le bande che terrorizzano e uccidono chiunque si affacci per le strade.
Ieri è stata la quarta volta del Consiglio di Sicurezza Onu dall’inizio della rivolta, se non ne dimentichiamo qualcuna. Stavolta l'Italia e la Germania hanno chiesto di agire in fretta. Una richiesta analoga della signora Ashton, tuttavia, è accompagnata da terribili sanzioni europee: il congelamento dei beni e la proibizione a viaggiare di cinque persone associate al regime stragista. Gran cosa dopo che la settimana scorsa 27 Paesi avevano insieme dichiarato la loro condanna per il regime accusandola di «massacri indiscriminati» di civili nella città di Hama. Ieri sera, il Consiglio di Sicurezza ha mosso il suo incerto corpaccione dopo che il 26 maggio la Russia aveva bloccato una dichiarazione per paura di «causare una guerra civile». Poi, il 9 giugno è naufragato un progetto di risoluzione che accusava il regime di «crimini contro l'umanità». Sempre paura di «ingerenza esterna» come dicono Cina e Russia. Anche la Lega Araba, pur preoccupata, ha ribadito questo nobile timore in varie riprese. Il 9 giugno di nuovo, ecco l'esame di una bozza di risoluzione che sbatte come al solito contro il ventilato veto di Russia e Cina. Ora la Russia sembra averci un po' ripensato, ma l'istinto di proteggere il pilastro della guerra fredda in Medio Oriente, l'amicone dell'Iran, il protettore degli hezbollah e di Hamas, è fortissimo.
Insomma, che l'Onu possa o voglia cercare di salvare i siriani è assai dubbio: solo a maggio la Siria all’ultimo momento cedette il suo posto al Kuwait nel Consiglio dei Diritti Umani dopo che gli americani la spintonarono giù. Le fu promesso per il 2013. Ce la vedo proprio bene.
www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Ora la Siria a secco di petrolio è appesa ai tormenti dell’iracheno Maliki "

Daniele Raineri
Sono pochi i leader arabi ad aver subito tante pressioni dalle agenzie di sicurezza siriane come il primo ministro dell’Iraq, Nouri al Maliki. Quando viveva in esilio a Damasco, durante gli anni del regime di Saddam Hussein, Maliki era ospite frequente, “per una tazza di caffè assieme”, della Sezione 279, la branca delle forze di sicurezza della Siria che in teoria si occupa della sistemazione dei profughi palestinesi e iracheni ma che nella pratica li sfrutta e li manipola secondo il programma che il regime ha sulla regione. La Sezione 279 non perdona e non dimentica. A giugno ha fermato il parlamentare iracheno Ali Shalah, dello stesso partito del primo ministro iracheno, mentre stava passando per la Siria diretto in Libano. Shalah è stato portato al cospetto della Sezione e ha subito un’umiliante reprimenda per le sue critiche contro il presidente Bashar el Assad e il regime. Due giorni prima, con rilievo maggiore sui giornali e tutt’altro atteggiamento, il ministro degli Esteri siriano Walid Moallem si era recato a Baghdad per impetrare l’aiuto di al Maliki. “Ricorda – avrebbe detto il Moallem senza vergogna al primo ministro – di quando eri nostro ospite durante gli anni bui di Saddam”. Maliki ha dato l’impressione di avere accolto la richiesta di aiuto e ha risposto: “La sicurezza dell’intera regione è legata alla stabilità della Siria”. Damasco vuole da Baghdad una cosa sola: petrolio. E’ il suo punto debole. Il regime degli Assad ha finora mostrato una straordinaria resilienza alla rivolta popolare: l’establishment è compatto (o terrorizzato, che è la stessa cosa), l’esercito non mostra che segni minimi di cedimento e continua a sparare sui cortei. Ma il potere potrebbe presto afflosciarsi su se stesso, senza più denaro e energia per far funzionare la sua macchina della repressione. L’Economist spiega che tutti gli indicatori economici stanno virando al disastro, le vendite sono bloccate, i prezzi salgono, i lavori spariscono, i rifornimenti cominciano a mancare. Il giro di sanzioni economiche deciso da America ed Europa ha complicato ancora la situazione. La Siria, che mandava il suo greggio alle raffinerie di Francia, Olanda e Italia e poi lo riprendeva indietro come carburante, ora ha dovuto tagliare la produzione del 40 per cento, che vuol dire che ogni giorno mancano 80 mila barili di carburante rispetto a prima delle sanzioni (il consumo quotidiano è di circa 300 mila barili). E qui entrano in gioco la testa e il risentimento di Maliki. Il primo ministro iracheno sa benissimo che gli converrebbe aiutare il vicino siriano: come lui, anche Assad è un governante sciita (alawita, setta apparentata allo sciismo) in un mare di sunniti furiosi. Se a Damasco il regime cede e salgono al potere i sunniti, Maliki sarà tutt’altro che contento: uno stato popolato da sunniti scontenti, proprio confinante con la zona dell’Iraq, la gigantesca provincia dei sunniti di al Anbar, che crea più problemi al governo centrale – di Baghdad. Il rischio è che si crei una pericolosa saldatura di intenti tra le due comunità sunnite, quella irachena e qualla siriana, come già accadeva durante gli anni recenti della guerra quando guerriglieri attraversavano senza problemi il confine. Una notizia passata inosservata: un mese fa un oledotto iracheno che porta petrolio in Siria è stato fatto saltare in aria nei dintorni di Mosul. Si parla di un accordo già pronto: l’Iraq potrebbe trasferire 150 mila barili al giorno – pari al sei per cento della sua produzione quotidiana – in Siria, dice il canale al Arabiya, e così risolvere i problemi su quel fronte per il regime degli Assad. Ma fonti vivine al primo ministro iracheno dicono che Maliki, nel silenzio del suo palazzo, non abbia mai dimenticato le attenzioni pressanti della Sezione 279: “Ho passato tutta la vita a lottare contro un regime baathista in Iraq, perché ora dovrei aiutare il regime baathista siriano?”. Appeso a questo tormento di Baghdad, il regime siriano aspetta di conoscere la sua sorte, dopo aver perso gli altri amici di confine. La Turchia sta pensando seriamente di invadere una porzione di Siria, per tenere i profughi fuori dai propri confini. E l’alleato iraniano, sempre pronto a parole a correre in aiuto, è riluttante. L’ayatollah Khamenei ha annunciato il suo appoggio a un bailout tra despoti, un pacchetto da 5,8 miliardi di dollari per aiutare gli Assad. Ma per ora il denaro non s’è visto, sono arrivati soltanto esperti iraniani in intercettazioni telefoniche. Un po’ poco per sopravvivere.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Se l'inflazione si mangia gli Assad "

Bashar al Assad
L’uso spietato della forza militare per schiacciare le proteste dei siriani non è un problema per il presidente Bashar el Assad. Il sistema repressivo è determinato e per ora tiene, come dimostra l’offensiva contro Hama negli ultimi due giorni. L’esercito registra poche defezioni, le forze di sicurezza sono mobili e massacrano i civili anche se i focolai di rivolta sono distanti tra loro, da Hama che è quasi sulla costa del Mediterraneo a Deir ez Zour, vicino al confine iracheno, e smentiscono per ora chi sperava che i soldati fossero troppo pochi per tenere testa al bollettino delle proteste, il cuore del sistema regge perché la capitale Damasco è ancora tranquilla, tranne che nella periferia dei sunniti poveri che però non conta nulla. Il problema del regime è che l’economia della Siria sta implodendo, si sta afflosciando su se stessa e non c’è un rimedio pronto. I manifestanti non possono prevalere contro i carri armati e le mitragliatrici, ma stanno paralizzando il paese – che già di regola funziona male – e ora gli indicatori economici annunciano il disastro – secondo alcuni analisti sentiti da Reuters – “nel giro di quattro mesi”. Ayib Mayyaleh è il capo della Banca centrale della Siria ed è soltanto l’ultima di una serie di figure pubbliche chiamate a difendere la solidità del governo con argomenti disperati. Non è vero che tra un mese ci mancheranno i soldi per pagare i salari dei dipendenti pubblici e per rifornire i bancomat – ha detto pochi giorni fa – le voci in circolazione mentono, la Banca centrale ha nelle sue casse 197,6 miliardi di sterline siriane e la sterlina siriana è una valuta che regge. In realtà la sterlina siriana sta cedendo. Il suo valore si regge sulla fiducia che il siriano medio nutre in tempi normali nella longevità del regime e sui depositi che la gente comune conserva nelle banche del paese. Più i disordini si fanno intensi e gli scontri si allargano, più la fiducia viene meno e più gente si presenta agli sportelli per ritirare i propri risparmi e convertirli in un’altra moneta, soprattutto in dollari, per salvarne il valore. La conseguenza ovvia è che la sterlina siriana perde il suo peso e il dollaro ne acquista ancora di più. La Siria è un sistema chiuso e il tasso di cambio lo fissa il governo, che ha detto “non supererà mai le 50 sterline contro un dollaro americano”. E infatti oggi il tasso ufficiale è fermo a 47,5. Ma sul mercato nero, che ha il polso reale della situazione, il dollaro è già volato a 67 sterline, scrive il giornale libanese The National. Il deprezzamento è costante. Mayyaleh può sostenere a ragione che la Banca centrale è ancora seduta su sacchi di sterline siriane. Però la moneta vale sempre meno e arrestare trenta cambiavalute irregolari, come è successo in queste settimane, non cambia il dato economico. Per questo il regime due settimane fa ha chiesto un prestito di 105 milioni di dollari al Kuwait: con tutta quella moneta nazionale in caduta libera, ha bisogno urgente di valuta straniera e pregiata. Il governo ha provato a stabilizzare il valore della sterlina fin da marzo, bruciando settanta milioni di dollari a settimana, ma – secondo l’Economist – non credeva che la crisi sarebbe durata così a lungo. C’è un altro segno che la tranquillità del banchiere centrale è un bluff: il governo ha detto alle banche di alzare il tasso d’interesse sui depositi di due punti percentuali, per incoraggiare i risparmiatori a non ritirare il loro denaro. Secondo il Financial Times, già venti miliardi di dollari sono passati dalle banche siriane a quelle libanesi a partire da marzo. I soldi siriani si stanno spostando fisicamente in un altro paese (sul qutidiano arabo an Nahar, la giornalista Nadine Hani s’arrabbia: sono soltanto cinque miliardi di dollari). E intanto i siriani più furbi e spregiudicati prendono a prestito dallo stato: la scommessa è chiara, se il regime cade non dovranno restituire nulla. Hussain Abdul-Hussain, sul National, spiega che “le banconote siriane potrebbero presto non valere la carta su cui sono stampate. I siriani vedrebbero i loro risparmi svanire nello spazio di una notte e i salari diverrebbero inutili. Questa è la situazione che il regime degli Assad sta fronteggiando in questo momento”. Carl Phillips, il capo degli analisti sulla Siria per l’Economist, dice che “c’è il rischio che il governo finisca i soldi”. L’inflazione rende monco ogni tentativo del governo di assicurarsi la lealtà dei suoi alzando le paghe e concedendo favori: gli aumenti sono annullati dal deprezzamento della sterlina. Molto male, quando devi pagare un esercito in pieno assetto di guerra per fare violenza contro la popolazione. Molto male perché il settore civile della Siria, come accade in tutti i paesi arabi, è malato di elefantiasi e consuma un miliardo di dollari l’anno per il semplice fatto di esistere e di non produrre nulla – se non, in questi tempi, una blanda e muta solidarietà con il regime. Molto male infine perché a breve termine non c’è via d’uscita. Non entrano soldi. Il turismo, che assicurava il 12 per cento del pil, è virtualmente azzerato – i tour operator a Damasco e Aleppo dicono che la percentuale di camere libere negli alberghi è vicinissima a un surreale cento per cento. Il settore agricolo, che valeva un altro 18 per cento di pil, è devastato dalla siccità – e infatti la protesta è nata dalle zone agricole, esasperate dalla povertà e senza più nulla da perdere. Gli investimenti stranieri, forieri della tanto desiderata valuta estera, sono come il turismo: ridotti a zero – il banchiere centrale Mayyali, nelle sue accorate conferenze stampa, sostiene il contrario, “sono tutti rimasti con noi”, ma è costretto dal ruolo, sarebbe pazzesco se ammettesse la verità. Resta il settore petrolifero, che conta per un buon quindici per cento delle entrate di Damasco, ma in questi mesi sta subendo un infarto per colpa delle sanzioni internazionali volute da Europa e Stati Uniti: il paese produce greggio, ma non ha raffinerie e ai consumatori arriva poco carburante. E in ogni caso, anche se la Siria fosse una democrazia di stampo svizzero, resterebbe un problema: le riserve sono in esaurimento.
Il FOGLIO - Marco Pedersini : " Perché Ankara, unica speranza, non si muove? "

Marco Pedersini
Roma. L’occidente è impotente davanti alla crisi siriana. L’unica possibilità di un intervento credibile e a breve termine è affidata alla Turchia: Ankara può creare con il suo esercito una zona cuscinetto in territorio siriano che funzionerà come una zona protetta per i profughi e i disertori dell’esercito in fuga dalle persecuzioni del regime. Tre mesi fa, durante un’intervista serale all’emittente Show Tv, il premier turco Recep Tayyip Erdogan aveva minacciato conseguenze se Damasco avesse represso le proteste con i carri armati e con la stessa ferocia dimostrata trent’anni fa a Hama. Si era appena al settimo Venerdì della rabbia siriano e i primi profughi iniziavano a passare il confine. Ieri, mentre a Hama morivano 150 dissidenti sotto i colpi di artiglieria e il numero dei profughi siriani saliva a 7.700, Erdogan ha aperto il vertice annuale con le Forze armate sedendo da solo a capotavola. Di solito nei quattro giorni in cui si discutono le promozioni ai gradi più alti dell’esercito il premier è affiancato dai vertici militari. Ma venerdì il capo dello stato maggiore, il generale Isik Kosaner, ha chiesto il congedo anticipato assieme con i comandanti della marina, dell’aviazione e delle forze di terra. Un gesto senza precedenti, che, nonostante la cautela massima – hanno annunciato il loro ritiro venerdì, dopo la chiusura dei mercati, e si sono assicurati che venissero designati dei sostituti entro l’apertura delle Borse, lunedì – sarà ricordato come la fine di un’era. “Erdogan ha spezzato la schiena all’esercito, che si è arreso al suo partito Akp”, ha scritto il tedesco Spiegel. Ieri, nella tradizionale visita al mausoleo di Mustafa Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, Erdogan avanzava da solo dietro alla corona di fiori. I vertici dell’esercito erano compatti dietro. Ora che ha spedito a processo 14 generali e ammiragli, insieme a 58 colonnelli, per le trame sovversive di “Balyoz”, Erdogan deve decidere se e come mantenere fede alla promessa di inizio maggio. L’opzione più anticipata è quella di mandare i mezzi militari di Ankara in territorio siriano a creare una zona cuscinetto (“buffer”) in cui ospitare i siriani in fuga dalla repressione. L’esercito turco sa come farlo, l’ha già fatto lungo il confine iracheno per fermare l’esodo dei curdi durante la prima guerra del Golfo. Fonti militari hanno parlato di una striscia larga una decina di chilometri, presidiata dalle Forze armate turche, che assicurerebbero ai profughi acqua e servizi di prima necessità. Al momento, i turchi sono gli unici in grado di ostacolare il dominio del regime degli Assad. Ieri l’Unione europea ha annunciato l’ennesimo allargamento delle sanzioni ad altri cinque uomini del regime – una mossa identica, venerdì, non ha impedito il massacro di Hama negli ultimi due giorni. La Germania ha ottenuto la convocazione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove però c’è da vincere l’opposizione di Russia, Cina e di un gruppo di paesi già ostili all’intervento in Libia – capeggiati dall’India, da ieri al suo turno di presidenza del Consiglio. Anche il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, si è affrettato a precisare: “In Libia conduciamo un’operazione basata su un mandato chiaro dell’Onu, con il sostegno dei paesi della regione. Queste due condizioni in Siria non ci sono”. Per Erdogan è arrivato il momento di decidere se dimostrare con i fatti l’inversione del rapporto di cordialità faticosamente instaurato con Damasco – sull’onda della dottrina della “profondità strategica”, a dicembre, si stava persino per affidare ad Ankara l’addestramento dei militari siriani, in alcune aree di cooperazione, lotta al Pkk in primis. Ieri il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu, ha criticato duramente Damasco. Erdogan si è limitato a celebrare i traguardi della nazione turca, in un messaggio sul libro dei visitatori al mausoleo di Atatürk.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Altro che scontro di religioni, è lotta di classe "

Carlo Panella
Roma. Il segreto della tenuta del regime siriano, rispetto al rapido sgretolamento di Tunisia e Egitto, è svelato dall’assenza di proteste consistenti nei centri di Aleppo e Damasco. Quella siriana è una rivolta dei poveri contro i ricchi, una rivolta orizzontale. Nulla a che fare con l’interclassismo a segmenti verticali di piazza Tahrir, là dove, come testimoniava il multimilionario Naguib Sawaris “tutti gli amici dei miei figli ricchi sono andati a protestare”. Non è, come si dice, una rivolta di sunniti contro alawiti, ma la ribellione della maggioranza dei sunniti, turcomanni, drusi e curdi, contro una minoranza di alawiti, sunniti e cristiani. Le trame complesse della società siriana si possono delineare partendo da un dato di fatto: sino agli anni Trenta del Novecento gli alawiti – setta oggi al potere – erano considerati dai sunniti dei kafirin, empi, falsi musulmani. Gli alawiti venerano una trinità di principi divini (sole-Maometto, luna-Ali, cielo-Allah) credono nella metempsicosi, non hanno moschee e praticano culti misterici. Da un punto di vista sociale, questo comportò la loro piena esclusione dalla proprietà terriera, dal controllo dei commerci e dal non insignificante capitale finanziario che si era accumulato a Damasco e Aleppo, sino a quando, nel 1936, una fatwà del Gran Muftì di Gerusalemme, li reintegrò a pieno titolo nella comunità musulmana. Questo ingresso tardivo nel consesso nazionale produsse una forte integrazione degli alawiti nel tessuto statale che crebbe a dismisura con la fine del mandato francese nel 1946 (il 10 per cento dei siriani è dipendente statale). Conquistato il potere con un golpe nel 1970, Hafez al Assad (comandante dell’aviazione, padrone del Baath e membro del Consiglio che dirigeva la comunità alawita), conquistò il pieno favore dei latifondisti sunniti che erano stati espropriati dalla riforma agraria socialisteggiante del 1963, così come dei grandi commercianti, dei pochissimi industriali e dei grandi banchieri sunniti. Le èlites siriane sunnite avevano sofferto delle privatizzazioni degli anni Sessanta e si strinsero attorno al Baath di Assad che riprivatizzò parte dei latifondi, così come le altre grandi proprietà patrimoniali e finanziarie, nazionalizzate dai furori socialisteggianti dei suoi predecessori nasseriani, lascito infausto della Rau, la fusione tra Siria e Egitto. Si formò così una asabyyia, una comunità d’interesse che ha unificato i vecchi ceti dominanti della società siriana – residenti a Damasco e Aleppo, città in cui la rivolta non ha fatto presa – ai nuovi “crony capitalist” che hanno consolidato affari, prebende, carriere e appalti del regime in quello che viene chiamato “velvet capitalism”, là dove per velvet si intende “damaschino”, dalle trame fini e multicolori, in cui i cristiani sono trama e ordito. Il tutto è intrecciato a sua volta con la struttura tribale: le confederazioni alawite (Haddadin, Khayatin, Matawra e Kalbyeh) e quelle sunnite (Bani Khalid, al Mouali, Bakkara, Bouchaban, al Daim, al Aqidaat, Harb, al Fadla, Aduan, Anza, Shammar, al Fara e Jabour), tutte poi suddivise in clan. Esattamente come in Iraq (ma sicuramente meno che in Libia, paese ben più arretrato sotto tutti i profili) questa struttura tribale ha ancora un suo consistente peso nel tessuto politico della Siria, sì che lo scorso 10 giugno fu proclamato “venerdì di protesta delle tribù, con un appello firmato da esponenti di 16 tribù sotto la guida dello sheikh Ali Issa al Ubeidi. La decisione del regime di arrestare domenica lo sheikh Nawaf al Bashir, a capo della più grande confederazione tribale dei Bakkara (sunniti) – un milione di membri – nonostante la minaccia di una risposta armata da parte della tribù, indica come il vertice del regime continui a valutare – forse non a torto – di poter godere di un solido consenso da parte di buona parte delle classi dirigenti siriane, anche sunnite.
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